06 dicembre 2021

Kubrick e Caravaggio, sabotatori del reale

Francesco Fiotti

Kubrick e Caravaggio, sabotatori del reale

Prefazione di Gianvincenzo Cresta

Milano-Udine, Mimesis, 2021

 

Kubrick e Caravaggio nascondevano nelle proprie opere delle “trappole” e lo facevano per catturare l’osservatore e costringerlo a confrontarsi con un diverso rapporto con la realtà. È la tesi che Francesco Fiotti, grazie a un sottile ponte comparativo che bascula tra il Cinquecento e il Novecento, propone nel saggio Kubrick e Caravaggio, sabotatori del reale (dov’è appunto il “sabotatori” a segnalare da subito quale sia l’indirizzo della ricerca).

 

Quelle “trappole” (potremmo anche chiamarle “esche” o addirittura “valvole di disturbo”), che Fiotti definisce «anomalie» (p. 44), e che sono state diffusamente considerate come sviste, errori o licenze, sarebbero in verità dei piccoli ordigni, dei “meccanismi infartuanti” che l’autore della Vocazione di san Matteo e quello di Shining avrebbero volutamente inserito nelle proprie opere.

 

Lo scopo di una simile azione di guerriglia mentale è presto detto: «Provocare nello spettatore una reazione istintiva che mandi in stallo i rigidi schemi che limitano la nostra percezione della realtà che ci circonda» (p. 22). Il sabotaggio, per Fiotti, è perciò un metodo occulto che mira a disorientare e mettere in crisi il fruitore attraverso l’affiorare dell’inspiegabile o dell’incongruente e attraverso uno sbilanciamento o un’asimmetria rispetto a un determinato meccanismo previsionale. La violazione dell’ovvia prevedibilità dell’usuale, per intenderci.

 

Se, per esempio, in Shining, film kubrickiano che «trabocca di errori», possono cogliersi «incoerenze logiche e tecniche», come gli «oggetti o i personaggi che cambiano posizione da un’inquadratura all’altra» (p. 41), nella tela caravaggesca della Canestra di frutta, «la canestra sporge in avanti, al di là del tavolo, fuoriuscendo letteralmente dallo spazio fisico della tela» (p. 45). Un analogo sconfinamento, che richiama le diagnosi e le deduzioni formidabili di storici dell’arte come Longhi e Argan, s’incontra nella Cena in Emmaus: «Sulla tavola ancora una volta una canestra di frutta fuoriesce dal bordo del tavolo, ancora una volta Caravaggio sembra invitare lo spettatore ad entrare nel dipinto» (p. 47).

 

Il postulato di base di Fiotti, che «rifugge l’accademismo e propone un orizzonte di lettura più ampio e profondo» (così scrive Gianvincenzo Cresta nella prefazione), è che «la realtà spesso non è esattamente dietro casa nostra e forse il modo migliore per comprenderla è allontanarsene» (p. 23). La realtà, in altri termini, non è una certezza “a portata di mano” come potrebbe credersi, è anzi qualcosa di assai più insidioso e scivoloso di quanto autorizzerebbe a sperare ogni rassicurante convenzione.

 

Il cinema di Kubrick e la pittura di Caravaggio, nella loro diversità linguistica, offrono, secondo Fiotti, un’«esperienza visiva» (p. 75) abitata da «anomalie»; un’esperienza, cioè, condizionata da una strategia di eversione nascosta per una “sovversione non troppo sospetta” (liberamente parafrasando Jabes). Quelle anomalie sarebbero, insomma, atti d’insurrezione che perforano l’occhio e, al tempo stesso, che lo traumatizzano e lo “perturbano” come se a colpirlo fosse un boomerang («Shining affronta il riemergere del perturbante», p. 44).

 

Nel momento in cui il fruitore viene catturato dalla “trappola”, quando il lazo lo aggancia e lo trascina con sé, si genera in lui una vertigine interrogante che innesca almeno due effetti. Il primo riguarda il rapporto di ciascuno con la realtà, che improvvisamente, in uno slargarsi di cerchi concentrici come quelli del rodariano «sasso nello stagno», si rivela meno solida e più friabile, più farinosa e incerta, decisamente meno codificata e dogmatica,  più debole, più aggredibile da incognite e da altri agenti razionalmente non leggibili («L’opera d’arte diviene allora una porta, un monolite che mette in relazione dimensioni lontane», p. 47; le anomalie sono «qualcosa di più profondo, i segni di un universo altro», p. 44). Il secondo effetto riguarda il rapporto del singolo con se stesso, alle prese con la necessità di dover riconfigurare le coordinate di “geolocalizzazione” nel suo sistema di relazione con l’esistenza («L’opera è un passaggio verso l’altrove, un viaggio per raggiungere sé stessi» scrive Fiotti, p. 48).

 

Il nesso di senso che Fiotti individua tra Kubrick e Caravaggio sta in quella che considera la volontà di indurre lo sguardo dell’osservatore a scavalcare le consuetudini percettive e razionali che circoscrivono il reale, così da spingere l’osservatore medesimo ad aprirsi a una possibilità ampliata ed espansa del modo di percepire mentalmente il mondo e percepirsi in esso. «Questa pare in fondo la più grande sfida di Caravaggio e Kubrick, spingersi oltre lo stato delle cose, modificare se necessario la realtà per raggiungere lo spettatore» (p. 47), e di conseguenza spingerlo a «non comprendere più con certezza dove finisca la finzione e dove inizi la realtà» (p. 44). Come si vede, il tema dell’induzione è da Fiotti reputato centrale, nello specifico della porzione delle esperienze pittoriche e cinematografiche di Caravaggio e Kubrick. 

 

Kubrick e Caravaggio, sabotatori del reale è accompagnato da un libro nel libro che è saldato in tandem con quello principale. Si tratta della sezione intitolata “Varchi”, nella quale Fiotti aduna un apparato di note congegnato come un edificio dai tanti accessi. Sono materiali integrativi, delucidazioni e aneddoti che fanno sì che il libro si dirami verso destinazioni ulteriori, in ossequio a un’istanza di escursione non troppo diversa da quella che Fiotti stesso ha individuato come determinante nelle strategie “sabotanti” di Kubrick e di Caravaggio.

 


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