Mariano Bàino

Il cielo per Roma

Roma, Exorma, 2021

Leggiamo il risvolto editoriale:

L’anima pellegrina di Sinesio, antico filosofo e discepolo innamorato di Ipazia — la cui vita celeste, nei secoli dei secoli, è trascorsa nell’obbligo di meditare sulle sue colpe per emendarsene e diventare un “angelo nuovo”— trasmigra nel corpo stanco di Chiaffredo Buffaldieci Guastella, avvocato romano. Ha una missione da compiere, assegnata dalle “alte sfere”: indagare sul conflitto che sconquassa la Chiesa, divisa fra due papi, il rivoluzionario e in carica Materno I e il tradizionalista e dimissionario Gregorio XVII. Chi dei due è l’Anticristo? In una Roma contemporanea sacra e profana, diurna e notturna, centrale e periferica, turbata da uno strano male a cui sembra arduo opporre un rimedio, Sinesio/Chiaffredo, incalzato dai ricordi, si troverà alle prese con un Mephisto/Orson che desidera ingaggiarlo e indurlo al doppio gioco: a soccorrerlo sarà Mathilda, ex angelo diventata donna.

Leggiamolo e scordiamolo, perché Bàino (classe 1953, magna pars dell’avanguardia partenopea, tra i fondatori della rivista «Baldus» e del Gruppo ’93 — con Marco Berisso, Biagio Cepollaro, Tommaso Ottonieri, Lello Voce —, autore d’opere espressivistiche e traumaticamente sperimentali) romanza per “deromanzizzare”, racconta per iniettar fiele nel narrato e condurlo a morte, dà a bere di credere ciecamente nel capitale spicco del plot per poi canzonarlo, dissacrarlo, smontarlo pezzo pezzo, riducendolo a una filza di digressioni governate da una lingua-spettacolo che assurge a protagonista assoluta, come avviene in tutte le scritture d’opposizione e di ricerca, in cui il come sormonta il cosa di più e più lunghezze.

Non si dice della selva di ramificazioni intertestuali e criptocitazioni; un solo esempio: «lo spirito è un fatto, la materia un’ipotesi» (p. 28): parola dello scrittore sperimentale per antonomasia Antonio Pizzuto: l’essere delle cose — afferma il prosatore palermitano contro il determinismo meccanicistico, in perfetta sintonia col pensiero di Cosmo Guastella (che propugnò nelle sue opere una filosofia empirista e fenomenista ispirata a John Stuart Mill, da cui si differenzia per l’ammissione di giudizî a priori di natura non esistenziale, bensì comparativa) — non è che l’essere percepito («esse est percipi»), poiché l’oggetto conosciuto dipende esclusivamente dal soggetto senziente.

Né si dice delle frequenti, ludiche exhortationes al lettore (si noti, nel terzultimo lacerto privo di puntatura, il flusso non meno continuo che terso, reso possibile dalla perfetta amministrazione sintattica):

quelle piccole chele schiacciate che mi erano spuntate di colpo dopo il colloquio con Kontrollo (ne parleremo, eh!?) (p. 11);

mi pare già di sentire le vostre voci insofferenti che chiedono cos’è mai il Katechon. […] vi accontento, almeno ci provo, giacché non è semplice descrivere qualcosa che appartiene all’indescrivibile (p. 18);

signori miei (p. 19);

No, per favore, non chiedetemi il perché di questo potere raffrenante (p. 20);

nemmanco uno di voi può sostenere che io l’abbia assediato perché si trasformasse in Lettore Supremo del tipo che precipita dall’ultimo piano di un utopico grattacielo costituito da tanti piani quante sono le righe di questo libro sì che in discesa e precipitevolmente a ciasun piano possa ascoltare un lettore leggergli una sola riga a voce chiara e forte ma senza equivoci tra ammezzato e primo piano che potrebbero causare un imbarazzante silenzio prima dello schianto (p. 47);

Chi di voi lettori non intende farsi questo viaggio, non tanto lungo in verità, può saltare un po’ di righe (p. 86);

non so voi cosa pensate della curiosità, ma sarei curioso di saperlo (p. 93).

