02 dicembre 2020

Eremita. Dialogo

 

Antonio Galateo

Eremita. Dialogo

a cura di Nadia Cavalera

Roma, Fermenti, 2020

 

Scrittrice, giornalista, saggista, fondatrice e direttrice con Edoardo Sanguineti del quadrimestrale di scrittura e critica «Bollettario», Nadia Cavalera volge in un italiano moderno ed efficace (tenendo presente il codice L III 31 della Biblioteca El Escorial, adottato da Sebastiano Valerio per la sua edizione critica del 2010) il Dialogus de Heremita, composto tra il 1495 e il 1498 dal massimo umanista salentino Antonio De Ferrariis detto il Galateo (Galatone 1444 o 1448 - Lecce 1517), suo concittadino. Opera definita da più d’un critico scomoda se altre mai e persino un prodromo del luteranesimo per l’orrore — espresso con un linguaggio diretto, spregiudicato, a tratti scandaloso e violentissimo — contro la decadenza morale della Chiesa, per la rivendicazione della libertà di pensiero e per la nostalgia d’un cristianesimo povero e primitivo, concentrato non sulla materia ma sullo spirito: idee e comportamenti che di lì a poco la Controriforma condannerà alla massima pena. Con Heremita — scrive lo storico tedesco Eberhard Gothein — l’autore «ha domato il clero, ha rigettato la tradizione, ha circoscritto l’autorità in una sfera ristretta, ha esercitato un’acuta critica anche sulle figure della Bibbia e ha tentato di spiegare con la filosofia i dommi del cristianesimo», firmando «il più notevole prodotto del Rinascimento».

 

Questo, in estrema sintesi, il plot del dialogo satirico. Un eremita salentino in odore di santità, alter ego dell’autore, muore e la sua anima viene contesa tra un angelo e un demone. L’eremita fa per entrare in Paradiso seguendo un gruppo di beati, ma viene respinto fermamente da San Pietro, maschera di Papa Alessandro VI, perché indegno d’un tal premio. L’eremita gli rivolge mille accuse e replica con veemenza che altri assai meno retti di lui godono dell’eterna beatitudine («Tu oggi non mi caccerai. Mi hai disgustato, Pietro! Infatti non sembri ricordare di essere nato da ignobile ed abiettissima schiatta»). Allora il Gran Guardiano convoca santi e beati affinché dialoghino con lui per valutarne i meriti. Ma non serve a nulla: il verdetto è che all’eremita non spetta la gloria eterna. Alla fine interviene la Madonna, che rimprovera San Pietro e decreta l’ingresso dell’anima in Paradiso.

 

Così la traduttrice interpreta la disputa iniziale tra il protagonista e San Pietro:

 

PIETRO: Forse che io non ho lasciato tutti i beni?

EREMITA: Quali? la barca scassata, le reti rotte, i pani del pescatore? Ma poi diventasti commensale di una lauta cena; avesti, in luogo del bastone e della bisaccia, sedie dorate e ricchissimi scrigni colmi di denaro; mense ovunque apparecchiate e banchetti sacri non pagati, vestiario gratuito. Tutti ti abbracciano, tutti ti venerano, tutti ti adorano, tutti baciano i tuoi santissimi piedi; i re, nudi, ora vengono al limitare della tua porta; ti è ospitale tutta la Giudea, anzi tutto il mondo, mentre prima vivevi alla giornata, sotto le stelle, e, venduti pochi piccoli pesci, a stento ti bastavano quei pochi denari per comprare un pane d’orzo. Non tu dunque seguisti Cristo, ma Cristo seguì te; tu riportasti grandi premi dalle fatiche e dalle buone opere di Cristo, e dai miracoli che egli stesso aveva fatto. Queste chiavi, che tu porti, erano una volta di ferro, oggi sono d’oro. Queste provocano le guerre, queste turbano tutta la cristianità; queste, per pubblica voce, sovvertono dal fondo la nostra fede; e a queste non basta in preda tutto il mondo. Le tue vesti erano da marinaio, ora sono di porpora e d’oro. A stento avevi un berrettto per coprirti il capo ed ora incedi ornato di gemmato diadema. Tu mangiavi erbe senza olio, condite di sale soltanto, ed ora i fumi delle tue cucine salgono fino al cielo.

PIETRO: Questo meritarono la fede e le mie buone opere.

EREMITA: Questo in verità meritò la tua fede, quando prima che cantasse il gallo negasti tre volte Cristo che ti aveva sfamato; o quando, malfermo nella fede e vecchio incostante, sei stato quasi sommerso dai flutti; o quando fuggisti dalle carceri; o quando ti nascondesti nelle spelonche di Antiochia e poi di Roma per non morire per lui che è morto per te affinché diventassi padrone di tutte le cose; che apparve a te sebbene fuggitivo e ti disse che sarebbe andato a Roma per essere di nuovo crocifisso. Ciò per sottolineare la tua ingratitudine, per non dire perfidia.

PIETRO: Proprio me chiami perfido?

EREMITA: Perché non dirlo, se lo sei stato? Questo è il luogo in cui liberamente e semplicemente possiamo dire la verità.

 

Originale e degna di studio la tesi sostenuta dalla curatrice, e cioè che Giovanni Della Casa (1503-1556), autore del Galateo overo de’ costumi, pubblicato postumo nel 1558, non potesse non conoscere l’opera del De Ferrariis per i seguenti motivi:

a) il titolo del manuale si deve all’intenzione del Della Casa di omaggiare il vescovo di Aquino e poi di Sessa Galeazzo Florimonte: «Ma come non dubitarne, visto che l’origine di Galeazzo […] è Galeatus? Perché dunque ‘Galateo’? Per innocenti inversioni linguistiche maturate negli anni? O non piuttosto per il preciso sotteso fine di richiamare, per coprirlo e colpirlo, il nome dell’umanista che tanto scandalo aveva portato negli ambienti del tempo per la sua lingua onesta e sciolta da ipocrisie contro una Chiesa debosciata?»; b) Heremita ebbe una diffusione esclusivamente clandestina a causa degli audacissimi temi trattati, ma è noto che nel 1510 Antonio Galateo ne donò una copia manoscritta a Giulio II: «Possiamo mai pensare che [il nunzio apostolico di Venezia] Della Casa l’ignorasse? No. È più facile credere che da autore satirico qual era stato (non vanno dimenticate le rime burlesche), dal temperamento iroso, abbia escogitato il libro di buone maniere per assolversi […], compiacere la Chiesa e dare un’elegante frustata di stile, con conseguente eclissamento, allo scostumato galatonese. […] Grazie all’operazione di Della Casa, il Galateo umanista è stato espropriato del suo nome e della sua identità in maniera pressoché definitiva, e la sua conoscenza resta in un ambito ristretto, nonostante gli sforzi di molti valenti estimatori, tra cui in primis il conterraneo Vittorio Zacchino, con numerosi studi e iniziative tese alla sua rivalutazione».

 

 

Riferimenti bibliografici

 

Antonio Galateo, Eremita, ed. critica a cura di Sebastiano Valerio, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2010.

 

Eberhard Gothein, Il Rinascimento nell’Italia meridionale, Firenze, Sansoni, 1915, p. 185.

 

Vittorio Zacchino, Verso Antonio Galateo, Galatina, Edizioni Panico, 2001.


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