Valeria Arnaldi

E di chi non te lo dice. I migliori insulti della storia

Roma, Ultra edizioni, 2021

Se le parole sono pietre, rifacendoci al titolo del romanzo di Carlo Levi (1955, Premio Viareggio), che cosa potrebbero essere allora le parolacce? Massi o macigni? Per l’uso abbondante e spregiudicato che se ne fa oggi, forse, potrebbero anche essere paragonate a granelli di sabbia.

Nel febbraio del 2016, in un’intervista a LaPresse, Tullio De Mauro osservava che «[n]egli anni Settanta e Ottanta le parolacce esistevano, naturalmente, ma non comparivano con grande frequenza ed erano piuttosto marginali: non apparivano negli scritti né sui giornali ma prevalentemente nell’avanspettacolo. Invece adesso dilagano. Soltanto i testi accademici sono, almeno per ora, privi di male parole. Ma giornali, letteratura, romanzi, teatro, cinema, televisione, perfino aule giudiziarie, vedono frequentemente occorrere il gruppetto delle male parole più clamorose».

Un uso disinibito – ma non ostentato – di un linguaggio colorito non riguarda tuttavia solo i nostri giorni. «Le lettere private dei più importanti personaggi dell’Ottocento erano punteggiate, quasi come le più recenti intercettazioni telefoniche, di espressioni scurrili. L’esemplificazione potrebbe andare da scrittori come Leopardi («la vera letteratura, di qualunque genere sia, non vale un cazzo con gli stranieri») o Carducci, fino a musicisti come Rossini, a scultori come Canova, e appunto a politici come Francesco Crispi, per quattro volte presidente del Consiglio («bisogna che io pianga la mia coglioneria»). La differenza è che nessuno, fino a cinquant’anni fa, si sarebbe sognato di usare parolacce in una situazione pubblica: in una conferenza, in un comizio o più tardi parlando alla radio o in televisione. E men che meno in Parlamento» (Giuseppe Antonelli, Volgare eloquenza. Come le parole hanno paralizzato la politica 2017).

Nel volume E di chi non te lo dice. I migliori insulti della storia, la scrittrice e giornalista Valeria Arnaldi, con pennellate agili e delicate, passa in rassegna, illustra e contestualizza parole ed espressioni oltraggiose, irrispettose, sconce, volgari e offensive, dall’antichità ai nostri giorni, dalla letteratura al cinema, dall’arte figurativa alla televisione, dalla canzone alla politica. Ne emerge un quadro composito, attraverso il quale Arnaldi prova a delineare sia il profilo di chi usa l’espressione ingiuriosa sia la circostanza in cui lo fa, evidenziandone intenzioni e risultati.

Secondo l’autrice, c’è un elemento che accomuna il parlare triviale di tutte le epoche: «L’insulto apre la conversazione sincera. Più spesso, la chiude. Di certo – sempre – la accende. E accompagna la storia dell’uomo, è antico quanto l’essere umano o quanto meno quanto il suo vivere in comunità».

A Roma, nella basilica di San Clemente, non distante dal Colosseo, è conservata una delle più antiche scurrilità pronunciate in un luogo sacro, tra le altre cose. Fa parte di un affresco (probabilmente della fine del secolo XI) che raffigura un miracolo del santo, il quale aveva convertito al cristianesimo Teodora, moglie del patrizio Sisinnio.

Il marito della convertita, accecato non solo dall’ira ma da san Clemente stesso, ordina ai suoi servi di condurre il santo al martirio. Trasformatosi miracolosamente in una colonna, Clemente rende così impossibile il suo trasporto. Da lì, l’incitazione veemente (FILI DELE PUTE TRAITE ‘Figli di puttana, tirate’) che il prefetto rivolge agli increduli trasportatori. L’espressione non è casuale, come spiega Giuseppe Antonelli: «[…] qui la parolaccia ha uno scopo educativo: è scritta a fin di bene, se così possiamo dire. Perché serve a caratterizzare Sisinnio come un uomo volgare nell’eloquio e soprattutto nell’animo. Il senso dell’affresco sta tutto qui. Nella contrapposizione tra nobiltà sociale e nobiltà d’animo; tra la rozza violenza del pagano e la nobile santità del cristiano. La resa linguistica del dialogo è funzionale a questa contrapposizione. Il santo parla in latino, cioè nella lingua nobile. Il pagano, anche se è un ricco patrizio, parla invece nella lingua del popolo: il volgare.  Quell’espressione scurrile (fili dele pute) viene messa in bocca a Sisinnio proprio perché il suo volgare suoni più volgare che mai» (Il museo della lingua italiana, 2018).

