Natalia Anzalone

La corsa ragazzina

prefazione di M. R.

Francavilla al Mare, Natalia Edizioni, 2021

Di questo romanzo colpisce e alletta a prima giunta — oltre alla dovizia lessicale e al mirabile governo della cosa sintattica — la piena artigianalità: l’Autrice ne è editrice, distributrice e curatrice della veste grafica; le sole iniziali a firma dello scritto introduttivo inducono persino il sospetto d’un’autoprefazione. Nella quale si fissano due punti essenziali: il totale autobiografismo e la fabula:

Nessuna persona è inventata, qualcuna ha un nome di fantasia, qualche altra il suo vero nome e cognome. E tutti i fatti narrati sono realmente accaduti. […] Come le ance del mantice di una fisarmonica, Nancy e Andrea corrono l’uno incontro all’altra e l’una dall’altro sgusciano via. Per natura e per cultura preferiscono sottrarsi, volar via, sfarfalleggiare, volare ancora. Trattengono la realtà con delicatezza. Hanno un entusiasmo bambino, ma soprattutto e per ragioni diverse, un pensiero sincero, privo di finalità. Nancy lo persegue a partire dai suoi studi che la orientano verso i maestri dell’indugio senz’ansia di determinazione (Mies Handke Antonioni Ozu Cage). Andrea, invece, è per istinto che lo ricerca quel modo di stare al mondo, a partire dalla sua educazione, che ha fatto di lui una persona piena di presenza, con la massima attenzione al gesto e alla parola, sempre assonante, mai fuori luogo. (pp. 7-8).

Terza persona, indicativo presente, narratore onnisciente, il romanzo alberga prose liriche e notevoli brani saggistici, specie di critica d’arte (l’Autrice è architetto), resi in una lingua impreziosita di cultismi. Un lacerto delle une e degli altri basti a misurarne il valore:

Una parola, concava, rincanta l’acqua ghiacciata e il fuoco: sguardo.

Eccede l’arresto visivo della superficie plastica del mondo. E le scivola dentro. Come il nero della notte.

Lo sguardo, a differenza della visione, salvaguarda l’estraneità, perché prende dalla parte dove non si prende, prende a fondo.

E ne ha riguardo, perché nell’andarle incontro sa indietreggiare.

Esso va incontro alla realtà prestando attenzione all’esclusivo suo venire, a lei che ecco avanza, sollecito all’ecceità.

Quel suo lasciar-essere non è quindi mai un lasciar-perdere. Esso risponde sempre, a lei realtà, la quale, grazie a quella risposta, dagli argini del mondo erompe, salta fuori e risalta. (pp. 23-24).

La direzione artistica [della Biennale d’arte] è stata affidata per la prima volta a un architetto non italiano, l’austriaco Hans Hollein, e i più prestigiosi architetti della scena internazionale sono presenti. […] Siamo sul principiare di quel fenomeno detto globalizzazione ed è meraviglioso questo esperire tutti lo stesso mondo. Gli architetti, che sulla scena internazionale paginano le riviste specialistiche, sono percepiti ormai al pari delle star_, tanto che li accolgono entusiastiche ovazioni nelle università, ove conferiscono._

Questa fastosità per le riconosciute eccellenze del momento è appena smorzata da un’idea del direttore artistico dell’esposizione di quest’anno, quasi cominci a farsi problema. […] Fuori dalle chimere che le rendevano spesso occulto il presente, vuota e pulita Nancy incontra le fotografie on the road di Gabriele Basilico, esposte nel Padiglione centrale. In un bianco e nero chiaro e immediato esse rivelano la segreta bellezza dei luoghi incompiuti che frammentano la città contemporanea, a cui i costruttori attendono solo come a “spazi bianchi”, pronti per il solco e il fondamento.

Le periferie adolescenti, residue, indecise e sospese e i porti, lirici, corrugati ed estrusi, ritratti in queste foto di reportage_, rendono, per tanto, evidenti queste smagliature che persistono nelle logiche di bianca appropriazione dei suoli._

La dignità di questo paesaggio interstiziale, non ancora legittimato, è inquietante e accende l’attenzione per le ibridazioni, che Clément fra qualche anno chiamerà Terzo Paesaggio.

Anche le partecipazioni nazionali, nei Padiglioni, si distinguono per una libertà senza precedenti, con la messa a fuoco di un paesaggio imprevisto e imprevedibile.

Emblematico ne è il Giappone che non espone alcun progetto o architettura, ma i detriti e le macerie del suo ultimo terremoto.

Il maquillage delle insegne luminose, delle decorazioni stravaganti e delle immagini pubblicitarie crolla in un istante in mucchi di calcinacci, barre d’acciaio piegato, vetri frantumati e legni, a ricordare che le città sono fatte di materiali e che l’architetto non lavora solo in superficie, ma dentro la terra. (pp. 31-32).

Spiccano le numerose inversioni d’ogni tipo:

lui […] furioso impreca (p. 14)

Dolcemente sposta le sue parole su altre cose (p. 16)

voce divertita e assorta, che preziosa risuona (p. 16)

la cosa […] che fa l’uomo innamorare (p. 18)

Il tempo di accorgersi di quell’essenza leggiadra, a volte, soltanto ha avuto (p. 18)

una tensione […] che rende la pellicola nitida e sincera, e lo spettatore (p. 23)

Con alcuni di questi ragazzi ha studiato e molti momenti condiviso (p. 25)

mondana serata (p. 43)

Lei, che ogni materia ha studiato (p. 52)

quel goccio di spumante sulle labbra poggiato (p. 93)

quelli che radici volanti a Venezia han lasciato (p. 95);

il lessico aulico: divertire per ‘allontanarsi’ («non divertono mai dall’architettura», p. 25); ove («nelle università, ove conferiscono», p. 31); lontanare («subitamente lontanato», p. 42); beltà («giovani veneziani, di grande beltà», p. 43); le apocopi vocaliche e sillabiche: son («son tutti degli inconsapevoli», p. 35); venir («il venir del giorno», p. 48); costruttor («i costruttor di cattedrali», p. 49); san («chiede […] se san di Lei», p. 49); han («han lasciato», p. 95).

Non mancano stonature, come il piuttosto che disgiuntivo:

una di quelle incantevoli riprese romantiche del cinema francese piuttosto che americano (p. 196)

e le forzature topologiche, tra cui le sinchisi del tipo «il cielo che si apre ogni qualvolta sta per incontrarlo sente» (p. 18) e «stuzzichino sì piccolo che non si bada che a ebrezza porta» (p. 91); ma ciò non riduce d’un ette il pregio dell’opera.