14 dicembre 2022

Aprire il fuoco

 

Luciano Bianciardi

Aprire il fuoco

Introduzione di Oreste Del Buono. Postfazione di Michele Cecchini

Roma, minimum fax, 2022

 

Vorremo cominciare con delle scuse, e sacrosante. Trattare di Bianciardi (e degli altri Bianciardi che ad esso si affiancano, campionatura vera di ciò che vuol significare far parte della azione operaia e tremenda dello scrivere) può significare soltanto cercare – impunemente e indebitamente – di portare un contributo minimo alla memoria, alla conservazione di quello che sarebbe delittuoso dimenticare: non stiamo pertanto in questo testo analizzando e spiegando (cosa poi, e a chi?), ma cercando di tenere una candela vicina alle altre che sperano di fare luce su ciò che va necessariamente illuminato e tenuto a fuoco. Una fiammella, la nostra, un’impressione minima da lettori: insieme ad altri contributi si spera di fornire un passo, uno solo, piccolo, a questa processione di santi patroni.

 

Il fuoco, dicevamo, da alimentare o scaricare addosso al nemico, ma pure quello che ti consuma da dentro e ti avvampa pareti ed organi. È un sentimento particolare quello che mina le giornate del protagonista del romanzo (Luciano Bianciardi, Aprire il fuoco , 1969, ripubblicato da minimum fax nel 2022), una cognizione del dolore che pare mancare di parole deputate a descriverla. Non basta la caeca rabies , quella furia nera che tutto travolge e porta con sé: non slavine qui, piuttosto maremoti. Viene voglia di scomodare un concetto vecchio e amato, intraducibile se non al prezzo di molte parole: la ménis achilleica, quel misto di violenza desiderata, frustrazione e amarezza che fa sanguinare pensieri e vestiti. Il protagonista bianciardiano non è semplicemente arrabbiato: quello potremmo esserlo tutti. Egli soffre, è attonito, ammalato di Sehnsucht  – desiderio irriducibile e destinato a incastrarsi nel gorgo della irrealizzabilità. “Arrabbiati per cosa? – dice Del Buono al principio del testo riproposto dalla casa editrice romana – Via, non siamo ingenui, non c’è che l’imbarazzo della scelta”. Proveremo qui di seguito a esplorare le ragioni, le nostre, sia chiaro, nel prendere la strada insieme a quest’uomo che nel testo si trova contagiato dalla disillusione – quindi perfettamente sano – e, per così dire, figlio a nisciuno . Viene in mente, per negativo, il Drogo buzzatiano delle attese, con la fortezza Bastiani incastrata intorno e con una differenza pure: la prigionia qui è dell’anima, la coscienza netta e immediata, la lingua – leopardianamente – franca e sincera. Nessun rinsavire: il crollo è consapevole e non sedato.

 

È anzitutto colpa della storia se le carte si sono mal infilate tra le mani (senza far crollare, accidenti, le torri): la Milano descritta dal toscano finisce in un tempo montaliano che non tiene, con vecchio e nuovo mescolati dall’interno, con l’occupazione nemica viva e in ritardo di un secolo e la penisola ancora da farsi: un cappio austriacante in attesa dei mille. Gli ultimi, come sempre – da protocollo di scrittura – vivi nel ricordo, come indicato per esteso a regola di memoria: giuro su Dio che se un giorno la causa dei giusti prevarrà, io farò il possibile perché di tutto egli venga risarcito, e che gli diano un posto adeguato ai suoi meriti, Perché se lo merita. Eccolo allora il Mora, condannato follemente a morte crudelissima e accuse da untore; eccola, la nazione, grande vittima dei disegni degli altri, che ciascuno voleva a modo suo ; ecco gli ultimi, da sempre indagati e difesi per questioni dolorose e indimenticabili (e militanti, perdio, parola ormai così dimenticata da alcuni) che il lettore avrà già compreso. Il tutto in un contenitore anch’esso malato – la geografia si accosta necessariamente alla storia, si ricordi almeno l’operare in occasioni altre del Dionisotti – invaso dalla nebbia che è più scarto e vergogna che prodotto nostrano ( È semmai una fumigazione rabbiosa, (…) un fiato di denti guasti , da La vita agra) di una realtà che al solito crede di poter essere centro e girotondo, principio tolemaico con gride manzoniane e piè dell’oppressore: ci fugge, il Bianciardi o chi per lui, giacché troppo somiglia chi scrive a colui che si racconta, e ci torna sotto mentite spoglie, moderno Tramaglino, con la cravatta da annodarsi prima del confine e il travestimento da vestire per non dare nel sospetto, tra delatori e bargelli in fermento di cattura.

