Giampaolo Francesconi, Giovanna Frosini, Simone Pregnolato, Stefano Zamponi

«All’onore di messer santo Iacopo apostolo». Mazzeo Bellebuoni e gli Statuti dell’Opera di San Iacopo (1313)

Pistoia, Società pistoiese di storia patria, 2022

Chi sarà mai? È una domanda che risuona spesso nella mente dello studioso degli statuti e dei loro volgarizzamenti. Talvolta si conosce la mano che ha redatto lo statuto latino, talvolta anche quella che lo ha tradotto in volgare in tutto o in parte, ma è un caso davvero singolare trovarsi di fronte a un notaio che abbia costruito il testo dello statuto latino e poi lo abbia anche tradotto. Così accadde a Pistoia fra il 5 e il 20 gennaio 1313 con la redazione e il volgarizzamento degli statuti dell’Opera di San Iacopo da parte di ser Mazzeo di ser Giovanni Bellebuoni. Risponde a una precisa scelta ed esigenza scientifica la pubblicazione dei due testi degli statuti messi a fronte, curata da quattro studiosi che hanno unito competenze e sensibilità diverse: quella paleografica di Stefano Zamponi che ha ricostruito le vicende e ha descritto le caratteristiche del manoscritto, individuando una minima diacronia tra le due versioni; quella storico-medievistica di Giampaolo Francesconi che ha collocato gli statuti nel quadro della società e delle istituzioni pistoiesi del tempo; quella storico-linguistica di Giovanna Frosini e di Simone Pregnolato che hanno lavorato sul testo bilingue; con l’aggiunta di un saggio sulle caratteristiche della lingua pistoiese del primo Trecento (e non solo) e di un ricchissimo glossario che si debbono all’acribia di Simone Pregnolato.

Si potrebbe allora partire proprio dalla fine cioè dall’explicit dello statuto per cercare di rispondere a qualche domanda sui rapporti tra latino e volgare in questo genere particolare di testi. Simone Pregnolato a proposito del volgarizzamento dello statuto e delle sue modalità indica un’alternativa: ser Mazzeo scrive il 5 gennaio il latino, poi il 20 gennaio nel consiglio generale del popolo legge il testo e poi di seguito lo traduce all’impronta in volgare; oppure, nella stessa scansione temporale, Mazzeo scrive il latino, lo legge e poi legge la versione volgare che ha già predisposto. Plausibile senz’altro. Ma c’è un’altra possibilità: Mazzeo il 20 gennaio legge direttamente in volgare lo statuto latino che ha davanti (magari aiutandosi con degli appunti o con una minuta volgare che ha già preparato) secondo una prassi notarile consueta e diffusa. Insomma, quel «dicta statuta [...] lecta et vulgariçata per me Matheum ser Johannis Bellebuoni notarium dicte Opere» dell’explicit dello statuto sarebbe una sorta di endiadi.

Seguito su questa strada. La doppia edizione offre il destro per rispondere a una classica domanda quasi sempre senza risposta, se cioè sia nato prima l’uovo o la gallina, ovvero quali siano i rapporti nelle redazioni statutarie tra il volgare e il latino. Complessi e vari, in genere: alcune volte è il latino, in particolare quello delle fonti giuridiche romane, che prepotentemente influenza il volgare, altre volte è il volgare che segna il latino sia sotto l’aspetto lessicale, sia sotto quello sintattico. Di solito però, anche quando la direzione di marcia è volgare ➾ latino, il volgare ha comunque già assorbito dei caratteri latini tipici del pensar giuridico. L’esempio classico è il Breve di Montieri del 1219, minuta volgare per uno statuto latino da redigersi, che porta delle cicatrici caratteristiche della scrittura giuridica: non altrimenti spiegabili quel per se defendendo o quel per temporale che tradiscono nella mente dell’ignoto estensore un pro se defendendo o un pro tempore frequenti nel latino del diritto.