Valeria Arnaldi sottolinea un altro aspetto: «Il potente insulta i suoi servitori affinché gli obbediscano. Nell’insulto del “padrone” e nella reazione dei tre uomini che non replicano, ma anzi obbediscono, a essere raccontato – e al contempo, soffocato – è un conflitto sociale. La parolaccia è espressione di potere, ricchezza […] Il silenzio è la “prigione” del servo». E ancora: «Sisinnio vuole insultare i suoi servitori, ma non lo fa direttamente […]. Il vero insulto, dunque è per le madri. La donna è al centro di numerosi insulti. Indagare le parolacce significa dunque studiare i cambiamenti di “sguardo” della società su sé stessa e le sue discriminazioni, non del tutto superate».

Il capitolo Parolacce: femminile e plurale esplora la questione dell’insulto di genere, così come la creazione e la diffusione di alcuni termini o espressioni che, a seconda del contesto, possono diventare, da offensivi, addirittura bonari o neutri. E non mancano gli esempi, da Giuseppe Gioacchino Belli a Fantozzi, dagli Stadio a Marco Masini.

La strada che percorre l’autrice è lunga e articolata, perché la parolaccia è «”sociale”, perché ci permette di comunicare», diventa «uno scudo a tutela del nostro spazio», e riesce ad essere «liberatoria, catartica, “leggera”, quando la diciamo. Maestosa e pesante, quando la ascoltiamo». È «scritta sui muri», «nei pensieri che non osiamo confessare», «è il salvavita di molte situazioni», «è lì quando le parole non sono più sufficienti», «quando ci facciamo male» o «quando qualcuno ci ferisce, tradisce, delude […] perfino quando siamo felici».

Nel libro sono raccolti anche esempi d’autore (Dante, Boccaccio, Rustico Filippi o Pietro Aretino fino a Marco Lombardo Radice e Lidia Ravera). Sono spiegati e contestualizzati gli insulti che riguardano la sfera sessuale e gli escrementi. Nel capitolo Ma va’… si spiega come nelle imprecazioni che esortano al movimento «il primo intento è di ottenere l’allontanamento della persona, insultandola ovviamente. Chiarita la volontà di mettere distanza, ecco, allora, sì, si passa all’analisi della “meta” auspicata» che sia all’inferno o a quel paese, nel migliore dei casi.

Esiste però un limite per manifestare il proprio stato d’animo o attaccare gli altri senza peli sulla lingua e non si tratta solo di una demarcazione imposta dal galateo delle parole. Le motivazioni di alcune sentenze (Marisa Marraffino, “Pinocchio”, “lecca piedi”, “buffone”: ecco quando l’offesa diventa diffamazione, ilsole24ore.com) ci mostrano quando la legge sanziona l’eccesso e quando no: «Vi sono parolacce che attaccano la dignità e l'autostima di un’altra persona e queste costituiscono insulti. Altre parolacce, invece, sono usate per esprimere emozioni forti: rientrano in questa categoria le imprecazioni ma anche i modi di dire. In questo caso le parolacce hanno una funzione catartica: servono come enfasi e valvola di sfogo. È evidente quindi la natura di sfogo dell'espressione “che gran coglione”, che non ha alcuna valenza di disprezzo della persona e del professionista. Lo ha affermato il Tribunale di Roma (sentenza 33269 del 7 novembre 2011)».

Questa parola leggera e pesante al tempo stesso, in grado di vincere il tempo e le barriere sociali, di raccontare chi siamo e chi siamo stati, è davvero così ribelle, fantasiosa e spontanea? Soprattutto oggi, quando la parolaccia è presente sempre, comunque e dappertutto, siamo sicuri che riesca a rendere colorito il discorso piuttosto che farlo sprofondare nel grigiore piatto e scuro?

«Se Manzoni, del suo buon curato avesse detto “cacasotto” non avrebbe creato un personaggio dell’umanità. La parolaccia avrebbe fatto sparire don Abbondio come tipo letterario, lo avrebbe spazzato via con tutto il suo sistema di relazioni, interiori ed esteriori. Non c’è insomma l’invettiva nella descrizione del Manzoni, non c’è l’insulto ambiguo e complice. Don Abbondio non è “stronzo”. Manzoni lo inchioda alle parole e non alle parolacce, non agli umori ma ai concetti che lo rendono ricchissimo: una fabbrica di comportamenti. Ma non gli danno scampo. “Non era nato con un cuor di leone” è la famosa litote che, opposto retorico della parolaccia instabile, è una figura rigorosa dell’ars dicendi, della scienza utilizzata da un maestro della lingua. Nella litote c’è l’intero vocabolario, studiato ed usato nelle forme più appropriate. La parolaccia, pur ammiccando al suo contrario, è invece poverissima di significato» Francesco Merlo, Parolaccia. L’ambiguo lessico dell’Italia del turpiloquio, «R2. Diario di Repubblica, 26 novembre 2009».