AA. VV.

Svevo

a cura di Claudio Gigante e Massimiliano Tortora

Roma, Carocci editore, 2021

Per la collana «Studi superiori» della mai troppo lodata Casa romana, i contemporaneisti Claudio Gigante e Massimiliano Tortora adunano nove saggi di straordinario interesse sullo scrittore triestino, articolati in due sezioni. Nella prima — Opere — Matteo Palumbo studia il romanzo d’esordio («Lo Svevo di Una vita, seguendo a modo suo, come farà sempre, l’influsso di grandi teorie o filosofie, mette in gioco in questo primo romanzo le questioni dell’inettitudine, della malattia e anche dei loro contrari che continueranno a ripresentarsi in forme diverse lungo l’intera sua storia narrativa e intellettuale», p. 41); Daniela Brogi modelli e forme del racconto in Senilità (in cui il fulcro della narrazione è il carattere e non l’azione: «non più l’insieme di esperienze che portano da uno stato iniziale a una condizione di trasformazione ‘romanzesca’, ma il complesso di stati temporali che rivivono nella notte della coscienza, scolpendo di giorno in giorno […] la vita sempre più vecchia, altro che nuova; sempre più fuori fuoco, rispetto ai desideri, sempre più fuori tempo di Emilio Brentani», p. 51); Claudio Gigante esamina La coscienza di Zeno alla luce della scoperta della psicanalisi (a differenza dei due romanzi precedenti, nella Coscienza «i sogni di Zeno […] non costituiscono unicamente un commento di tipo figurale a quel che viene narrato, non sono insomma tautologici, non ridicono in forma simbolica il già noto. Alla dimensione onirica viene riconosciuto uno statuto diverso: non è un semplice specchio di pulsioni agevolmente decifrabili da chi conosca i segreti tormenti dei personaggi, ma una condizione che rinvia a un’altra realtà priva, almeno in parte, di corrispondenze con quel che si sa», p. 71); Valentina Baldi si occupa della narrativa breve, articolata in quattro blocchi: racconti compiuti, racconti incompiuti o “mutili”, frammenti, favole; Federico Bertoni dei quattordici testi teatrali composti da Svevo dal 1880 al 1928, anno della morte, indagandone strutture formali, statuto del personaggio ed elaborazione tematica.

La seconda sezione — Questioni — consta di quattro contributi. Massimiliano Tortora sulla produzione saggistica e giornalistica («Il saggio sveviano si configura come un dispositivo di tipo narrativo, o meglio come una sorta di novella che oscilla tra la fiaba e l’informazione», p. 154). Paolo Giovannetti si concentra sul “quarto” romanzo, l’incompiuto sequel della Coscienza di Zeno: Il vegliardo (in cui si opera un ribaltamento parodico della Coscienza di Zeno, in particolare nel finale: «Se là si parlava di una “vita” molto materialisticamente “inquinata alle radici”, qui ci si trastulla con una “vita letteraturizzata”; e all’apocalissi si sostituisce un ripiegamento, la ricostruzione di sé attraverso la letteratura», p. 170). A Thea Rimini il cómpito di tracciare il bilancio della ricezione in Italia e oltralpe, anche nel cinema (Senilità di Mauro Bolognini), nel teatro (La coscienza di Zeno di Luigi Squarzina), nel piccolo schermo (La coscienza di Zeno di Sandro Bolchi).

Ma è il saggio di Paolo Zublena su Lingua e stile di Svevo romanziere ad attirare l’attenzione del lettore dal palato fine. Spigoliamo tra i passaggi più salienti.

Quanto ai tratti grafico-fonetici, l’osservanza desultoria del dittongo mobile: movere e moversi sono quasi sempre monottongati; sempre monottongato scotere; casuale la presenza del dittongo -ie-; normali i plurali in -c(i)e e -g(i)e-. Per la morfologia e la morfosintassi: «Tra le forme verbali sono certo da notare in primo luogo le occorrenze residue di -a suffisso di prima persona dell’imperfetto indicativo — che da Una vita si spinge fino alla Coscienza —, ma in rarissima concorrenza con la ben più frequente uscita in -o. Non deve stupire più di tanto sieno per siano […]. Tuttavia può colpire l’uso alternato con siano nei romanzi ottocenteschi, e quello invece abbondante ed esclusivo nella Coscienza. L’alternanza con prevalenza di sieno è tale anche nell’epistolario. Ancor meno stupiscono i perfetti aperse — ma anche aprì —, scoperse, sofferse ecc. né il perfetto forte di prima plurale ebbimo […]. Più insolito un participio come equivaluto […]: la forma di participio debole al posto di quella forte equivalso è portata nel Novecento da pochi scrittori oltre a Svevo» (pp. 197-98). Di sommo interesse l’abnorme impiego di egli ed ella (spesso perfino dessa) come pronomi soggetto, reiterati a stretto giro, benché l’italiano sia una lingua pro-drop, ossia a soggetto nullo («spesso il pronome soggetto è espresso anche in frasi subordinate che hanno lo stesso soggetto della reggente, la quale potrebbe rimanere senza alcun detrimento priva di soggetto esplicito: “Nella felicità egli volle dimostrarsi riconoscente a colei cui egli credeva di andar debitore della sua felicità”. L’effetto di ingorgo e appesantimento è comunque notevole particolarmente in Una vita, e permane anche in Senilità del 1898, dove tuttavia ella subisce la concorrenza di essa» (p. 199). Altro tratto rilevante l’enclisi del si riflessivo: erasi, asserivasi, dicevasi. Nel lessico, il critico registra «una certa inclinazione per gli arcaismi» (p. 200) di matrice libresca: dimane, poscia, caldure, mandra, scolare, ruinato, cribrava, suvvi, molceva, in allora, desiato, ambascia, guatato, conquiderlo, acciocché (alleveremmo qualche riserva su dacché — letterario ma non arcaico — e oggidì, tuttora moneta corrente). La sintassi, massime in Una vita, denuncia una certa artificiosità ed è non di rado periclitante: «Ciò comporta una compresenza di tratti apparentemente bassi come l’indicativo pro congiuntivo in subordinate con verbi supporto a modalità epistemica debole (“era quindi probabile che avevano dovuto rinunziare alla passeggiata”) o il che indeclinato (“Era Miceni la causa che Alfonso nella lettera alla madre aveva alluso alla superbia dei principali”) con fenomeni ‘innalzanti’ come il congiuntivo ipercorretto» (pp. 201-202). Si tocca, così, il celebre “scriver male” del Triestino, alla cui comprensione nessuno ha contribuito più di Gianfranco Contini:

[L]o “scriver male” di Svevo è […] tale solo per lettori storicamente non al corrente, non al corrente insomma della vecchia Trieste (di questi lettori Svevo stesso si preoccupò), e si supera staccando in immaginazione le forme scorrette con semplici atti meccanici. Anzi: gli errori lessicali sono sullo stesso piano di quelle imperfezioni grammaticali che il Devoto ritiene eliminabili d’autorità quanto semplici errori di stampa. Se il filologo sarebbe sull’ultimo punto più filologo (o più storico) del Devoto, è per la non separabilità della grammatica in parti. La “descrizione” storica, apparentemente così agnostica in quanto il giudizio storico è già esso giudizio di valore, appare più esauriente della descrizione grammaticale, in un punto in cui il grammatico fa le sue prove migliori ed elabora i più originali risultati.