Silvia Cassioli

Il capro

Milano, Il Saggiatore, 2022

Sembrerebbe di stare al principio del romanzo manzoniano, degli sposi all’inizio solo promessi, nel leggere l’incipit de Il capro di Silvia Cassioli (Il Saggiatore, 2022): poca presenza divina però qui, e latitante la visio Dei che proponeva Eco nella fruizione dei primi righi dell’opera – umana e troppo umana, la questione trattata: meglio che Dio, se esiste, si chiuda gli occhi. Nessun lago dunque, ma rami molti, nel bosco della Tassinaia, con le sue voci, i suoi rimbombi e la sua fauna umana e animale che vive, convive, si danneggia e ogni tanto sembra accorgersi di un qualcuno che si è perso: un cenciaiolo, mica un pollicino qualsiasi, che perso mica si è tanto, e che ritrovato viene quando non respira più – qualcuno l’ha ammazzato, uno col quale poco c’era da scherzare, un giovanotto che è partito di molto male. Omicidio passionale, gelosia alla base: il Vampa, Pacciani, lo conosciamo così, bravaccio col coltello in una storia senza santi – sono questioni da umani, queste qui, forse da bestie, a dirla tutta.

Inizia nel pieno dell’atto il testo di Cassioli, e con una lingua che impregna la bocca e i vestiti – magistrale il cambiamento di voci dell’autrice nel passare da un giocatore all’altro di questo massacro a orologeria – nel far sentire gli odori, gli smarrimenti e i passi nudi sul terreno di chi si perde, giacché il male, lo si sa, ha un lessico tutto suo, che confonde e che annacqua, intacca e consuma (il morto non c’era, come averlo sognato) in una società post conflitto che tutto il dolore ha ingoiato e che adesso sembra dover restituire una tragedia che diventa educazione al colpire e al belligerare col prossimo. Neanche a difendersi, serve il lessico, neanche a esprimere il buio o a tirarsi fuori dai guai: ci prova, il Mele, ma è sardo di Barbagia – serve l’interprete – e allora meglio adattarsi, annuire e dire a chi deve ascoltare icché volevan loro. Le parole sono misura del perdersi, la leggenda subentra alla ragione, col paese che si ingolfa, con i tutti e i nessuno da mala ora a interrogarsi, ché se il terrore non si può esprimere allora la logica finisce a nascondino: muoiono i giovani, le coppiette appartate dentro le macchine, e a scaricarci contro colpi di pistola sembra mica un essere umano, ché per gli esseri umani così è troppo di certo – sarà un superomo, un mostro o due – insomma, tanti mostri e dappertutto. I corpi diventano pezzi, e manco al cadavere si presta l’opportuno rispetto: lo sgarbo è doppio, uccidere prima e deturpare poi – non me l’hanno solo ammazzata, me l’hanno rovinata – dice un padre nel raccattare il dolore che gli resta.

Non una cronaca cimiteriale però il testo, ma una conta dei sommersi – proposti senza pietismi da quattro lire, inquadrati nel momento del concludere in una maniera che costringe necessariamente il lettore ad empatizzare (le rompono il cuore e lì per lei finisce. Ciao Stefania.) – e dei salvati, ammesso che da una tempesta del genere salvare ci si possa: è la storia di Natalino, a colpire chi legge, dei suoi passi veloci e poco creduti, del dover ancora una volta piegare la lingua come richiesto al punto di scordarsi di sé e degli altri (Il mi’ babbo? Io miha l’ho conosciuto) per dire e ripetere ogni cosa anche quando si è altro da ciò che si era stati in una prigionia del ricordo e del trauma che intrappola l’offeso nella speranza di prendere il reo. A parlare di chi va e di chi resta, a cercar di risarcire del bene che mi tolsero (citando un altro testo di Cassioli, Unghie, plantari, gambe di legno e altri ex-voto fantastici) ci vogliono le mani ed il cuore adatti, a ripescare una storia così dolorosa e così ancóra di pericolo ci vuole la forza e la devozione di chi, alle storie, dedica la vita. Spero che Cassioli, e tutti gli altri e le altre Cassioli, questo tributo, questa riconoscenza della comunità, possano riceverlo e copiosamente, altrimenti a far così fatica a scavare si rischia solo di rovinarsi stomaco e mani. Ci piace concludere questo pezzo con una preghiera, profana o sacra poco importa, sempre di preghiera si tratta, che l’autrice, forse senza saperlo, nella sua raccolta poetica passata esprimeva e che adesso, nel Capro, realizza: dare luce alle ombre, serbare quella memoria foscoliana che serve a tenere ancora un poco acceso il ricordo.

Donami pace madre e stillami dolcezza

dov’era il cuore e la mia gioventù

ora che ho perduto questo e quella

e indietro non posso averli più.