Cosimo Argentina

Vicolo dell’acciaio

Matelica (MC), Hacca edizioni, 2022

Cosimo Argentina è anzitutto una questione geografica, con una città Taranto, così sgradita da doverla amare, che saccheggia a piene mani le parole bodiniane e le fa sue divenendo contenitore privilegiato ed equivoco di rimorsi e potenzialità mancate. Non ci si ferma però all’involucro e non si resta nella cerchia delle sue mura: in Vicolo dell’acciaio (Hacca, 2022), come in altre opere dell’autore, si pensi almeno a Taranto Mon Amour e alla sua dichiarazione di intenti nei confronti della città natale – «Se sarò stato troppo morbido e struggente, lo avrò fatto per amore e se sarò stato troppo velenoso e iconoclasta ciò sarà accaduto comunque per troppo amore che a volte genera odio e sarcasmo e fobia» (Effigie Edizioni, 2006) – l’esplorazione continua indomita e irrefrenabile nelle strade del luogo d’ispezione, diverse e diversamente qualificanti: essere un via Calabria implica un destino, appartenere ad un’altra via e ad un altro quartiere una sorte probabilmente opposta. La città, il quartiere, perfino la casa: alzi la mano chi trova un determinismo verghiano di luogo e di tempo, gli altri vadano dietro la lavagna. Ogni porzione di terra è oggetto del testo, perché in Vicolo parli come la strada ti fa parlare e vivi come ti predica di vivere il paese natìo, albergo e prigione al tempo stesso, laboratorio di libertà e occupazione di un abusivo entrato nei tuoi luoghi con regolare contratto firmato di tuo pugno: c’è una trinità industriale a riempire il cielo tarantino e le «formazioni tumorali primarie e secondarie, i cristi e le madonne» sembrano esserne l’inevitabile conseguenza.

È questo il contesto della narrazione, un gioco viziato che plasma uomini e destini e che ammazza, quando non fisicamente nell’animo, ferendo a morte e compromettendo coscienze annebbiate dal dolore: nel leggere Argentina non si può non correre col pensiero a quella catena di montaggio che Céline scopriva mortifera e utile all’annullamento delle facoltà mentali dell’uomo, alla manomissione della sua parte cardiaca e sentimentale. Come sorprendersi dunque di ciò che trova in casa, nella via e per il paese il protagonista? Mino Palata, in età di belle speranze e fallimenti in agguato, con il diritto da sapere per gli esami (e non saputo), con l’esercito di compari compagni di sventura e con Isa, salvezza e nemesi, presenza vicina e ombra distante, è pianta con problemi alla radice, perché è nel padre e nella madre che Argentina trova l’altro suo polo di riferimento – la culla e la stanza – e nel malfunzionamento di un gioco, quello familiare, improvvisato, difficile e fonte di dolore. Il Generale, così viene soprannominato il capofamiglia, figura biblica e oracolare, dio d’antico testamento e oggetto di fiduciosi (e traditi) affetti, dalla fabbrica è stato corrotto e plagiato, nell’incapacità ormai intima di spogliarsi di una tuta divenuta divisa e gallone militare per portare le insegne di riferimento e marito, in una ginnastica maledetta per la quale il nutrimento viene dalle stesse mani che ti ammazzano: «Jè matematiche! Se ci sono dieci soldi e siamo in tre e uno dei tre tiene nove soldi, gli altr’e due la pigghian’ ‘ngule» – eccola la logica, eccolo il veleno, eccolo il patire condensato e allenato dagli anni di fatica. Opportuno allora, necessario per chi scrive, interrogarsi sulle altre figure chiamate a comporre questa natività sbilenca, giacché se questo è Giuseppe per Maria e per gli altri non possiamo non provare un sincero trasporto: eccola la madre, maestra d’incasso e di silenzi, figura chiamata al raccattare i cocci di una casa che crepa a tal punto da meritarsi un nome adeguato e diametralmente opposto all’ottica militare di chi vessa: «la povera donna, la santa Rita di nosotros, sta cercando di tirar fuori dalle paludi il Generale». Non meglio il circondario, ma antropologicamente così interessante da rendere Argentina maestro di caratteri umani e di loro esplorazione profonda: basta scendere per strada per trovare gli uomini da muro, plotone d’esecuzione alla rovescia, in attesa non del fuoco addosso ma delle calamità che la vita e il posto scelto sembrano pronti a recapitare sulla pelle, con la conta quotidiana dei dispersi e una catena leopardiana fatta da disgrazie e claudicanze – non eroi questi, ma ammalata resistenza – che si sfilaccia nelle maglie, giacché si sa che in questo microcosmo argentiniano il tempo è solo d’attesa del fatto – «il lavoro e le morti degli amici lo stanno minando poco alla volta e prima o poi salta in aria» – e mai di rivoluzione. È in questa roulette dunque, in questo tiro al massacro lento e consensuale che si entra in una dimensione parallela, in un esperimento sociale alternativo fatto di sessualità a distruggere, di defunti a perdere (si invita il lettore a fruizione attenta del caso familiare di Derviscio Dòminik) e di quotidianità da esorcizzarsi, si teme, con la fuga dalla scatola, per provare a vivere dimensioni altre e meno affoganti. Ai fottuti, scrive in epigrafe l’autore tarantino, e mai dedica potrà rivelarsi più giusta, perché mettersi al livello di chi si racconta (non abbassarsi, vi prego, ma pareggiare) è ciò che dovrebbe fare chi si siede al tavolo. In conclusione si consenta, con la dovuta amarezza e il dovuto riguardo, una riflessione: Argentina, per carriera, meriti e militanza non può non essere riconosciuto come il padre di letto di buona parte della generazione novanta della letteratura italiana: il problema dei padri di letto è che ci mettono tutto o quasi, tranne il cognome. Opportuno sarebbe almeno il ricordo. Doveroso il rispetto.