21 dicembre 2020

Il tempo non esiste. L’uomo nell’eterno presente

Rossano Baronciani

Il tempo non esiste. L’uomo nell’eterno presente

Firenze, Effequ, 2020

 

Si fa presto a dire “Non ho tempo”. Anche per non averne, bisogna partire dal presupposto che esista. Su questo fronte si potrebbero scomodare frotte di filosofi, oltre che Albert Einstein con la sua teoria della relatività. Però tutti sappiamo, a prescindere dalle citazioni, che quando siamo bambini il tempo appare “lunghissimo”, mentre – man mano che i decenni avanzano – gli anni, i mesi e i giorni si comprimono in modo piuttosto seccante. Rossano Baronciani – docente di Etica della comunicazione e Antropologia culturale (all’Accademia di Belle Arti di Urbino) e saggista – nel libro Il tempo non esiste. L’uomo nell’eterno presente prende posizione fin dal titolo. E non fa sconti fino all’ultima delle trecento pagine del denso volume, diviso in due sezioni.

 

L’autore parte proprio dai ricordi infantili, dalla memoria delle esperienze con suo padre e sua madre, per inerpicarsi fino ai giorni nostri. Così mette insieme storia e memoria, arte ed estetica, antropologia e studi culturali (intesi come cultural studies, quelli dedicati a fenomeni e pratiche della società e della cultura contemporanea in una prospettiva sociologica/critica). Il filo conduttore è questo: travolti e trascinati nel flusso ininterrotto di stimoli – dalle dirette televisive ai reality show, dagli onnipresenti social network all'alluvione quotidiana e internettiana di news e di immagini – noi sacrifichiamo una visione generale delle cose, del passato e del futuro. Cosicché ci sembra di essere confinati in un presente che si ripete continuamente; sensazione accentuata ultimamente, diciamocelo…, dai tempi surreali che ci ha imposto l’emergenza sanitaria.

 

Baronciani utilizza qualsiasi spiraglio più o meno grande – per esempio la pittura, la musica, la filosofia, la psicologia, il cinema, la fotografia, il web, la letteratura, la guerra, il sesso, il cibo, la politica, la cronaca – per farci attraversare lo specchio; lì troppo spesso guardiamo la nostra immagine riflessa, pensando che quello che c’è da capire (o da provare a capire) sia soltanto su quella superficie. È interessante, a questo proposito, quello che accade da quando siamo diventati il riflesso di noi stessi, nel nostro quotidiano “spiegarci” e “descriverci” sui social network, in cui “tutto si consuma nell’attimo in cui accade”, sacrificato sull’altare del “narcisismo digitale”. Niente di nuovo, per lo meno dal mito di Narciso in poi. Se non fosse che quei mezzi moltiplicano all’ennesima potenza la nostra umana vocazione ad esibirci, spesso proponendoci diversi rispetto a quello che ci sentiamo. È in questo labirinto che nascono, ci dice Baronciani, anche i tuttologi imbizzarriti e gli odiatori online, gli haters.

 

Su questi ultimi, gli haters, si concentra l’attenzione. In particolare, è significativo andare a guardare chi sono coloro che sul web augurano, per esempio, la morte ai migranti che naufragano in mare: si va sui loro profili social ed ecco apparire persone che fanno mestieri normali e hanno vite più che regolari; magari si vede la loro foto durante un pellegrinaggio a Medjugorje. Eppure scrivono frasi violentissime. Quindi bisogna chiedersi se siamo circondati da psicopatici in libera uscita; oppure se è lo strumento utilizzato a produrre quel tipo di linguaggio, inibendo, secondo Baronciani, i processi di rispecchiamento empatico, la capacità di comprendere in modo immediato lo stato d’animo e la situazione emotiva di un’altra persona.

 

Si arriva, inevitabilmente, alle fake news: le menzogne che trovano nella Rete tutto il concime di cui hanno bisogno per crescere e moltiplicarsi. Si alimenta così “un fascismo digitale… vere e proprie azioni violente… un’intolleranza che si attualizza… soprattutto nelle società e nella politica”. L’autore scrive che “gli haters svolgono azioni paragonabili allo squadrismo: possiedono una forte connotazione ideologica legata a un preciso ordine simbolico..., frequentemente vengono aizzati ad arte, e si scagliano a sciame contro chi è stato individuato come il nemico”. Un anatema contro il web? Macché. Lungi da considerarsi un suo avversario, l’autore sostiene che bisogna semmai avere consapevolezza di come funziona e insegnare a usarlo; perché “attualmente i social media sono un finto luogo di dibattito… creano continuamente l'illusione del confronto e del dialogo, mentre in realtà generano lo scontro e la fine dell’alterità”.

 

In conclusione, la domanda principale suggerita dal libro è questa: come difendersi dall’abolizione del tempo, se lo intendiamo come occasione per elaborare il passato e per poter realizzare un futuro? Come ritornare ad affrontarci – magari anche con toni accesi ma costruttivi – sulle grandi questioni? Baronciani, nel capitolo “Una necessaria utopia”, consiglia di ripensare proprio il web. Facendolo diventare un posto in cui si possa collaborare sul serio per cercare di affrontare tutti assieme i problemi, inclusi quelli che la promiscuità online induce: dalla dolorosa “solitudine di massa” fino alla “società pornografica”, dominata dalla prepotenza dell'apparire. Quest'ultima ispira il titolo della seconda sezione del volume, in cui si legge che, quando “ogni immagine, notizia o informazione viene pensata e riprodotta per esibire ed eccitare, proprio quello diviene il luogo in cui ogni contenuto legittima l’osceno”.

 

Non passa inosservato, nel libro, l’escamotage suggestivo attraverso il quale il saggista ha deciso di affrontare temi tanto attuali quanto complessi: è partito da esperienze e ricordi autobiografici, oltre che da fatti più o meno attuali, per arrivare a osservare e analizzare dall’alto fenomeni sociali e culturali di larghissimo respiro. L'inserimento di parti narrative accanto a quelle di tipo argomentativo serve proprio per garantire una migliore e maggiore fruibilità del testo: così la trattazione diventa più “popolare”, tanto che il volume è ospitato nella collana “Saggi pop” della casa editrice Effequ. Così ecco il ricordo del padre, talmente appassionato di fotografia – quella di una volta basata sulle pellicole e la camera oscura – da “costringere” il piccolo Rossano a fare da modello durante interminabili prove. Perché la fotografia era allora un modo per cristallizzare la memoria e perpetuarla. Questo evento – contrapposto al modo evanescente con cui oggi si fotografa digitalmente, per “consumare” all’istante le immagini sui social – consente di ragionare sull’importanza dei concetti di memoria e di storia e anche sulla differenza tra “guardare” superficialmente e vedere sul serio. L’obiettivo? Riuscire ad avere di nuovo, finalmente, una visione del futuro.


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