Daniela Brogi

Lo spazio delle donne

Torino, Einaudi, 2022

L’autrice di questo pregevole saggio illustra, nell’arco di cinque capitoli («Fare spazio», «Spazi del genio e della creatività», «Spazi e frasi fatte del maschilismo benpensante», «Spazi e stile», «Spazi aperti»), la faticosa conquista dello spazio, reale e simbolico, da parte delle donne in società costruite “a misura d’uomo” (sia lecito risemantizzare un’espressione dal significato positivo), nella quale «tutto lo spazio (compreso quello dei corpi delle donne)» era, e spesso purtroppo ancora è,  «naturalmente e liberamente a disposizione degli uomini» (p. 13).

Fin dalle prime pagine di Lo spazio delle donne Brogi richiama esempi letterari legati alla rivendicazione di uno spazio fisico: il «pezzetto di giardino mio» di Sibilla Aleramo (Una donna, 1906), Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf (A Room of One’s Own, 1929), Lo studio di Alice Munro (racconto della silloge Danza delle ombre felici, 1968), e così via. Fine dichiarato di Brogi è studiare «il fuori campo attivo […] lo spazio liberato da abitudini sessiste riprodotte con naturalezza» (p. 18), il cui contraltare è la cultura del patriarcato, il monologo maschile che esclude o ghettizza le donne. Dunque, al di là del «recinto di minorità» (p. 13), della «pattumiera della storia» (metafora usata da Jacky Fleming), dell’interstizio o della «smarginatura» (immagine cara a Elena Ferrante), della «mappa» ovvero della lista consapevole, qui interessa fare luce sulla ricchezza culturale, artistica e creativa di cui le donne sono state portatrici negli «ultimi centocinquant’anni» (p. 21), nonostante l’emarginazione imposta sotto varie forme dal sistema patriarcale.

I frequenti riferimenti al mondo anglofono (Mary Wollstonecraft e la figlia Mary Shelley, Emily Dickinson, le sorelle Charlotte ed Emily Brontë, Louisa May Alcott, Virginia Woolf, Doris Lessing, Toni Morrison, Alice Munro, Margaret Atwood, Jhumpa Lahiri) fanno riflettere il lettore sulle maggiori opportunità di successo (a volte postumo, come nel caso di Dickinson) che la lingua inglese offre alle scrittrici, sia per la maggiore ampiezza del pubblico sia per un mercato editoriale più vivace rispetto al panorama dell’Europa continentale. Se consideriamo le sedici donne insignite del premio Nobel per la letteratura, ben sei (Pearl S. Buck, Nadine Gordimer, Morrison, Lessing, Munro e Louise Glück), vale a dire il 37,5%, hanno scritto in inglese, contro il 24,5% degli scrittori anglofoni premiati sul totale dei loro colleghi. Del resto, le università inglesi cominciarono ad aprirsi alle donne verso la metà dell’Ottocento; le lotte per il suffragio femminile cominciarono a Manchester nel 1865, e fu l’Australia il primo Paese in cui le donne conquistarono il diritto di voto (1902); inoltre la rivoluzione femminista degli anni Settanta arrivò dagli Stati Uniti in Europa, e fondamentali furono i contributi di teoriche quali Betty Friedan (The Feminine Mystique, 1963), Kate Millett (Sexual Politics, 1970) e Shulamith Firestone (The Dialectic of Sex, 1970).

Giustamente Brogi contestualizza il dibattito culturale e letterario all’interno del lento percorso di emancipazione delle donne in Italia, riportando una precisa cronologia (pp. 59-60), di cui colpisce il tardivo riconoscimento dello stupro come «crimine contro la persona e non contro la morale pubblica», nel 1996: difatti i contributi, sia di Calvino sia di Pasolini, sul massacro del Circeo (rapimento, stupro, tortura, femminicidio), compiuto tra il 29 e il 30 settembre del 1975, furono più che altro «considerazioni sociologiche» (p. 76) riguardo al classismo e al fascismo della borghesia, non riflessioni specifiche sulla «violenza di genere». In una società simile, ben si comprende la rivendicazione del maschile neutro da parte di Elsa Morante e Natalia Ginzburg, che «volevano essere chiamate “scrittori”, non “scrittrici”» (p. 71) per non essere discriminate rispetto ai loro colleghi maschi; purtroppo ancora nel 2022 si riscontra il rifiuto del femminile dei nomi di professioni e cariche politiche (architetta, avvocata, ministra, sindaca ecc.) da parte di donne che avvertono la pressione di una società competitiva in cui professionisti e politici corrono i cento metri senza gli ostacoli che intralciano le loro colleghe. In questo scenario la critica mossa da Brogi alla meritocrazia è del tutto condivisibile, come lo è la difesa delle quote per le pari opportunità, che in gergo maschilista si dicono «quote rosa» e che servono a compensare lo squilibrio di partenza insito nelle società patriarcali, quelle in cui di norma le funzioni di cura e accudimento sono imposte alle donne (salvo lodevoli eccezioni), mentre gli uomini trattengono per sé prestigio e potere, eccezionalmente e gentilmente concessi a membri dell’altro sesso. Solo un ipocrita non definirebbe patriarcale l’Italia odierna, nonostante le conquiste giuridiche degli ultimi decenni, che non rimuovono le differenze materiali dovute alla gestione sessista dell’economia domestica e degli spazi professionali e politici.

Sul versante stilistico, di per sé scivoloso e soggetto a mille variabili, forse la definizione più convincente della prospettiva femminile (female gaze) è la seguente: «ricerca formale di un sé sperimentato come essere metamorfico e in tensione con altre simultanee possibilità di vita e di espressione, più che come identità assoluta e giudicante» (p. 88). In effetti, i narratori, anche quando non si presentano come onniscienti e preferiscono finzioni autobiografiche o polifoniche, tendono a dominare il soggetto con lo sguardo fin troppo sicuro di un padrone compiaciuto, mentre le narratrici (sempre che si muovano libere dai vincoli dei generi letterari) favoriscono una certa autonomia dei personaggi e degli ambienti. In poesia, si veda il caso di Emily Dickinson (evocato nell’ultimo capitolo, a proposito della casuale scoperta di scritti inediti), forse la più geniale voce lirica della letteratura occidentale moderna, che richiede, per ognuna delle sue quasi milleottocento poesie, uno sforzo esegetico ampiamente ripagato dal piacere delle acquisizioni critiche.

L’ultimo testo su cui Brogi si sofferma è il racconto Danza delle ombre felici di Alice Munro (pubblicato in rivista nel 1961, in volume nel 1968), posto in chiusura della silloge cui dà il nome: un’anziana maestra di pianoforte raduna, come ogni anno, le sue ex allieve perché assistano alle esecuzioni dei suoi allievi più giovani, in una sorta di staffetta generazionale; l’arrivo di alcuni bambini con disabilità cognitive turba le invitate, ma una bambina del gruppo suona magistralmente la Danse des ombres heureuses di Gluck (1762), lasciando le signore senza fiato, incapaci di criticare, come erano solite fare, l’ennesima festicciola di Miss Marsalles, figura fondamentale, perché «il talento non basta mai da solo, ma ciò che conta è la presenza di una persona – una maestra, anche strana, eccentrica, sbagliata – che ci ha creduto» (p. 110).

La bibliografia finale (pp. 113-121) contiene sia saggi «che non si possono ignorare quando si parla e si scrive dello spazio delle donne» (ad es., Il secondo sesso di Simone de Beauvoir), sia «studi o femminismi anche diversi e discordanti» con cui Brogi ha intrecciato un proficuo dialogo (ad es., Donne e potere di Mary Beard).