Marco Pellegrini
Nella terra del genio. Il Rinascimento, un fenomeno italiano
Roma, Salerno Editrice, 2021
Professore ordinario di Storia rinascimentale e Storia moderna all’università di Bergamo e tra i maggiori specialisti in materia (si ricordino almeno Religione e umanesimo nel primo Rinascimento, 2012; Umanesimo. Il lato incompiuto della modernità, 2015; Le guerre d’Italia, 2017; Savonarola, 2020), Marco Pellegrini offre al lettore una miniera di dati altrettanto preziosi che, sovente, di primissima mano sulla svolta decisiva rappresentata dal “miracolo” del Rinascimento italiano, epoca geniale di rivoluzione stilistica e in ogni campo gloriosa, a decorrere dalla quale ha inizio la cosiddetta “storia moderna”: «Come pescatori di perle, gli artefici della rivoluzione rinascimentale si tuffarono nelle profondità del proprio patrimonio culturale e, come un tesoro giacente sul fondale, vi trovarono gli spunti per rinnovare se stessi e il mondo. […] Con lo sconfinato repertorio di sollecitazioni che offriva all’immaginazione degli osservatori, la Penisola rappresentò la palestra della creatività rinascimentale. Da nord a sud, l’Italia si presentava come un gigantesco parco della memoria: uno sterminato giacimento di tracce di un’antichità lontana, divenuta oggetto di trasfigurazione nella dimensione mitica della memoria collettiva. Gli europei del tempo guardavano ai tesori che qui erano custoditi in quantità incomparabile — le cosiddette “meraviglie d’Italia” (mirabilia Italiae) — non solo con gli occhi del corpo, ma anche e soprattutto con quelli della mente. L’immaginazione aggiungeva al dato visuale l’arricchimento di un significato simbolico che rimandava alle glorie della Roma pagana e cristiana» (così, con un linguaggio non meno terso che preciso, nella Premessa).
Il termine rinascimento, ignoto agli scrittori e agli artisti quattro-cinquecenteschi (tra i quali circolò invece il concetto storiografico di rinascita; Vasari discorre, per le arti figurative, di fasi alterne di «perfezzione e rovina e restaurazione e per meglio dir rinascita»: quasi pulsazioni dello spirito umano), fu un’invenzione della cultura ottocentesca francese (Renaissance) e l’epoca da esso designata fu trattata monograficamente verso la metà di quel secolo da Jules Michelet e Jacob Burckhardt. Il primo in Histoire de la France (1855), dove si afferma che il Rinascimento pone fine a un’epoca barbara, rozza e meschina nel pensiero e nei comportamenti — il Medioevo —, culminando nel trionfo della cultura borghese ottocentesca, con la sua materialistica joie de vivre e il viaggio alla scoperta del mondo e dell’uomo, che segnò il tramonto della religione cristiana, asservitrice dell’intelletto: «L’individuo europeo non ebbe più bisogno di un codice imposto da Dio e dalla gerarchia ecclesiastica per arrivare ad autocomprendersi. Il futuro sarebbe stato contraddistinto dalla piena autonomia dell’uomo, emancipato da ogni catena divina e umana e dunque libero di autorealizzarsi secondo il codice della propria natura» (p. 33). Secondo Burckhardt, invece, il Rinascimento non inaugura la modernità, ma rappresenta una stagione in sé conclusa, una perfezione solo lambita, «una possibilità perduta per la storia dell’Occidente, che poi era andata in un’altra direzione, definibile come anti-rinascimentale» (p. 34).
Ma già Virgilio accenna nell’Eneide (1257-91) alla mitica età dell’oro e nella quarta egloga delle Bucoliche (4-12) preconizza l’imminente instaurazione di un nuovo magnus saeculorum ordo che avrebbe avvicinato l’umanità alla perfezione originaria: «I lettori furono così incoraggiati a credere che la gloria dell’Urbe e della civiltà da essa prodotta non si sarebbe dissolta insieme agli ordinamenti repubblicani. Al contrario, una volta toccato il punto più basso della discesa e compiutosi il disfacimento del presente ordine delle cose, la storia di Roma, coincidente con il destino dell’intera civiltà umana, sarebbe ripartita in direzione ascendente, cominciando dal punto più perfetto, ossia da quello iniziale» (p. 111).
Arretrando di alcuni secoli, ecco Aristotele con la sua visione “protologica”, tendente a porre in relazione le cose del mondo coi loro principî primi: gli archetipi; è la «forma» — fuori dal tempo-spazio e percepibile solo in via astratta, ergo trascendente — il principio primo che decide la fisionomia delle cose esistenti, e il modello originario che ogni forma lascia trasparire è più o meno visibile a seconda del suo grado di perfezione.
Frequentissimi gli appelli — lanciati nel tardo Medioevo, epoca di continue rinascenze — al rinnovamento della Chiesa e dello Stato, con l’annessa esortazione a tornare ai principî primi: è «l’idea-forza della reformatio mundi, avente nella religione la propria forza motrice, [che] arriva fino al Rinascimento». Fondamentale la testimonianza di Niccolò Machiavelli nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (III, I) sull’incostanza delle cose umane: «L’esperienza storica […] mostra che anche la realtà mondana più solida non regge all’azione demolitrice del tempo e alla fine si dissolve. L’unico antidoto alla disgregazione sarebbe un frequente riavvicinamento alla forma originaria: “A volere che una setta o una repubblica viva lungamente, è necessario ritirarla spesso verso il suo principio”. Questo accorgimento è stato però praticato di rado e solo parzialmente; in ogni caso, esso richiede l’azione di riformatori abili quanto illuminati, assai difficili da trovare» (p. 127).
E si pensi al termine astrologico translatio, designante la dislocazione dei corpi celesti da un luogo all’altro del firmamento, producendo nuove configurazioni astrali: «Applicato al mondo storico, il concetto di translatio andò a indicare un trasferimento di autorità da un detentore all’altro, senza che questo comportasse la cessazione dell’autorità stessa né un suo snaturamento. La capacità di ricostituirsi (renovatio) di cui l’Impero romano diede prova in età tardoantica assunse le forme della translatio quando, con la formazione di nuove potenze di stirpe germanica nel Nordeuropa, il baricentro dell’Occidente romanizzato passò dal mondo peninsulare a quello transalpino» (p. 168).
Questi sono soltanto alcuni dei referti salienti d’una delle ricerche più avvincenti dell’annata.