Alfredo Giuliani
La biblioteca di Trimalcione
a cura di Andrea Cristiani
Milano, Adelphi, 2023
Trimalcione, l’improbabile e ricchissimo parvenu ideato dalla fantasia di Petronio, a un certo punto del Satyricon si vanta di non disdegnare affatto la cultura, anzi: dice di possedere ben tre biblioteche, «unam Graecam, alteram latinam». Si ferma qui, senza aggiungere altro. Si tratta probabilmente di un marchiano strafalcione aritmetico oppure di un goffo tentativo – interrotto sul più bello – di far colpo sull’interlocutore, l’avvocato Agamennone. Ma è anche lo spunto che spinge Alfredo Giuliani a scegliere il titolo La biblioteca di Trimalcione per un volume in preparazione e in larga parte costituito da recensioni. L’«esilarante ingordigia del personaggio» infatti investe sia il cibo sia i libri, e almeno sotto quest’ultimo aspetto Giuliani si sente solidale: «non sono forse così, abbuffate trimalcioniche, vuoti farciti di studiate leccornie, le nostre incessanti letture e le biblioteche personali che mettiamo insieme e sfoggiamo alla nostra mente avida di trangugiare polpa di chimere?».
Come spiega nella postfazione il curatore Andrea Cristiani, Giuliani progettava questo libro dalla fine degli anni Ottanta e lo aveva arricchito fino al 2007, l’anno della sua scomparsa. L’autore aveva già scelto, rimaneggiato e in alcuni casi accorpato vari testi, usciti fra il 1977 e il 1998, perlopiù su «la Repubblica». Al curatore è rimasto dunque il compito di interpretare gli ultimi desideri, testimoniati da alcune cartelle d’archivio, e di accompagnare il volume fino alla stampa. Alla fine di questo processo, si contano in tutto cinquantuno saggi, articolati in quattro sezioni che seguono un criterio cronologico. Molti interventi sono dedicati a singoli libri, altri – pochi, in verità –, a uno scrittore o a un tema specifico. In coda si trova l’unico testo di invenzione: un curioso dialogo che si richiama al Castello di Kafka, con l’agrimensore K. che discute con un Archivista, secondo un canovaccio che ricorda le Operette morali leopardiane.
Nell’insieme, l’autoantologia colpisce fin da subito per la sua ampiezza. Anzitutto un’ampiezza cronologica: Giuliani prende le mosse dalle opere di psicanalisi – che però, dichiara, ha sempre letto «come fossero romanzi» –, passa poi al mito e alla letteratura antica e da lì risale il corso secoli, fino ad arrivare all’ultimo testo, dedicato alla scomparsa di Italo Calvino. Ma soprattutto, accompagna i suoi lettori in un vero e proprio giro del mondo, dal Giappone alle Americhe, passando per la Cina, l’India e naturalmente attraversando tutta l’Europa. Si allestisce così una sorta di piccola biblioteca della letteratura mondiale, in cui, aggirandosi con serendipità (parola molto amata da Giuliani), si fanno incontri sorprendenti.
Infatti, come in un’estrosa wunderkammer barocca, si affolla nel libro una ridda di autori, vicende e personaggi, inquadrati spesso da un punto di vista originale o inaspettato. Ci sono volti noti ai lettori, come la Lucia manzoniana, che è il più singolare fra i possibili motori di una macchina romanzesca. Nei Promessi sposi, nota Giuliani, pur non facendo nulla riesce a far procedere la trama, seducendo in modo inconsapevole Don Rodrigo oppure convertendo – altrettanto involontariamente – l’Innominato. C’è poi Foscolo, con il racconto dello sfortunato e intenso innamoramento per Antonietta Fagnani Arese, e c’è il filosofo Kierkegaard con la sua storia d’amore con Regina, bruscamente interrotta (e come Giuliani non manca di notare, in entrambe le vicende c’è di mezzo una malattia del corpo). Accanto a loro fanno capolino volti meno celebri: lo scrittore ungherese Csáth, psicanalista prima e scrittore poi, morto per abuso di oppiacei dopo una vita sregolata, oppure le scrittrici giapponesi Murasaki e Sei Shōnagon, entrambe vissute attorno al Mille e avvicinate l’una a Proust, l’altra a Stendhal. E poi s’incontrano le godibilissime figure dei fool e delle canaglie, che Giuliani racconta con uno sguardo sornione, fra il complice e l’indulgente. Ecco allora Till Eulenspiegel, una maschera tedesca del tardo medioevo e del Rinascimento, un buffone che mette alla berlina «chiunque gli capiti sotto tiro – contadino, mercante, artigiano, prete, signore, dotto universitario, locandiera, papa o re –». I suoi parenti italiani sono Bertoldo e Bertoldino, tanto amati che il recensore non può che compiangere chi non li abbia conosciuti in gioventù. E non può mancare il cugino anglosassone: è Volpone, l’avaro furfante protagonista dell’omonima opera teatrale secentesca di Ben Jonson, che Giuliani aveva tradotto per il teatro Stabile di Roma nel 1977.
