Claudia Bianchi

Hate speech. Il lato oscuro del linguaggio

Bari-Roma, Editori Laterza, 2021

“Come sta la tua recezione?” No, non ho sbagliato a scrivere. Questa è la domanda che, secondo il filosofo del linguaggio John Austin (1790-1859), ognuno di noi dovrebbe capire nell’altro (il destinatario) quando accoglie il nostro messaggio. Come? Se il feedback è in linea con la nostra intenzione siamo a cavallo. Se per esempio io, colonnello, ordino ai miei soldati di sparare sulle truppe nemiche e questi sparano e fanno ciò che è stato richiesto, abbiamo un esempio di atto linguistico illocutorio riuscito. Ma sappiamo che non sempre è così. Quando accade, si parla di misfire, cioè “colpo a vuoto” o di abuso. Parolona esagerata per ciò che riguarda la comunicazione? Direi di no. Perché John Austin, con le sue riflessioni e soprattutto con il testo Fare cose con le parole ci ha (spero) svegliato su un aspetto da molti sottovalutato, che Claudia Bianchi, già nelle prime pagine di Hate speech (Laterza, 2021), affronta come premessa del suo saggio: «Gli individui non sono tutti uguali e le loro interazioni non avvengono tutte in situazioni ideali: una consapevolezza che ha faticato ad affermarsi anche in filosofia del linguaggio [...]. L’attenzione al linguaggio che usiamo sembra ad alcuni una questione di dettaglio, un capriccio degli adepti del politicamente corretto, quasi un lusso di fronte a sperequazioni economiche, discriminazioni sul posto di lavoro, crimini d’odio. Ma chi parla, soprattutto se da una posizione di autorità e soprattutto se in contesti istituzionali, ha una pesante responsabilità. Ciò che diciamo cambia i limiti di ciò che può essere detto», prosegue, «sposta un po’ più in là i confini di ciò che viene considerato normale, scontato, legittimo». Con le parole, insomma facciamo davvero cose, non pronunciamo suoni e basta.

Pensiamo a quante conversazioni intratteniamo ogni giorno con familiari, colleghi, amici. Quando una comunicazione può dirsi davvero efficace? Secondo la filosofia del linguaggio quando un atto linguistico soddisfa le “condizioni di felicità”, il che significa che da entrambe le parti ci si debba assumere le proprie responsabilità. Per esempio, mi assumo una responsabilità se capisco che non devo usare il termine “oftalmologo” mentre parlo con un bambino. Chi parla deve, affinché il suo atto illocutorio venga ben interpretato (ordine, richiesta, ecc.), soddisfare tali condizioni: «La procedura invocata dal parlante deve non solo esistere, ma anche essere usata in circostanze appropriate e da persone appropriate [...], la procedura deve essere eseguita correttamente e completamente, [...] deve essere eseguita con stati d’animo, disposizioni, credenze appropriate da parte del parlante». Inoltre il parlante potrà servirsi di formule performative esplicite (“Ti ordino di”), di contenuto (“sì”, “no”), glosse performative (“Questo è un ordine!”), indicatori sintattici (se voglio ordinare una cosa a qualcuno e uso il condizionale magari il destinatario se la prende, giustamente, con comodo...) e così via. Se consideriamo questo scenario così come ci viene presentato, potremmo essere indotti a pensare la comunicazione è un atto meccanico e rigido. In realtà, il processo linguistico e comunicativo è molto più naturale e vicino a noi di quanto pensiamo, soprattutto se pensiamo al fatto che «il linguaggio può essere identificato come uno dei luoghi chiave della discriminazioni e della violenza, che la filosofia del linguaggio ha il compito di svelare in tutte le sue forme».

Non mitigare mai un ordine!

