Daniele Piccini

Luzi

Roma, Salerno Editrice, 2020

Il close reading, e si dica pure il corpo a corpo di Piccini, filologo e critico di rara sensibilità e acribia, col gran fiorentino, testimone del Novecento se altri mai, non lascia nulla di inesplorato. Si comincia con La vicenda umana e letteraria, scandagliata in ogni minimo particolare (dagli anni della formazione all’ingresso nel gruppo degli ermetici fiorentini, fino alla Stagione della piena ed estrema maturità) per poi sottoporre ad analisi altrettanto minuta che stringente tutte le opere poetiche. Dalla prima, breve raccolta La barca, data fuori nel 1935 da un Luzi poco più che ventenne, sul tema della presenza femminile (un discorso «che qualifica come momenti inscindibili presenza e assenza, realtà oggettiva e verità piena, dolore dell’esistenza e allegria […]. Il trascorrere, il trapassare, l’insidia del tempo sono resi evidenti a fianco di un’idea germinale del loro superamento nel segno della femminilità», p. 120) a Avvento notturno (1940), contrassegnata, a differenza della silloge d’esordio, da strenuo oltranzismo espressivo tanto nel lessico quanto nell’orditura sintattica e nell’apparecchiatura retorica, con vistosi effetti di straniamento («La tessitura dei componimenti poetici si fa esotica […] e sempre più rarefatta, come a costituire un mondo irrelato, chiuso nel suo sogno, forse nel suo incubo», pp. 137-38); da Un brindisi (1946), composta a cavallo del secondo conflitto mondiale, giustamente considerata quasi una prosecuzione dell’opera precedente, ma caratterizzata da una maggiore urgenza e affabilità comunicativa, a Quaderno gotico (1947), canzoniere erotico sui generis perché «più che vicende, azioni, concrete epifanie […], la sequenza è costituita da quella che potremmo definire l’evocazione dell’oggetto d’amore. Esso, infatti, non si offre pacificamente, ma, nei testi poetici, è come continuamente suscitato e revocato in dubbio, fatto balenare e dissolto nell’assenza: compare e scompare, quasi come se fosse e non fosse il centro del discorso, costituendone magari, piuttosto, il movente, la scaturigine» (p. 158); da Primizie del deserto (1952), silloge purificatoria, «quaresimale (un tema che rintocca nella raccolta, insieme a quello dell’esilio). Solo che non vi è certezza d’altro. Non vi è patria ulteriore, che richiami a sé, non c’è ritorno a un luogo edenico. La necessità è quella di aderire al ciclo dell’esistenza, anche ora che esso si manifesta nella sua invariabilità, nella sua neutralità» (p. 165) a Onore del vero (1957), che col libro precedente forma un dittico, ma al vuoto subentra imperioso il senso dell’altro da sé, «insomma il mondo che, sia pure per entità rappresentative, comincia ad essere attraversato […]; non è solo questo. C’è anche il lavoro sotterraneo dell’intelligenza di sé e del diverso, che sfocia nella capacità di intendere, sotto l’apparente inanità dell’immobile mutamento […], un senso possibile, anche se magari non ancora penetrato», pp. 174-75); da Nel magma (1963), primo passo di Luzi verso la prosa: scelta di grande importanza perché compiuta da un autore nato da un’adesione plenaria alla poesia cosiddetta pura («Ma qui siamo di fronte a una sorta di vera e propria rottura degli equilibri, perché la prosa entra nella poesia, ne scompagina la partitura, senza che al suo posto si installi una prosa di ispirazione poetica», p. 184) alla plaquette del 1965 Dal fondo delle campagne, in cui si fa esplicito quanto solo tenuemente accennato in Onore del vero, ossia «l’attesa di una compiutezza, per il senso non futile del lavoro dell’uomo, della sua fatica, che arriva a una formulazione quasi proverbiale: “Sia grazia essere qui, / nel giusto della vita, / nell’opera del mondo. Sia così”» (p. 178); da Su fondamenti invisibili (1971), la cui novità è rappresentata dalla struttura dei tre poemi che ne costituiscono il