Chiara Murru

Tra Piero della Francesca e Caravaggio. Studi__o sul lessico di Roberto Longhi

Milano, Franco Angeli, 2022

Roberto Longhi è da tempo il maggiore nume tutelare della critica d’arte italiana, nonché uno dei campioni della nostra prosa saggistica. Alla sua autorevolezza ricorre, con un certo snobismo di massa, anche un personaggio pop come Vittorio Sgarbi, e sono molti i critici di rilievo che ne furono allievi diretti: da Anna Banti a Francesco Arcangeli, da Giovanni Previtali a Carla Lonzi, da Federico Zeri ad Antonio Boschetto. L’importanza di Longhi è condensata in modo fulminante da Gianfranco Contini, illustre curatore del Meridiano Mondadori, Da Cimabue a Morandi, che scrive: «la storiografia oggi vigente della pittura italiana appare in buona misura lavoro suo» (cit. in Murru, 2022, p. 7). Longhi ha suscitato altrettanto interesse anche in qualità di saggista o, forse sarebbe meglio dire, in qualità di scrittore. Generazioni di critici si sono occupati di lui: oltre a Contini, anche Emilio Cecchi, Cesare Garboli, Ezio Raimondi, Pier Vincenzo Mengaldo, così come alcuni critici militanti ancora attivi: Alfonso Berardinelli, Massimo Onofri, Matteo Marchesini, e altri ancora. Questo elenco, che sarebbe impresa disperata rendere esauriente, deve comunque tenere conto della fascinazione esercitata da Longhi su Pier Paolo Pasolini, che ne seguì le lezioni a Bologna, così come fecero Giorgio Bassani, Attilio Bertolucci, e Luigi Baldacci, che lo conobbe invece nell’ateneo di Firenze.

A fronte dell’impressionante qualità dei critici e degli scrittori che hanno fatto della prosa di Longhi un oggetto di studio e un modello di riferimento, non dovrebbe stupire che «ciò che ha reso Longhi una delle personalità maggiori del Novecento è anche – e forse soprattutto – lo strumento con cui ha trasmesso la sua esperienza critica, la sua cultura e le sue intuizioni: la scrittura» (Murru, 2022, p. 23). Per chi volesse approfondire il metodo di scrittura che ha reso Longhi il personaggio di riferimento che è oggi, è ora a disposizione un accurato libro di Chiara Murru, Tra Piero della Francesca e Caravaggio. Studi__o sul lessico di Roberto Longhi, edito da Franco Angeli. Il volume è scandito in quattro capitoli nei quali l’autrice, dopo aver ripercorso la biografia del critico, ne illustra le idee e il metodo (1); analizza linguisticamente i testi dedicati a Piero della Francesca e a Caravaggio, soffermandosi peraltro sulle varianti tra le diverse edizioni (2-3); compila un glossario tematico (4).

Che Longhi ricopra un ruolo importante nella tradizione della prosa italiana, lo dimostra il fatto che compaia ormai stabilmente in buona parte delle storie della letteratura; riportiamo un esempio, tra i possibili, che ne restituisce lo spessore dello stile, nonché la ricchezza e la complessità del lessico: «La sua prosa si avvale di un patrimonio lessicale eterogeneo ma squisitamente letterario, spaziando dall’immaginismo barocco alla sensitività romantica, dal rigore neoclassico al colorismo del grottesco, sconfinando lessicalmente in arcaismi, nel vernacolo, in neologismi, neoformazioni, in espressionismi figurali di grandissimo impatto» (Ragni, 2000, p. 428).

Per comprendere l’esigenza che mosse Roberto Longhi a rendere così elaborata la sua prosa è fondamentale capirne l’intenzione, da cui poi derivò un metodo; Berardinelli parla della sua saggistica come di «uno strumento di lavoro allo stato puro» (Berardinelli, 2002, p. 114). La fortuna dei commentatori è che, nei suoi scritti, Longhi fu sempre chiaro a riguardo. Murru cita, come esempio, un brano estrapolato da una recensione del 1917, nel quale compare una frase (tondo nostro nel testo) che è anche una dichiarazione di intenti:

Poiché si tratta di stabilire esattamente le qualità formali di opere figurative, noi pensiamo che una volta fissate storicamente le modalità di forma che servono da punto di riferimento per la comprensione storica di quell’opera singola, sia possibile e utile stabilire e rendere la particolare orditura formale dell’opera con parole conte e acconce, con una specie di trasferimento verbale che potrà avere valore letterario, ma sempre e solo – vogliam dirlo per umiltà – in quanto mantenga un rapporto costante con l’opera che tende a rappresentare. Ci pare che sia possibile creare certe equivalenze verbali di certe visioni; equivalenze che procedano quasi geneticamente, a seconda cioè del modo con che l’opera venne gradualmente creata ed espressa. Non sappiamo se ciò sia tradurre – e, poiché tradurre è stato dimostrato impossibile, speriamo che non lo sia (Longhi, 1961, p. 456, cit. in Murru, 2022, p. 19).

