20 aprile 2022

Folli pensieri e vanità di core. Trentuno poesie attribuite a Dante

Matteo Veronesi

Folli pensieri e vanità di core. Trentuno poesie attribuite a Dante

Prefazione di Rossano De Laurentiis

Pescara, Edizioni Mondo Nuovo, 2021

 

 

Dottore di ricerca all’Università di Bologna, comparatista e contemporaneista (Il critico come artista dall’estetismo agli ermetici, Bologna 2006; Pirandello, Napoli 2007), Matteo Veronesi si avventura non senza temerarietà, per la collana «Pigmalione» dell’Editrice pescarese, nel terreno friabile e infido se altri mai dell’attribuzionismo letterario (comparto mai sinora fatto oggetto di sistemazione), sostenendo — per motivi stilistico-stilematici e sulla base di riscontri verbali a suo avviso inoppugnabili — la danteità di trentuno rime «‘estravaganti’, ossia di dubbia o varia attribuzione, rimaste ai margini del canone ufficiale, assegnate a Dante da almeno un testimone manoscritto o da un’edizione a stampa», riunendo e commentando «un corpus personale di apocrifi danteschi […]. L’expertise […] è soddisfacente e completa, non lascia fuori dal discorso ricostruttivo nessuna pennellata […]. Il Connaisseur-divinatore […] ha messo a disposizione del ristretto pubblico degli specialisti e del largo target dei lettori di varia cultura una silloge onesta, precisa, puntuale e illustrata con abbondanza e dovizia di riferimenti classici e medievali» (così il prefatore): parole da accogliere senza riserve, giacché nell’Introduzione l’Autore stesso esplicita a chiare lettere i criterî guida della sua operazione: «Anche questi testi dubbi e contestati, dalla così episodica ed accidentata storia editoriale, rispecchiano, direttamente o indirettamente (lungo il sottile crinale fra autenticità e apocrifia, creazione primaria e ricezione creativa, e rielaborazione, magari deformazione, di un modello venerando, ma assai difficilmente emulabile), i tratti perenni e sfaccettati del messaggio dantesco, le vibrazioni e i riverberi della sua molteplice e polifona lira. Questi testi costituiscono, se non altro [corsivo nostro], un capitolo significativo di storia del gusto e della cultura, e il riflesso creativo della diffusa e fertile risonanza del mito di Dante».

 

Limitiamoci al caso esemplare della ballata Donne, io non so di che mi preghi Amore (qui nella variante di ch’io mi prieghi Amore), attribuita a Dante dal ms. Escorial lat. e III 23 della Real Biblioteca del Monasterio de San Lorenzo de El Escorial, e confrontiamo il referto del critico con quello del nostro massimo esperto di filologia attributiva, Pasquale Stoppelli, cui aderiamo plenariamente.

 

Veronesi allega una serie di prove interne al testo, ossia valutazioni linguistico-stilistiche che ne proverebbero la paternità dantesca; queste le principali:

 

ancide per ‘uccide’ (Rime LIX 5: «La sua vertute… ancide sanz’ira»; ivi, CIII 36: «con quella spada ond’elli ancise Dido»);

‒ la presenza del sintagma ad ora ad ora sia nelle Rime sia in ciascuna delle tre cantiche della Commedia, e di fede pura (Fiore XII 11: «chéd’i’ son venuto a pura fede»);

‒ l’eco del verso «che ’ntender no la può chi no la prova» (Tanto gentile) in «Ma ciò non può saper se non chi ’l sente»;

‒ l’associazione fra l’Amore, la Donna e l’Angelo («O donne, che d’Amore angeli siete»), ricca di riscontri riscontri: «In lei discende la virtù divina / sì come face in angelo che ’l vede» (Amor che ne la mente); Rime LXIX 8: «i’ ebbi tanto ardir, ch’in la sua cera / guarda’, [e vidi] un angiol figurato»; ivi, LVI 7: «e sovr’a lei vidi volare / un angiolel d’amore umile».

 

Non più che un telegrafico cenno al celeberrimo lago del cor (vv. 8-9:): «Stessa intensa e angosciosa metafora in Inf. I 20 [“Allor fu la paura un poco queta, / che nel lago del cor m'era durata / la notte ch’i’ passai cotanta pieta”]»; espressione grazie soprattutto alla quale Stoppelli (in Id., L’equivoco del nome. Rime incerte fra Dante Alighieri e Dante da Maiano, Roma, Salerno Editrice, 2020, pp. 28-31) degrada recisamente a spurio il componimento. Vediamo i passaggi più probanti della sua argomentazione:

 

I versi 8-9 della ballata si leggono così nelle più recenti edizioni: «una saetta, che m’asciuga un lago / del cor pria che sia spenta». Tutti gli editori delle rime di Dante, da Barbi in poi, inseriscono la ballata fra le dubbie. Domenico De Robertis ritiene la seconda e la terza strofa spurie, per cui stampa fra le dubbie solo la ripresa e la prima strofa. L’attribuzione a Dante è di fatto nel solo autorevole Escorialense; altrove, in versione breve o lunga, il testo non ha indicazione di paternità. È evidente che è soprattutto l’incertezza attributiva dei manoscritti a determinare la classificazione di questa rima come dubbia. E come giudicare la presenza di lago del cor, espressione felicissima di Inf. I 20? […] Se nella cavità del cuore risiedono gli «spiriti vitali» [Boccaccio], è questo il luogo delle emozioni […]. Nei versi danteschi è appunto ciò a cui la metafora del “lago (che riempie la cavità) del cuore” fa con pertinenza riferimento. Meno appropriato, forse addirittura fuori luogo, è invece il suo impiego nella ballata per la sproporzione fra la potenza del fulmine e l’esiguità del liquido contenuto nel cuore che esso disseccherebbe: liquido che tuttavia non è il sangue, come l’esegesi delle Rime sulla scorta di Boccaccio ha sempre spiegato. [Si tratta, come avverte Claudio Giunta, della liquatio cordis, presente anche nei mistici e tòpos della lirica cortese]. […] Ma il passaggio da acqua a lago implica un processo metonimico che non conosco nei provenzali e che in tutta la poesia due-trecentesca italiana si registra solo nel primo canto dell’Inferno e in Donne, io non so. Un’origine poligenetica è del tutto improbabile; e tuttavia la successione Inf. I - Donne, io non so, conseguente al riconoscimento dell’invenzione al Dante della Commedia, risulterebbe contraddetta dall’expertise paleografica condotta sull’Escorialense da Teresa De Robertis, che colloca la mano β, a cui si deve la trascrizione della ballata, alla fine del XIII secolo. Dunque, se così fosse, andrebbe riconosciuta proprio alla ballata la prima attestazione di «lago del cor». […] Il sintagma lago del cor è di impatto e pertinenza tali rispetto al contesto dantesco che non può che essere nato lì, nell’Inferno. Dante peraltro non avrebbe mai ripetuto un’espressione di così elegante fattura giù usata in una sua rima o, ipotesi ancora meno credibile, se fosse stata farina del sacco di un altro rimatore.

 

Ma la tesi di Veronesi è, si badi, tutt’altro che perentoria: egli asserisce che, anche ammettendo l’apocrifia delle poesie da lui intestate al Sommo, sarebbe impossibile non assumerle come testimoni di un precocissimo, incipiente dantismo, privo della diffusione europea di cui avrebbe goduto il petrarchismo.


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