Ma si allude alla sintassi nominale fittamente (e magistralmente) interpunta, con effetti di jazzistica sincopatura:

Una cosa semplice, semplice. Nessun varco, nessuna porta. Nessun albore. Assenza di ogni suono biblico, di una voce ispirata, un ansito, che so, di Samuele, Tobia, Giobbe, un proverbio dei Maccabei, un fruscìo dal Qohelet, una nota di Baruc, Ezechiele, Giona, Zaccaria… Nulla! (p. 11);

agl’inserti turpiloquiali in contesti aulici:

col culo per terra (p. 14);

fottuto (p. 35);

Fanculo agli stronzi eroi (p. 54);

va via di lì, cazzo! (p. 57);

come se non prevedesse una ceppa (p. 61);

cacatoria (p. 88);

cagarella (89);

che madosca! (p. 169);

al lessico arcaico, raro e letterario:

devio («un discorso assai devio», p. 17);

amplitudine («lì in quell’ovo cereo volitante nelle amplitudini», p. 18);

contenenza ‘capacità di contenere’ («quei cerchi […] erano di uguale contenenza», p. 21);

dilombarsi ‘affaticarsi’ («tutti a dilombarsi nell’esaltata conquista» p. 63);

imporrirsi ‘marcire’ («travertino che si imporrirà» p. 120);

apparimento ‘apparizioni’ («fuggitivi apparimenti di grafie gialle», p. 121);

steccuto ‘a forma di stecco’ («con le spalle strette, steccuto», p. 147);

strufonare ‘stropicciare con un cencio’ («finisce strufonato con la stessa immediatezza», p. 148);

alle neoconiazioni, le più improntate a ironia e autoironia:

immembranarsi ‘incarnarsi’ («come un salsiccione in cui la mia anima è andata a immembranarsi», p. 17);

poraccitudine, dal romanesco poraccio ‘poverino’ («Correggiamo con forbici e rasoio la poraccitudine fosforosa e dicioccata dei tuoi capelli», p. 55);

alle paronomasie, proprie della poesia:

le asperità degli asparagi (p. 31);

alle rinunzie alla punteggiatura:

abitudini norme sesso famiglia cognizioni (p. 35);

alle descrizioni fisiche trompe-l’oeil:

La sua faccia cercava di mostrare attenzione, mentre le pupille roteavano verso la periferia della cornea, nella scia di altri pensieri. Era alta, magra, i suoi capelli lisci e lunghi: la fronte, il naso, la bocca, il mento, tutto il suo profilo erano un succedersi di linee purissime, la calma nitidezza della geometria divenuta carne (p. 43);

ai dialettismi e regionalismi:

nemmanco ‘nemmeno’ (p. 47);

cavacecio ‘a cavalcioni’ (p. 139).

Due lacerti bastino a rendere la straordinaria ricchezza dell’operazione:

Come divenni ardita zanzaretta e come volai nei canali delle fogne, sotto i sedili, fra difficili e vaghe fughe di stronzi, non so. Mi seguì un molle moscerino, che sapevo essere Chiaffredo. Applicai la mia bocca perforante alla pelle, alla cotica più o meno cascante o dura, flaccida o resistente di ogni culo, senza produrre un rossore, senza stillare una stilluzza di sangue. Fui ancora altro, nel conturbante mistero delle metamorfosi: ragno nero, cicindela, ensifer azzurro, copride, curculione: ebbi risplendenti bagliori metallici, occhi a coprire metà della testa, mandibole a forma di forbici o falci, lame affilate e clipei dentellati, corni cefalici e lunghissimi rostri, ma non causai la benché minima lesione. Solo neutri voli in mezzo all’elastica cacca che scendeva da quei guancioni, da quelle pacche che si squadravano nello stirarsi di cento increspature e pieghe, i peli inchiaccati di un grasso marroncino e conformistico, che a volte lambiva piccole cisti nere. (pp. 89-90);

Guarderà: ci saranno puttane velate o scoperte, e puttane che saranno puttane prima di essere ragazze. Ci saranno puttane appassionate, puttane stregate, imbellettate, puttane illustri, puttane reputate, riprovate; ci saranno puttane dei fossi, puttane di capo dei vigili urbani, puttane orsine, puttane guelfe, ghibelline: cal-girl_, mondane, passeggiatrici, ragazze-squillo,_ taxi-girl_; ci saranno puttane di semente, puttane di bubbone, noturne, diurne, puttane di cintura e di marchetta migliore; ci saranno etère, baldracche, peripatetiche, lucciole, mantenute; ci saranno puttane plebee, appariscenti, puttane combattute, vinte e non perdute_ (p. 129).