Ecco dunque manifesta, già in giovane età, come scrive Murru, «l’idea del trasferimento della visione di un’opera da un linguaggio a un altro: dal linguaggio artistico, dunque, a quello verbale» (ibid.). Si tratta, del resto, di un brano celeberrimo; giusto per darne prova, molto ispirò Cesare Garboli, che tante pagine dedicò a Longhi, e che – nonostante le reticenze del critico nel definire il suo scrivere un tradurre – accostò il passo a questa frase di Marcel Proust: «Il dovere e il compito (le devoir et la tache) di uno scrittore sono quelli di un traduttore» (cit. in Garboli, 2005, p.167).

La consapevolezza mostrata da Longhi è notevole sia per la lucidità sia per l’onestà con cui è espressa. Certo, si intravvede anche l’esigenza di scansare le accuse di estetismo e, forse ancor di più, di incomprensibilità: già ai tempi de «La Voce», Prezzolini, difendendolo, scrisse proprio della «più terribile delle ostilità» suscitata ad alcuni dei lettori dall’«incomprensione» degli scritti di Longhi (cit. in Murru, 2022, p. 26). La trasparenza sul metodo gli è però valso anche, verosimilmente, il favore di molti critici e intellettuali, tanto da farlo eleggere a maestro contemporaneo dell’ekphrasis, nella sua accezione specifica (già risalente alla retorica antica) di «descrizione di luoghi e di opere d’arte fatta con stile virtuosisticamente elaborato in modo da gareggiare in forza espressiva con la cosa stessa descritta» (Vocabolario Treccani.it). Difatti, se leggere Longhi resta comunque complesso per una buona parte dei lettori, il senso di questa sfida è ancora una volta riassunto benissimo da Contini, che volle che il Meridiano non fosse corredato da un apparato figurativo: le parole sarebbero bastate.

Per chi raccolga questa sfida, il libro di Murru è utilissimo. Innanzitutto, l’analisi è sempre condotta in contrappunto con delle considerazioni extralinguistiche, apprezzabili per tre ragioni: i) danno conto del valore storiografico degli scritti: «Prima di Longhi, nessuno dei critici e biografi riesce a compiere quel passo in avanti che avrebbe consentito di trovare il punto d’incontro tra la pittura fiorentina e quella veneziana nella figura di Piero» (Murru, 2022, p. 29); ii) incorniciano l’analisi dei testi nelle coordinate teoriche necessarie: «La storia della pittura era stata fino ad allora la storia del disegno, lineare o plastico, e non contemplava i valori di una pittura diversa (i valori del colore), nella quale risiedono invece le basi di tutta la pittura moderna» (ivi. p. 33); iii) ancorano il discorso a dati eloquenti: in merito all’ormai mitologica Mostra del Caravaggio e dei caravaggeschi che, tra l’aprile e il giugno del 1951, fece “risorgere” Caravaggio, e di cui Longhi fu commissario esecutivo, «si parla di una media di seimila visitatori al giorno» (ivi. p. 68), una cifra che è giustamente riportata per renderne tangibile il successo. La letteratura secondaria e l’apparato bibliografico sono altresì sempre funzionali al discorso e le glosse riportate illuminanti e ben scelte.

Ma naturalmente il cuore del libro sta nell’analisi linguistica dei testi; vale la pena di riportare dei frammenti di un brano di Longhi particolarmente ispirato, tratto da Piero della Francesca:

Nell’ora senza vento l’acqua riflette celo (sic!) e colline con infallibile speculazione. Si taglia su quell’acqua la figura del Cristo, sospesa in atto di adorazione (…). L’apparente centralità sacramentale del Cristo si smaga così, per via di tutti gli altri soggetti che occupano alla pari gli spazî liberamente commessi. (…) Il contorno degli uomini e delle cose si riduce a un semplice tracciato quale si annulla come linea nel momento che, per via di una misteriosa metromanzia, i volumi si congiungono fra loro e che ad ognuna delle sagome prospicienti tocca in sorte il proprio vasto colore armonizzato poi nell’unità del lume naturale. (…) Allora tutta la scala cromica della natura si squaderna nel quadro, adocchiata con una intierezza di pigmenti (…). Allora le cose secondo i lumi “si devariano”, come direbbe l’Alberti e una libertà vaga entro quell’ampia legge a concedere all’impressione dei particolari una immediata evidenza. Ecco le ombre rimpiattarsi nel greto, fulminanti come la coda del ramarro; s’infruscano fittamente le foglie sul celo (sic!) finché non vi trapeli qualche rara cediglia di luce (Longhi, 1927, pp. 30-31, cit. in Murru, 2022, p. 44).

