Davide Morganti
Atlante della fine del mondo
Napoli, Marotta&Cafiero, 2022
cofanetto in cinque volumi: Africa, Asia, Oceania, America, Europa
Exegi monumentum aere perennius : vogliamo – dobbiamo – scomodare un verso oraziano per descrivere quella che è stata l’azione di Davide Morganti nell’ Atlante della fine del mondo (Marotta&Cafiero, 2022), una raccolta di cinque volumi che documenta un viaggio esperienziale tra continenti affrontanti un libro alla volta e intercettati nell’atto di svanire con la volontà umana di serbarne il ricordo, di tenere in vita ciò che, sulla cartina, rischia di perdere meridiani e paralleli. Casimiro Boboski lo strumento, l’espediente e pure il viaggiatore: un incrocio mezzano tra un Dante pavido, un Ulisse costretto al testimoniare e allontanato dalla casa sperata e una perfetta vittima delle novelle che Boccaccio designava nella sesta giornata del Decameron. Un uomo d’ufficio, quasi un amico del Belluca pirandelliano, intento a passare le otto ore lavorative a elaborare progetti puntualmente rifiutati dal Poggiali, suo compagno di scuola ai tempi che furono e suo persecutore in quelli che sono, ufficialmente suo superiore, letteralmente suo inferno in vita con scherzi e lazzi che il povero subisce senza protesta alcuna. È uno che non sapeva dire di no a nessuno, il nostro: figurarsi quando gli si chiede di partire in giro per il mondo a mo’ di Geppetto stassiano, col poco e col niente che si trova, prima che questo finisca disegnando linee che si perdono e raccogliendo storie di uomini che rischiano di cadere dimenticate: è uno da sacrifici, il Boboski, uno che Cristo dalla croce lo avrebbe tirato giù per sostituirvisi senza batter ciglio. In partenza dunque, senza cappello, col freddo addosso e la scriminatura di capelli a dividere la testa a metà mentre la bocca balla e la parola non tiene: pure balbuziente, doveva essere il disgraziato, come non bastasse il padre mancate, la madre partente e morta l’unica donna che avesse provato a rivolgergli un minimo d’attenzione.
L’Africa, per cominciare, in questo viaggio sgangherato che si percorre un continente alla volta, non prima di incappare, come si diceva, in un Cristo fuori stagione – le storie come ombre si addensano sulla bocca di Casimiro, ed ogni passo diventa un racconto nelle tasche: è la volta del maresciallo De Sarlo, in apertura di danze, col viso alla Gino Paoli e una fede incrollabile, che in una Basilicata ben lontana dall’attuale si trova per errore a fare i conti con domeneddio per scoprirlo poi posticcio, non veritiero e pasoliniano: è un set, ciò che coglie, una recita e non certo il ritorno del Salvatore intento a condonare un’altra volta i peccata mundi . È così quello che sembrava inizialmente uno spaventapasseri tra le pietre (ventenni, leggete Morganti, imparate a scrivere così, leggendo i padri fondatori) diventa un momento di disillusione profonda: nessuna nuova redenzione, una salvezza che non arriva e anzi un regista così odiato dal militare, quel Pasolini che faceva credere al mondo che l’Italia fosse solo un paese di pervertiti, visionari e di puttane a sconsacrare e distruggere il sogno di essere nuovo re magio. Per un esodo mal interpretato fuori Eboli e una tappa momentanea in Lucania a trattare di quella tematica cristologica che tanto ha albergato in cuore all’autore nel suo percorso (si pensi almeno a Il cadavere di Nino Sciarra non è ancora stato trovato , Wojtek edizioni, e al dolore che si accompagna ad una fede sentita, problematica e più sincera di tante altre che appaiono pubblicitarie) ecco che arriva il Marocco con una storia piccola che si insinua nel cuore, quella di Zahra, il cui padre quando piove non può lavorare con annessa tempesta di rabbia scatenata sulle figlie ( Quando c’è la pioggia, maestra, io muoio – chi resta intatto a questo titolo dismetta i panni di lettore e di essere umano). In Europa infine, di strascico e ritorno, a cominciare dall’alto, non prima di aver trovato un continente in stato di decomposizione che si frantuma a guscio d’uovo tra i resti della malattia capitalista: dal Nord, dicevamo, amore vero dell’autore (avrebbe meritato di nascerci, forse, di essere parte di quelle cose) che attesta un lamento cimiteriale di morti che non si vogliono decomporre nel ricordo, che vogliono foscolianamente restare in qualche modo agganciati a qualcosa che li tenga (altro tema forte, quello della memoria, in questi racconti) per arrivare a un babbo natale così diverso e così più umano rispetto a quelli sponsorizzati e rivisitati da aziende di bevande molto note, con una slitta incastrata su un tetto che rischia di mandare a monte le celebrazioni di festa e un male che incombe tremendo alle spalle ( A Stort Mørke è un periodo di massima cattiveria ). La Georgia nel mezzo, cerniera di congiunzione eurasiatica, con un’invettiva meravigliosa sin dal titolo che rovescia il gioco di insubordinazione classica – Le responsabilità sono tue, Dio – per mettere in discussione l’indiscutibile: il tempo di Giona è passato e anche l’Altissimo, se vuole restare in sintonia con la creazione, deve trovare modi di scavalcare il grande abisso del silenzio, giacché prima ci sono le bollette, il crollo del gioco inventato duemila anni or sono e la casa da governare: nessun profeta dunque, né per vocazione né per chiamata, ma la richiesta al supremo, almeno per una volta, di prendersi personalmente la sua quota di colpe.
Vorremo continuare per ore, a cronacare, magari pensandoci intorno a un fuoco a raccontarci queste storie, includendo gli altri continenti (America e Oceania) lasciati fuori per meri motivi di spazio: è roba boccacciana questa, da resistenza alla catastrofe, dell’inventare storie che poi sono così maledettamente vere e così tremendamente agganciate ai loro luoghi di provenienza facendo tornare alla fine di questa enciclopedia dell’umano un Casimiro così uguale e così dissimile da sé, ma vogliamo più di ogni altra cosa, in chiusura, urlare (con la giustificata furia che il contenuto permette): gentili signori compilatori delle cose della letteratura italiana, Morganti, quello dei Disertori di Einaudi, quello che ha pubblicato per Neri Pozza e che ha fatto altre e tante cose ancora, ha scritto in cinque libri il suo testamento letterario (non casuale la dedica in epigrafe: A Simone, mio figlio, finalmente ): vogliamo accorgercene tardi e acclamare il genio quando questo autore avrà le due date di biografia o per una volta, per una delle poche (che pure esistono), vogliamo rendere giustizia fino a quando siamo in tempo?
È una preghiera la mia, una preghiera da conchiglia. Non lasciatela, vi imploro, in fondo al mare.