Claudia Bianchi riporta un esempio di André Kukla (1942-) per spiegare un fenomeno ricorrente in molte delle dimensioni sociali in cui agiamo. Sì, con le parole. Immaginate che Clelia sia una manager in una fabbrica di macchinari pesanti, i cui operai sono quasi esclusivamente uomini. Il suo ruolo le dà l’autorità per impartire ordini. Clelia una mattina ordina ad alcuni operai di spostare le casse in un altro magazzino, ma questi assumono un atteggiamento particolare: non interpretano l’ordine come “ordine”, bensì come “richiesta”. La prendono dunque sottogamba. Eppure, Clelia ha invocato la procedura convenzionale dell’atto illocutorio di ordinare (usa l’imperativo, un certo tono di voce, espressioni del viso ecc.). La recezione da parte dei destinatari non c’è (uptake failure) e siamo così di fronte a un caso tipico di “distorsione illocutoria”, un fenomeno che coinvolge gruppi di persone che si ritrovano incapaci di compiere determinati tipi di atti linguistici a causa della loro identità sociale (genere, orientamento, etnia ecc.). Quello che qui va storto è legato proprio all’identità sociale del parlante, Clelia. L’ordine della donna non viene riconosciuto dai destinatari non perché gli operai sono stupidi (han capito benissimo!), ma perché sono immersi in stereotipi e pregiudizi. «Benché siano dotate dell’autorità necessaria e utilizzino le convenzioni associate in modo standard al compimento di atti illocutori, può accadere che le donne vengano interpretate come se stessero avanzando semplici richieste (atti che lasciano i destinatari liberi di soddisfarle o meno). Come conseguenza della loro appartenenza di genere, le donne vedono indebolita la forza illocutoria dei loro atti». In più, gli astanti, in un caso simile, hanno il potere di indebolire ulteriormente l’atto. Poniamo che gli operai rispondano a Clelia: “Dai, ridimmelo ancora!”. Clelia si trova in una situazione senza uscita: l’ordine, già declassato a semplice richiesta e ad atto non autoritativo rischia di modificare lo spazio normativo dell’ordine, che era nella sua intenzione. Se Clelia «sceglie di mitigare con formule di cortesia (“per favore”) e di esprimere gratitudine verso gli operai quando i suoi ordini vengono eseguiti, ne legittima l’interpretazione come richieste».

Capite quanto sia importante leggere i vari livelli della nostra comunicazione e di quella degli altri?

L’insostenibile pesantezza di giustificare un "no"

C’è un altro esempio, tratto da un classico della letteratura, che Claudia Bianchi riporta per spiegare quanto sia difficile in alcune situazioni “fare cose con le parole”. Nel capitolo 19 di Orgoglio e pregiudizio Elizabeth Bennet riceve una proposta di matrimonio da parte del sig. Collins, che ha ben poco di amoroso. La donna rifiuta con eleganza le sue parole, ribadendo che l’uomo è «troppo frettoloso», che lei «non ha dato alcuna risposta» e, soprattutto, che le è «impossibile fare altro che rifiutarla [la proposta]». A prima vista sembra tutto chiaro. Peccato che il sig. Collins continui a insistere, insinuando con le parole delle “cose”, cioè un sottotesto che assomiglia a un iceberg di pregiudizi sessisti e stereotipi di vario tipo, perché «[...] il linguaggio», ricorda Bianchi, «ha anche un lato oscuro. Esso svolge infatti un ruolo cruciale nel creare e rinforzare asimmetrie e ingiustizie sociali, nel diffondere e legittimare pregiudizi e discriminazione, nel fomentare odio e violenza». Il sig. Collins non solo insiste ma esplicita il suo pregiudizio: «“So bene, e non da ora, che tra le signorine si usa respingere la proposta di un uomo che esse intendono segretamente accettare, quando lui richiede per la prima volta i loro favori; e che talvolta il rifiuto è ripetuto una seconda e persino una terza volta. Non mi ritengo quindi minimamente scoraggiato da ciò che avete appena detto, e spero di condurvi all’altare quanto prima». La schermaglia va avanti, tra un “no” inequivocabile di Elizabeth e la sua interpretazione (“recezione”) da parte del cugino come un modo “di accrescere l’amore con l’incertezza”. Come nel caso degli operai, il sig. Collins svaluta la parola di Elizabeth, che non riesce ad avere un effetto su di lui, nonostante spieghi ripetutamente che il suo “no” è “no”. I casi estremi, poi, di “ingiustizia discorsiva”, sono quelli relativi alla “riduzione al silenzio”, «in cui chi appartiene a un gruppo discriminato  si ritrova a non riuscire a fare nulla con le proprie parole»