Ecco l’analisi dell’autrice (di cui si riportano i brani funzionali al commento del testo di Longhi appena citato):

Si nota innanzitutto l’uso di speculazione per specchiamento_, per indicare il perfetto e fermo riflesso del cielo e dei colli nell’acqua del fiume e di_ tagliarsi per stagliarsi. (…) Dal punto di vista sintattico si nota in primo luogo un periodare lungo, un affastellarsi continuo di proposizioni coordinate; numerosi soggetti si accumulano in attesa della comparsa del verbo che li regge (…). L’impasto lessicale è estremamente composito: su uno stile fortemente letterario, come suggerito dai verbi smagarsi_,_ furare e squadernare (…) e da metafore come (…) le ombre «fulminanti come la coda del ramarro», si innestano tecnicismi artistici (chiaroscuro, linea_,_ pigmenti_,_ scala cromica_), richiami all’antica storiografia artistica («“si devariano”, come direbbe l’Alberti») ma anche vocaboli provenienti dall’ambito_ (…) persino dell’ortografia (cediglia). Infine, la preveggenza metrica che determina una perfetta disposizione di volumi e misure nello spazio è espressa da Longhi con la splendida neoformazione metromanzia (ivi, pp. 44-45).

Restando ancora sull’analisi linguistica, le pagine più pregiate del volume sono forse quelle dedicate ai glossari, strumenti di lavoro messi a punto con acribia e che si leggono anche con curiosità; lessicografa – Murru è assegnista di ricerca per il progetto AtLiTeG (Atlante della lingua e dei testi della cultura gastronomica italiana dall’età medievale all’Unità), è stata redattrice del Vocabolario Dantesco, e collabora con l’Accademia della Crusca e con l’Opera del vocabolario italiano-CNR –, l’autrice compila dodici glossari che sono un carotaggio del lessico dei testi presi in esame: le parole sono suddivise per aree tematiche (Arte; Letteratura; Archeologia; Araldica; Linguistica, grammatica, enigmistica; Musica; Anatomia e medicina; Fisica e astronomia; Geografia e agronomia; Matematica e geometria; Zoologia, entomologia e botanica; Longhismi). A ciascun lemma corrisponde una scheda così strutturata: a) Entrata, b) Significato, c) Esempi, d) Attestazione nel corpus e Distribuzione temporale, e) Riscontri lessicali, f) Note. La sezione tematica dei longhismi è tra le più vivaci: «raccoglie i vocaboli che Longhi ha creato, risemantizzato o utilizzato secondo nuove accezioni» (ivi, p. 102). Si citava prima la neoformazione metromanzia, ma è sorprendente constatare che è grazie a Longhi che capita di vedere usate con disinvoltura parole come campitura o ritrattistica.

Per scrivere queste pagine, va senz’altro aggiunto, Murru ha svolto un lavoro inedito, che ha comportato uno sforzo interpretativo per comprendere l’uso dei termini, di alcuni dei quali non era ancora stata data una definizione specifica. Come spiega su Treccani.it, «l’individuazione del significato inedito di alcuni termini è stata compiuta cercandone le corrispondenze con i dettagli delle opere d’arte descritte da Longhi». Ecco un esempio che illumina quanto appena detto: il sostantivo logogrifo proveniente dall’enigmistica – «gioco enigmistico che consiste nello scomporre una parola e rimescolare alcune sue lettere per ottenere altre parole di lunghezza inferiore e significato differente» (Murru, 2022, p. 149) – compare con due significati originali, di cui è Murru a dare per la prima volta delle accurate definizioni: «Schema pittorico che consiste nel riproporre in posizione e forme differenti lo stesso colore o la stessa figura»; ma anche: «frase artificiosa e oscura» (ivi, pp. 149-150). Ecco due delle occorrenze dai testi di Longhi (in tondo le segnalazioni di Murru):

Veggasi (…), al centro, quel logogrifo dei calzari che si schiarisce, tuttavia, nell’istante che, distaccandosi in parte dal suolo, essi vi rilasciano impresse le lunghe solette dell’ombra (…). Avendo altra volta inteso ad esprimere, e sia pure per via di un logogrifo verbale troppo romantico, l’effetto che discende da quel grande dipinto… (Longhi, 1927, p. 81 e p. 58, cit. ibid.).

Bibliografia e siti consultati

Berardinelli, Alfonso, La forma del saggio. Definizione e attualità di un genere letterario, Marsilio, Venezia, 2002.

Garboli, Cesare, Storie di seduzione, Einaudi, Torino, 2005.

Ragni, Eugenio, Cultura e letteratura dal primo dopoguerra alla seconda guerra mondiale, in Storia della letteratura italiana, Vol. IX, Il Novecento, diretta da Enrico Malato, Salerno Editrice, Roma, 2000.

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