 

Viene da chiedersi a questo punto che lingua ci si porti, nel parlare del dolore, e al motivo cronotopico deve subentrarne necessariamente un altro, altrove già citato. Storia e geografia traducono soltanto la presenza di qualcuno che, come nei racconti di Cortázar, ci occupa silente l’aria ed il terreno. È nella parola però che si denuncia l’assenza della libertà sì cara: la lingua pertanto è dell’assedio, strumento primo di lotta e derisione del padrone, al rischio della vita e tanto cosa importa. Bianciardi – e lo leggano i ventenni e i trentenni, lo facciano immediatamente, per scappare da quel lisciume piatto che puzza di cantina e rassicurazioni – gemina e contorce, insubordina ed innesca, giacché se il vocabolo resta, barbianamente, l’utile del più forte – quando l’uomo slatina, la disgrazia si avvicina – allora la risposta deve essere granata, con la volgata che si slarga e umilia l’occupante, dato che sono tutti doktori, nel Lombardo-Veneto, (…) dokitores omnes, castighi di Dio, per conto dell’imperatore viennese . Si consideri almeno la parodia onomastica del Duca Delatopa prima, Delasorca poi e dopo ancora chissà cosa in un clima di fuga e di soppiatto che è sopravvivenza – pochi, maledetti e subito – e pure tentativo dignitoso di campare a schiena dritta – Pensa, quattromila lire ce le siamo già guadagnate. (…) Due vanno a Mara, una al padrone di casa, la quarta paga la luce, il telefono, il gas, il latte e il pane . (La vita agra). Sembra finito il tempo delle rivoluzioni, o meglio conclusa quell’esperienza romantica che uno si porta nel farle: tutti malati di correre , verrebbe da dire, parafrasando le parole di uno che a Bianciardi per qualche motivo deve essere compagno di strada, Giovanni Arpino: si considerino le riflessioni amare sui passanti impegnati a passare ne La vita agra, si noterà come paia essere l’intero progresso (sempre eterodiretto dai padroni del fuoco) la fiumana che tutto ingoia e tutto involve, e che la ribellione contro codesti o questi altri poco innesco potrà portare. È la società, tra le righe del toscano, a ritrovarsi in disarmo, e niente ci vuole a rendersene conto: non ci riferiamo ai cenni nel buio, ai fischi e alla tosse (non solo a quelli), ma a quell’inceppo sessuale che pure nella denuncia dell’esule di Aprire il fuoco diventa bandiera prima di una prigionia intima dell’individuo: già lo sento, io quel che diranno i sociologi (…) fra una cinquantina d’anni. Diranno che il sesso è un bene, di cui la fruizione dovrebbe essere garantita a tutti. Finito il gioco è finita la possibilità di giocarci: datemi il tempo, datemi i mezzi, si implorava altrove confidando nella bontà del proprio tentativo, senza sapere che gli strumenti sono diventati pura posa in appalto (cerco, mentre scrivo, di togliermi dalla mente Le cose di Perec ma, confesso, non ci riesco) e i tempi sono subiugati e poco democratici: a chi predicava, a chi cercava di evidenziare non resta che la fuga (dagli altri e da se stesso). Bianciardi è evidente profeta, se riletto cinquant’anni dopo con la coscienza a ciò che accade e che è accaduto, ma il destino del profeta, Ulisse sperduto per i mari, è quello di tornare nessuno e finire solo e dimenticato: chi esce dalla caverna può pure rivelare, ma il prezzo del racconto è alla fine l’annullarsi. E così siamo diventati soli. Il tempo va. E conosciamo più nessuno. Le parole per chiudere le ho prese in prestito da Arpino, a me mancava il cuore. Una preghiera soltanto, l’ultima: per Bianciardi ci vuole la devozione del santo – nominiamolo spesso, non invano e con rispetto: imponiamone il recupero.

 

Questioni del genere non sono dimenticabili: per noi e per quelli che saranno a venire.


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