Luca Serianni
Una lezione su Dante
A cura di Giorgio Delia
Soveria Mannelli, Rubbettino, 2022
Quanti, come chi scrive, hanno vissuto con incredulità e profondo dolore la tragica, cruenta, precoce fine di Luca Serianni (Roma, 1947-2022) — maestro di più generazioni; accademico dei Lincei, della Crusca e dell’Arcadia; grammatico e lessicografo tra i più competenti; raffinatissimo interprete della lingua degli autori — accoglieranno con commozione mista a giubilo questa postuma Lezione su lingua e stile della «Commedia» impartita agli studenti del liceo «Galilei» di Trebisacce (CZ) il 13 dicembre dell’anno dantesco 2021; lezione fortemente voluta da un docente di quella scuola e allievo di Serianni, il critico letterario Giorgio Delia (di cui citiamo almeno La «parlèta frisca» di Albino Pierro; «Metaponto» e dintorni. Avviamento all’opera di Albino Pierro; In partibus infidelium. Appunti su alcuni poeti in dialetto dell’Italia repubblicana; la curatela di Gianfranco Contini, Pagine pierriane. Schede, esercizî, corrispondenza), il quale premette al volume un profilo dello studioso che è al tempo stesso una biografia culturale, una presentazione di Parola di Dante e un epicedio degno del miglior Contini:
[N]on si può non tenere conto di quanto sia capitale la riflessione sul valore della parola nella linguistica di Serianni: il vocabolarista (nel 2017, ha pubblicato con Maurizio Trifone il Nuovo Devoto-Oli, con sostanziali modifiche rispetto alla versione data alla luce mezzo secolo prima dai due primi intestatarî); il direttore degli «Studi di lessicografia italiana» editi dall’Accademia della Crusca. Essa è così centrale da essere esibita in copertina di alcuni dei suoi ultimi lavori. Da Un treno di sintomi. I medici e le parole (2005), ove l’esegeta, figlio di un medico, fa della terminologia il «fulcro» del discorso su quel linguaggio specialistico, alle postreme propaggini scolastiche della grammatica: La forza delle parole (2019), Le parole sono idee (2020).
Sin dal titolo, questo libro richiama per contiguità editoriale e continuità di ricerca un precedente, Parola (2016), salvo specificarsi di Dante, come a connotarla con un’auctoritas (che è anche veritas) più rilevata, come a dire la parola (d’onore) degli Italiani. In questo, per la materia trattata, si sedimentano esperienze e contributi già delibati in altri luoghi. Ad attenersi a quelli più prossimi, penso alla parte prima di Per l’italiano di ieri e di oggi (2017); al secondo capitolo della prima sezione di Il lessico (2019); perché no, alle letture fruibili in rete attraverso la piattaforma YouTube (spesso risultate salutari in tempi di DAD).
In questo lavoro campeggia Dante, monograficamente. Quello che, secondo la testimonianza di Jacopo Alighieri, era l’ipocorismo di «Durante» («Durante, olim vocatus Dante»), identificato, in base al patronimico, Alagherii (o nella variante, col gentilizio, de Alagheriis), per essere infine, a partire da Boccaccio, Alighieri. A farla breve, l’autore che Serianni nella sua recente antologia, Il verso giusto. 100 poesie italiane (2020), non esita a definire il «nostro massimo poeta». Il giudizio potrebbe far pensare a una partigianeria dato che a emetterlo è uno storico della lingua italiana. A ben vedere, allargando l’orizzonte a quella che Goethe chiamava Weltliteratur, è tarato per difetto, se il Nostro, da un critico americano tra i più influenti degli ultimi anni, Harold Bloom (non certo propugnatore di cose nostrane), è stato chiamato a costituire con Shakespeare «il centro del Canone» occidentale (il primo, per ragioni anagrafiche). In particolare, l’oggetto della ricerca è l’autore del classico dei nostri classici. In quanto tale, come direbbe Calvino, un libro «che non ha mai finito di dire quel che ha da dire», ma anche un’opera «che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso» (pp. 28-29).
