16 giugno 2021

Mabò lo straniero

Marino Piazzolla

Mabò lo straniero

Prefazione di Stefano Lanuzza

Roma, Fermenti, 2021

 

 

Rinvenuta tra le carte del poligrafo pugliese (San Ferdinando, 1910 – Roma, 1985) da Velio Carratoni, editore e presidente della Fondazione a lui intitolata, la silloge — anziché una sequenza di lasse dal respiro poematico, come potrebbe apparire a prima giunta — è una tormentata, straziante via crucis in 62 stazioni avente come protagonista la figura «d’un extracomunitario monologante sulla perdita di sé: uno sradicato forestiero, apolide o clandestino, étranger senza più ricordi e, nella sua desolazione di transfuga, spossessato di tutto. […] È un immigrato senza tutele, Mabò, un ‘invisibile’ relegato ai margini della polis; e che, nel nostro Paese, se non vaga sperduto per le strade, viene adibito alla raccolta della frutta o alle più ingrate manovalanze. […] Non possedere niente (“nulla è mio”), nemmeno l’essenziale, non appartenere all’ordine costituito è come ‘non essere’, stando chiuso nella prigione d’una solitudine senza scampo. […] Privo di domus, di lavoro, salario, contratto sociale, non organico al contesto, irregolare sans papier perseguito da un’intolleranza risalente alla storia dell’imperialismo colonialista infine compromessa col razzismo basato sull’idea di un’immaginaria, superiore ‘razza ariana’ all’origine della criminalità nazifascista, Mabò sconta il disagio indottogli dal sistema fino a perdere la propria identità di uomo»: così, benissimo, Stefano Lanuzza.

 

Formatosi a Parigi nei primi decennî dell’altro secolo a contatto di titani come Filippo Tommaso Marinetti, Paul Claudel, Paul Valéry, Jean-Paul Sartre, André Gide, Paul Éluard, André Breton, e poi di Vitaliano Brancati, Guglielmo Petroni, Ercole Patti, Rosario Assunto, Libero De Libero; autore di scritti saggistici, narrativi, filosofici, satirici e critici, nonché di celebrate raccolte poetiche (Lettere della sposa demente, 1952; Pietà della notte, 1957; Il Paese di nessuno, 1958; Gli occhi di Orfeo, 1964; Ballata per mille ombre, 1965; Gli anni del silenzio, 1972; Lo strappo, 1984; Sinfonie, 1984; Il pianeta nero, 1985), Marino Piazzolla è completamente ignorato dalle cronache e dalla storia letteraria benché rappresenti una delle voci più franche, candidamente esposte, traumaticamente scevre da intenti letterarî e grondanti vita del Novecento.

 

In Mabò lo straniero l’autenticità (che, sia chiaro, non costituisce affatto la conditio sine qua non della poesia, ma solo uno dei suoi possibili ingredienti) tocca il culmine, massime nelle “stazioni” in cui l’ideale comunista e l’orrore per lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo si fan carne e sangue (non sfugga, nel primo testo, la quasi totale assenza di provvedimenti metrici e retorici: quasi-rima «vie : vite», forti allitterazioni a legare i vv. 6 e 7 e poco altro; il secondo, il terzo e il quarto non sono che scabra prosa versificata all’insegna della massima potenza espressiva):

 

Posso creare tutto:

posso incidere

la mia forza sugli alberi

e sui muri.

Posso far muovere le vie,

mungere vino alla vite.

Posso strappare pietre alla casa.

Ma nulla è mio

tranne che la stanchezza

e il sogno d’essere un altro

soltanto al buio, la notte.

 

Ce ne vuole d’insonnia per capire

quanto siamo stranieri

gli uni agli altri.

Eppure il destino

dell’uomo lo fa l’uomo.

La pietà è ormai vecchia

e non serve a tirarmi

su dall’abisso

in cui ogni giorno

sprofondo perché sulla terra

vivano pochi padroni.

 

Le mie ferite no,

non buttano sangue:

sono da sempre cicatrici.

Sono ferite sepolte

nel punto che più m’appartiene.

Io che do tutto:

io che mi sveglio uomo

e torno a casa costretto negli stracci

e nella vecchia fame

non ho nulla. Nulla. Nulla.

Io, da tempo,

ho di mio l’ombra soltanto.

 

Ad ogni risveglio

mi tocca partire da me stesso

e affrontare il mondo,

pronto soltanto

a vendere la sola

forza dei muscoli

per masticare pane,

soltanto pane

avanzo d’una festa

feroce che sazia

ben pochi vivi.

 

«Fervidamente configurato dal poeta — continua l’ottimo prefatore, offrendo al lettore non solo comune la chiave d’ingresso dell’officina piazzolliana con l’indignazione e la veemenza che attraversa tutti i suoi scritti critici e polemici —, Mabò appare un simbolo posto a monito contro la nostra gabbata umanità del benessere, di un apparato sociale indifferente, restrittivo e gelido, impaurito, egoista e proprietario, compulsivamente consumistico e omologato; che prende le distanze da quanto appaia ‘diverso’ e, in nome d’una gelosa intangibilità, respinge o emargina lo straniero, l’hospes, riducendolo a fastidioso hostis (e osteggiato hosticus = ostile, antagonista, barbaro, minaccioso nemico), condannandolo al perpetuo esilio e obliterando, con le regole umane dell’ospitalità, i rapporti intersoggettivi e il confronto. Non un confronto, bensì l’antitesi e gli stereotipi dell’antagonismo è quanto si riserva allo straniero, impedendogli qualunque insediamento, estraniandolo e relegandolo in baraccopoli fatiscenti e periferiche, in quartieri privi di fognature, acqua potabile, elettricità, ambulatori medici, scuole: in ghetti malsani non diversi dagli slums dei subcontinenti del mondo». Referto impeccabile, cui aggiungeremmo una postilla: Mabò non designa soltanto il forestiero apolide e sradicato, esiliato e condannato all’emarginazione, simbolo di tutti gli ultimi del mondo, ma la condition humaine, che rende l’uomo irremissibilmente straniero a sé stesso, come provano le seguenti “stazioni”:

 

Mi è compagna l’ombra,

che sembra più viva di me

ai margini della via.

L’ombra che non ha pensieri

perché nessuno l’umilia

se vive come una macchia

sotto la macchia che sono.

 

 

Non impugnerò armi.

Non ucciderò il nemico, fantasma

dietro cui si nasconde

chi mi dissecca

il cuore e le ossa

addossando la ferocia

anonima al destino.

 

Mio è soltanto il rumore

dei passi che conducono

le mie mani pazienti

a impastare il calore del sangue

con tutte le cose

appese alle braccia degli altri.

 

 

Verrà il tempo

delle spighe per tutti

e dell’albero fratello

il tempo dell’inno

rivolto al sole

e della casa gentile.

Camminerò sull’erba

dritto sulla mia schiena.

Allora mie saranno

queste mani a cui la terra

deve frutti e bellezza.

 

 

 

 

 


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