Vincere facile con la presupposizione

C’è poi un aspetto inquietante legato al lato oscuro del linguaggio, che riguarda armi invisibili, silenziose e potentissime: le presupposizioni. Anche se è vero che il discorso d’odio o hate speech è un fenomeno complesso che non è costituito solo dalle hate words ma riguarda sì gli epiteti denigrativi (termini che denigrano un soggetto appartenente a un’identità sociale, per genere, orientamento, etnia ecc.), «il contenuto denigratorio non è parte di ciò che l’epiteto dice, o esprime, ma viene veicolato dall’uso che di tale espressione si fa in contesto». L’odio viaggia su binari molto più ambigui, e riguarda anche frasi che non contengono epiteti ma che «consolidano credenze», spesso quando non ce ne accorgiamo nemmeno. Per esempio la frase “Obama è il primo presidente nero degli Stati Uniti” fa passare “I neri sono disprezzabili in quanto tali” come credenza comune, accettata dal parlante e dai destinatari, contemporaneamente. In questo senso una presupposizione «è più forte» e «più subdola di un’asserzione, perché l’informazione [presupposta] non viene messa al centro dell’attenzione del destinatario, non viene messa sotto un riflettore come accade per le asserzioni, ed è pertanto oggetto di minor vigilanza». In contesti simili, spiega Bianchi, occorre riflettere sulla nostra capacità di contrastare l’odio: «I cambiamenti in ciò che è legittimo nel contesto conversazionale non richiedono in alcun modo che gli astanti siano d’accordo con il parlante - basta solo che essi si astengano dal rendere pubblica la loro disapprovazione. Si tratta di una sorta di autorizzazione come risultato di un’omissione - omissione che può rendere gli astanti complici dell’atto di subordinazione, per convizione, superficialità, timore o vigliaccheria». Tra le soluzioni “attive” contro l’odio, Bianchi ricorda che è possibile bloccare questo “accomodamento” di contenuti dannosi che si annidano nei discorsi, a patto che non si usino le maniere forti, cioè dinieghi e/o negazioni. Non è la strada giusta. Tra le strategie efficaci ritroviamo però il blocking, che richiede l’esplicitazione dei contenuti dannosi (“Usando negro dai per scontato che ci sia qualcosa di male nell’essere nero”); commenti o negazioni metalinguistiche (“Non userei quella parola”, “È sbagliato usare insulti razzisti”); correzioni e riformulazioni, anche se bisogna fare attenzione al cosiddetto Streisand effect, «fenomeno per cui il tentativo di censurare o rimuovere un’informazione ne provoca invece ulteriore diffusione». Inoltre, sul web possono essere messe in gioco altre strategie opposte, come quelle di empatia e affiliazione, «che non rifiutano in blocco i contenuti controversi ma cercano di riformularli, stemperandone il tono ostile e minaccioso». Al primo posto, però, troviamo l’ironia. Un esempio vincente? Al commento di un utente “Il problema è: se gli uomini si sposano con gli uomini e le donne con le donne, chi farà figli?”, l’atleta e attivista statunitense Gus Kenworthy replica “Speriamo non tu”. Per cambiare le cose, però, ci vorrà molto tempo. Perché se, purtroppo, oggi è considerato “normale” assistere a un uomo bianco che urla a una donna araba in metropolitana “Sporca terrorista, tornatene a casa. Non abbiamo bisogno di gente come te qui”, dove la presupposizione che il parlante possieda autorità diventa parte del contesto condiviso (perché tutti se ne stanno zitti), non è considerato “normale” il caso opposto, quello cioè in cui la donna araba apostrofa “Sporco bianco, tornatene a casa…”. Bianchi ne chiarisce il fallimento comunicativo, affermando che un proferimento di questo tipo conta come “atto di subordinazione” solo «in contesti sociali in cui siano già ampiamente diffuse pratiche sistematiche di oppressione, legate a ideologie dominanti (più o meno esplicite) razziste». Ciò che manca nella seconda scenetta è una rete di credenze, comportamenti e norme sociali contro i bianchi. Ecco perché è importante allenare il nostro sguardo sul linguaggio: proprio perché, come di fronte a un iceberg, non ne vediamo sempre le componenti, che riposano da sempre su «pesanti storie di discriminazione, ostilità e anche violenza».