Col suo inconfondibile stile piano e ammaestrativo Serianni richiama l’attenzione di alunni e docenti sul lessico della Commedia e soprattutto sulle prime attestazioni dantesche, ossia sui termini che Dante ha usato per primo; attestazioni non uniformi nelle tre cantiche: se ne contano, infatti, venti nella prima, trentaquattro nella seconda e ben sessantadue nella terza, che è quindi lessicalmente la più ricca. Dal canto XII del Paradiso l’autore ricava un micro-campione di dieci parole: musa nel senso di ‘poesia’; il termine scientifico parallelo; concolore ‘del medesimo colore’, latinismo poi scomparso come iubere ‘comandare’; presago, letterario ma tuttora in uso come tripudio ‘intensa gioia’; riarmare; sponsalizie ‘nozze’, da cui ‘sponsali’, comune a Napoli; assenso; possessivo; biga ‘carro a due ruote trainato da un cavallo’ (ancora in Ignazio Silone e in Bonaventura Tecchi); orbita, altro termine scientifico; muffa, un’immagine tratta dal processo della vinificazione: «sì ch’è la muffa dov’era la gromma»; infine coartare, «un verbo interessante. Il verso di cui fa parte è proprio nella reprimenda che san Bonaventura rivolge ai francescani che forzano la sacra scrittura ai loro personali interessi: “ch’uno la fugge e l’altro la coarta”, cioè ‘uno la fugge, non la osserva, e gli altri la irrigidiscono, la forzano’, quindi alterando il significato originario. Coartare è un verbo che oggi abbiamo in italiano, in particolare con un preciso valore giuridico: “coartare la volontà di un soggetto passivo” è per esempio un reato previsto dal Codice penale» (p. 71).
Dante può dunque ben a ragione esser considerato il “padre della lingua italiana”, ma le sole parole — prive di senso — che egli inventa dal nulla sono contenute in un verso riproducente la lingua satanica: «Raphèl maì amècche zabì almi» (Inferno XXXI); ovviamente non mancano mirabili esempî onomaturgici (per esempio gli stupendi parasintetici intuarsi e immiarsi, a base rispettivamente tu e me), ma si tratta di “formazione delle parole”, un meccanismo a disposizione d’ogni parlante. Abbiamo, poi, i latinismi adattati nonché «semplicemente le parole che Dante, come ogni parlante, ricavava dal suo ambiente [come il citato muffa]. Da dove l’avrà presa Dante? ma…, dall’ambiente circostante! Sarebbe come chiedere a noi “quando hai imparato la parola casa, o cane, o gatto?” Chi è in grado di rispondere? Nessuno. Le ho sempre sapute. Sono parole che fanno parte della humus linguistica in cui ogni parlante madrelingua si è formato» (p. 74).
Riferimenti bibliografici
Luca Serianni, Un treno di sintomi. I medici e le parole: percorsi linguistici nel passato e nel presente, Milano, Garzanti, 2005.
Id., Parola, Bologna, Il Mulino, 2016.
Id., Per l’italiano di ieri e di oggi, Bologna, Il Mulino, 2017.
Id., Il lessico, Milano, RCS MediaGroup, 2019.
Id., (con Valeria Della Valle e Giuseppe Patota), La forza delle parole, Milano-Torino, Pearson, 2019.
Id., (con Valeria Della Valle e Giuseppe Patota), Le parole sono idee. Grammatica, lessico, scrittura, Torino, Bruno Mondadori, 2020.
Id., Il verso giusto. 100 poesie italiane, Bari, Laterza, 2020.
Id., Parola di Dante, Bologna, Il Mulino, 2021.
Giorgio Delia, La «parlèta frisca» di Albino Pierro, Lucerna, Edizioni Periferia, 1988.
Id., «Metaponto» e dintorni. Avviamento all’opera di Albino Pierro, Castrovillari, Il Coscile Edizioni, 1990.
Id., In partibus infidelium. Appunti su alcuni poeti in dialetto dell’Italia repubblicana, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2016.
Id., (a cura di), Pagine pierriane. Schede, esercizî, corrispondenza, Firenze, Edizioni del Galluzzo per la Fondazione Ezio Franceschini, 2017.