Gualberto Alvino

La perfetta. Soliloquio infame

con un saggio introduttivo di Dino Villatico

Cosenza, La Mongolfiera, 2021

Il tema delle marginalità linguistica e della sua rappresentazione mi ha sempre affascinato, come affascina, credo, l’assoluta maggioranza dei linguisti; e talmente ampio e complesso è l’argomento, che non si può nemmeno sperare di poterlo riassumere nei suoi punti fondamentali, a partire dalla definizione del concetto stesso di marginalità secondo la percezione di chi si occupa di linguaggio.

C’è una marginalità diatopica ad esempio, che piace tanto ai dialettologi perché determina il conflitto costante, carico di implicazioni di ogni genere, tra la conservazione che nasce dalla mancata adesione ai modelli del centro motore di dinamismo e l’innovazione provocata dal contatto con l’alterità di codici differenti; c’è una marginalità diafasica, capace poi di assumere un proprio imprescindibile rilievo nello specifico spazio della comunicazione settoriale; c’è una marginalità diamesica che fornisce oggi abbondanti materiali a coloro che indagano sui sempre più labili confini tra oralità e scrittura; e c’è una marginalità diastratica, che può essere rappresentata dalla lingua dei “marginali” per estrazione sociale, ad esempio, o per classe di età, e che a sua volta si pone al centro, per così dire, di processi di identificazione e di auto-riconoscimento.

La morale è che ogni forma di marginalità linguistica ha in sé, a sua volta, caratteri di centralità in rapporto ai locutori, agli ascoltatori, al contesto discorsivo e così via: nulla di più marginale delle forme di espressione mediate da supporti elettronici in rapporto alle forme elaborate dell’oralità e della scrittura, ad esempio, ma nulla di più interessante e importante oggi del loro studio, quando si vogliano analizzare aspetti cruciali dell’evoluzione delle nostre esigenze comunicative e pronosticare le strategie destinate a soddisfarle.

Queste riflessioni sono (ri)sorte spontanee durante la lettura del «soliloquio infame» La perfetta, drammatizzazione che riprende la struttura monologica di un testo narrativo dello stesso autore, facendosi efficace «mimesi della narrazione», come ha scritto opportunamente Dino Villatico nel saggio introduttivo. E valgono anche in questo caso le avvertenze che Luigi Matt dedicava al romanzo del 2017, quando segnalava che «se il tassonomista della narrativa italiana contemporanea può senz’altro inserire Geco nel filone del romanzo della marginalità (quello che ha come padri putativi il Sanguineti di Capriccio italiano, il Lucentini di Notizie dagli scavi e il Celati di Comiche), dovrà però avere l'avvertenza di registrarvi una diversa resa stilistica, a cui è sostanzialmente estranea la riproduzione del parlato».

In La perfetta, infatti, lo sconnesso monologo di E, la protagonista, si svolge in una lingua che rimane sostanzialmente in bilico («in precario equilibrio» direbbe Matt) tra l’accorta costruzione che implica l’adozione del punto di vista dello scrittore e la libertà espressiva che è data dal fluire spontaneo di ricordi, invenzioni, pulsioni in cui l’autore si immerge nel momento in cui decide di dare voce a un personaggio a suo modo estremo, lontano dai convenzionalismi di quella rappresentazione del disagio alla quale ci hanno abituato molta narrativa e molta drammaturgia contemporanee, facili a cadere, se non nella commiserazione, in una rassicurante retorica dell’antiretorica. Tutto ciò implica appunto la centralità forte del linguaggio nella rappresentazione di un mondo (ogni personaggio letterario è un mondo, direbbe Borges) esplicitamente, vocazionalmente marginale.

Il fatto è che proprio l’irrinunciabile presenza dell’autore convoglia questo flusso narrativo in un argine ben delimitato, determinando a suo modo una stilizzazione del personaggio e una “trama”, circostanza che se proprio nulla sembra togliere alla veridicità (molto sgradevole, spesso) dell’io narrante, innalza pur sempre E a funzioni in qualche modo archetipiche, cogliendola in un segmento preciso del suo delirio, quello che all’autore interessa mostrare al suo pubblico, sia ciò per esigenza stilistica, per urgenza comunicativa o per soggiacente ambizione pedagogica.

Il disagio e la follia descritti nel monologo sono sì, dunque, espressioni di una marginalità di natura linguistica oltre che sociale, ma occorre guardarsi bene dal considerare La perfetta come un tentativo di rappresentazione priva di interpretazione e di interventi diretti, anche contundenti, da parte di chi si è assunto la responsabilità di riorganizzarli all’interno di uno schema narrativo: fa bene Villatico, in tal senso, a evocare Aristotele «quando scrive che la tragedia non è la realtà ma l’invenzione di una realtà possibile», ma mi sentirei di avvicinare a questo riferimento quello, per me non meno incombente, a Cervantes come artefice a sua volta di una follia plausibile e razionalmente concepita.

Spie di questo atteggiamento si colgono bene soprattutto nella lingua adottata dall’autore nella sua rappresentazione, per la quale, al di là dei riferimenti in certo qual modo imprescindibili ad alcuni illustri ascendenti (e Villatico cita correttamente Testori, Fo, Pasolini e soprattutto Gadda), occorre ancora una volta richiamarsi alla lettura fornita per Geco da Luigi Matt, nell’evocazione della ricorrente dissociazione tra «la raffinata cultura e l'emergere di modi plebei» quale si presenta, forse più ancora che in scelte lessicali tese a ricomporre efficacemente in senso unitario i cocci di un’esistenza in costante discesa, attraverso la costruzione della frase e del periodo, in cui nulla pare lasciato al caso, anche (o soprattutto?) quando si tratta di mimetizzare accuratamente, attraverso il ricorso a un andamento paratattico, la pur sempre presente sapienza letteraria e autoriale di Alvino.

Da qui la sensazione di trovarsi di fronte non solo a un testo sotto ogni aspetto (e va da sé) cólto, ma concepito come deliberata presa di distanza dalla natura “documentaria” che molta narrativa e drammaturgia contemporanee, a torto o a ragione, si arrogano. Soliloquio deliberatamente, provocatoriamente definito «infame», allora, meno per le forme del disagio e per le bassezze della protagonista che non per il suo porsi in alternativa, forse in aperta polemica, con una idea triviale di letteratura che spinge ai margini, appunto, esperienze raffinate come quella che abbiamo di fronte.