Se queste figure risultano tanto memorabili è perché Giuliani mette all’opera tutta la sua abilità di scrittore per affabulare e sedurre il lettore. A partire dagli incipit, che sono spesso fulminanti: «Non vergogniamoci di scoprire soltanto oggi un certo Plutarco. Dopotutto, chi sa di non sapere è pronto a godersi i piaceri dell’ignoranza»; «Delle opere meno lette scommetterei che il titolo più citato e popolare è Le mille e una notte»; «A scuola un lascivo pensiero per l’amica risanata di Ugo l’abbiamo avuto tutti». Talvolta gli articoli assumono addirittura l’andamento del giallo, come nel caso di Eraclìto: «Come in un romanzo poliziesco – chi è il lógos? – un gran bel colpo di scena dopo quasi duemilacinquecento anni di speculazioni e congetture indiziarie! Credevate che il lógos fosse questo o quello, invece l’insospettato era l’imputabile più naturale». Di tanto in tanto lampeggia un ghigno ironico, come quando rimprovera a Sanguineti l’equiparazione tra Foscolo e Stendhal: «Un altro piccolo passo nella catena sanguinetiana e arriveremo a supporre che anche Stendhal è un eroe foscoliano (riuscito un po’ meglio di Jacopo e di Ugo perché ha scelto la nazionalità giusta)». Quando è il caso, poi, si toccano le corde del patetico e del sentimentale, come nel commosso ed elegante ultimo saluto a Italo Calvino.
E soprattutto, Giuliani – che si definisce «lettore brado e impaziente» – svolge alla perfezione il compito più difficile: dismettere i panni del critico scafato per affrontare il testo senza armi e malizie, pronto a farsi sorprendere dalla lettura. Forse per questo motivo si avverte in alcune pagine la gioia di raccontare i passi più belli o gli incontri più interessanti, specie quando si attraversano mondi lontani e amatissimi. Chiudiamo allora con un uno sguardo sul Chin P’ing Mei, un romanzo cinese del Cinquecento. Più del pruriginoso lato erotico, comunque esplorato, Giuliani si sofferma prima sulla leggenda che riguarda il nome dell’autore – che, come Jorge da Burgos del Nome della rosa, avrebbe cosparso le pagine di veleno per uccidere un suo nemico –. Poi si lascia attrarre dalla rappresentazione precisa della provincia cinese. «Taverne, bordelli, monasteri e tribunali, mercati, feste, case di ricchi e case umili, cucine, padiglioni o giardini», scrive con partecipazione, «ogni luogo delle suggestive vicende ha i suoi timbri e colori, delicati o cupi, acidi o abbaglianti, striduli o armoniosi».
Si capisce bene, anche dai pochi passi citati finora, come Giuliani, al pari dell’amico Manganelli, trasformi le recensioni in piccole prose d’arte. E non sarà un caso, allora, che alcuni libri e autori recensiti compaiano anche nelle poesie scritte in quegli questi anni, come il Badante di Eraclìto o Pensando a Emily, dedicato alla Dickinson. La barriera fra il critico e il poeta, se esiste, è quanto mai sottile.