centro («I tre poemi sono tali in forme, d’altra parte, contaminate: derivano, cioè, dal montaggio e dalla cucitura di brani e frammenti, di lacerti testuali che vengono collocati di seguito a costituire il filo di un’unità poematica frastagliata, franta, imperfetta», p. 199) a Il fuoco della controversia (1978), in cui il motivo dell’enigma e dell’inafferrabilità si fonde perfettamente con la meditazione sugli strumenti e i modi del poetico («In effetti la poesia-conoscenza, la poesia-pensiero, tentata nei poemi ha fatto un tutt’uno di argomento e mezzo: la speculazione sul mondo in forma fluttuante, instabile e fluida, si agglutina allo strumento linguistico, agli strumenti poetici che servono a quella speculazione», p. 209); dall’ampia raccolta Per il battesimo dei nostri frammenti (1985), sul «vangelo sepolto e da ritrovare (anche nel senso di spirito, di soffio alitante nel verbo, nella parola) […]. [S]cartato il modello irrealizzabile del poema risolutivo e concluso nella sua compiutezza strutturale e teologica, Luzi riparte dai “frammenti”, da ricomporre e ricostituire in una forma tendenziale di unità nel libro» (pp. 216-19) a Frasi e incisi di un canto salutare (1990), macrotesto sul tema del ricongiungimento («[L]’evento, il trasformarsi, il vivere e morire delle creature, è insieme anche un progressivo ricongiungersi di ogni cosa alla totalità in movimento», pp. 229-30); da Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini del 1994 («Dietro la maschera del pittore e della sua piccola compagnia il poeta può […] affrontare il motivo del ritorno alla maternità di Siena, all’iniziazione alla vita, recuperandolo da una sapienza acquisita attraverso il tempo e l’esperienza del mondo. Insomma, è presente il tema di una sorta di ritorno alle origini che, per il poeta a questa altezza cronologica, significa anche un testamento e una propensione al senso ultimo», p. 237) a Sotto specie umana (1999), che in qualche modo compie il lascito testamentario del libro precedente: il poeta approda alla consapevolezza di esser giunto alla fine del viaggio, «il che è motivo di una riflessione serrata sul nodo tra identità personale e verità cosmica, sull’inveramento del destino singolare nella vicenda universale» (p. 244); da Dottrina dell’estremo principiante (2004), nel quale Luzi tocca un «punto-limite», evocando «al culmine della propria meditazione artistica, quell’oltre a cui non può approssimarsi veramente, a cui non può propriamente accedere» (p. 254) al postumo e incompiuto Lasciami, non trattenermi (2009), costituito da inediti parte dattiloscritti parte autografi («Le strutture della poesia ultima di Luzi [la compresenza di termini oppositivi, l’invocazione] sono ancora riusate qui in funzione di una estrema sottolineatura della ossimorica “santa nullità”, che è il punto cui per certi versi tende la parola luziana: per compiersi, la singola esistenza si deve ricongiungere e riconciliare con l’altro da sé, con il tutto, riconoscersi minima fino all’estrema povertà», p. 261).

Di pari intelligenza i referti critici sulla non secondaria produzione teatrale (Pietra oscura, 1947; Ipazia, 1972; Rosales, 1983; Hystrio, 1987; Il Corale della città di Palermo per S. Rosalia, 1989; Felicità turbate, 1995; Opus florentinum, 1999-2002; La passione, 1999), sulla prosa creativa (Biografia a Ebe, 1942; Trame, 1963-1982) e saggistica (Guida all’interpretazione di Raffaello Sanzio, 1934; L’opium chrétien, 1938; Un’illusione platonica e altri saggi, 1941; Vita e letteratura, 1943; L’inferno e il limbo, 1949; Studio su Mallarmé, 1952; Aspetti della generazione napoleonica, 1956; Lo stile di Constant, 1962; Tutto in questione, 1965; Discorso naturale, 1984; Scritti, 1989; Naturalezza del poeta, 1995; Vero e verso, 2002).

Segue un’ampia bibliografia ragionata degli scritti di e su Luzi.

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