Di questi rapporti particolari fornisce begli esempi anche il nostro statuto. È pacifico direi che in un settore come quello delle misure dovesse essere il volgare a influenzare il latino con le sue nomenclature, se si voleva davvero essere capiti: i curatori, in particolare Giampaolo Francesconi, ben lo mettono in evidenza a testimonianza del carattere e della funzione civile e cittadina – e non meramente religiosa – dell’Opera di san Iacopo e del suo statuto. Un altro momento topico è la celebrazione della festa di San Iacopo, nella quale in omaggio al vescovo celebrante l’altare doveva essere abbellito da sei misteriosi travintoia di cera (la bella voce del glossario di Simone Pregnolato chiarisce che doveva trattarsi di ‘castelletti di cera’). Così Giovanna Frosini: «travintoia, esito di trauntorios medioduecentesco, viene ‘ri-latinizzato’ da Mazzeo nella stesura» dello statuto latino in travintoria, secondo dunque un percorso latino duecentesco ➾ volgare ➾ latino dello statuto (p. 24). Anche in questo caso: quello che contava era esser capiti (almeno allora: oggi con i travintoia per abbellir altari abbiamo perso consuetudine), ed è un altro bell’esempio di notaio che pensava in volgare.

Il divertente – per chi si diletta di queste facezie – è che nello statuto dell’Opera di San Iacopo ci sono certi cambi di direzione che toccano direttamente il cuore stesso del lessico giuridico. Come tutti gli uomini della sua generazione e di quelle precedenti e di molte successive, se voleva riferirsi al latino ius e alla sua sfera semantica, Mazzeo in volgare non diceva diritto, ma ragione: ragione è il traducente pressoché obbligato di ius dal volgare delle origini fino al XVII secolo, quando d’influenza francese e spagnola s’affermerà diritto, fino ad allora relegato a usi linguistici particolari.

Nello statuto dell’Opera di San Iacopo talvolta ragione traduce ratio, ma almeno in un caso tutto rimane perfettamente in linea con la sfera semantica delle parole perché in questi casi il significato è quello di ‘conto’: «Quod introitus et exitus scribantur pro ratione reddenda» (26r) = «Come l’entrate e l’uscite si debiano scrivere per rendere ragione» (43v). Del tutto naturale che ratio ‘conto’ venga etimologicamente tradotto con ragione. Non dimentichiamo chi siano ancora oggi i ragionieri: ‘coloro che fanno e tengono i conti’.

Ma c’è un’altra ragione che viene resa agli operai ‘amministratori’ dell’opera, è quella prevista dalla rubrica IX: «potestas, ançiani et vexillifer iustitie et ipsorum et cuiusque ipsorum iudices et familiares [...] teneantur et debeant tali operario sive notario facere et reddere summariam rationem contra quoscumque debentes dare, reddere, solvere vel restituere aliquid Opere suprascripte» (27r) = «lla Podestà e li Ançiani e ’l Gonfalonieri della giustitia e li loro e giudici e famiglali [...] siano tenuti e debbiano a quelli cotali operari overo notaio fare e rendere sommaria ragione contra tutti coloro li quali dovessero dare, rendere, pagare, overo restituire alcuna cosa alla ditta Opera» (43v-44r). Anche qui ragione corrisponde a ratio e non a ius, ma non vuol dire ‘conto’, bensì ‘giustizia’, cioè esprime uno dei significati tipici di ius. Due possibilità: o è l’antico ratio ‘diritto’ dell’alto medioevo e di certe fonti giustinianee che è sopravvissuto; oppure è il volgare ragione che ha influenzato il pensiero traduttivo del notaio inducendolo a usare in latino ratio in un contesto di solito riservato a ius. E ciò accade in un’espressione il cui significato non è proprio quello “classico” di ‘diritto soggettivo’, ‘diritto oggettivo’, ‘titolo giuridico’, ambiti semanticamente tipici di ius, ma quello più generico di ‘giustizia in senso concreto’; dove inoltre ben poteva valere l’influenza dell’altro rendere ragione, quello che significa ‘rendere il conto’. Se è così, allora si deve concludere che talvolta il volgare è più forte e prepotente del latino, addirittura nel cuore del lessico del diritto.

Queste inezie lessicali – che però servono a ben individuare il corretto significato delle parole – si scoprono solo attraverso il metodo scientifico adottato dai curatori: il confronto diretto tra il latino e il volgare, oltretutto frutto della testa di un unico autore, quel ser Mazzeo che scrive lo statuto latino e poi lo volgarizza. Tra i tanti, è proprio questa scelta metodologica il pregio maggiore dell’edizione.

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata