Gaia Manzini

La via delle sorelle

Milano, Bompiani, 2023

Le sorelle sono state, per secoli, le stelle di riferimento per chi navigava: i marinai, scossi dal mare grosso, persi nel buio e disorientati dalle correnti, cercavano nel cielo nero una risposta alle loro domande inquiete e, quando vi scorgevano il luccichio della costellazione delle Pleiadi, si rasserenavano e riprendevano la rotta. Le sette sorelle hanno abitato cieli e poemi, miti e annali, dalla Grecia di Esiodo e Omero alle leggende cinesi, giapponesi, aborigene e Hindu. Gaia Manzini, in La via delle sorelle, ricostruisce l’itinerario di una vita segnata da scelte e rinunce, della sua nave che ha proceduto, attraccato e salpato non sempre avendo a disposizione cartina e bussola, ma seguendo la luce fulgida e chiarificatrice delle sorelle.

Amiche perdute e ritrovate, incrociate soltanto per un’ora, attinte dalla letteratura e comunque vere, presenti, vive e luminose come fari. Gaia Manzini disegna la sua, personale, costellazione, animata da Frida, Silvia, Marina, Luisa, Teresa, Paola, ma anche da Natalia Ginzburg, Alda Merini, Anne Sexton, Sylvia Plath, Lalla Romano, Antonia Pozzi, Pippa Bacca, Simone de Beauvoir, e molte altre. Non “grazie a loro”, ma attraverso il rapporto di sorellanza, scopre il proprio corpo, i propri limiti e quelli degli altri, il rispetto che deve alla propria vocazione e la misura dei danni provocati da un desiderio tradito, ma soprattutto si impadronisce delle parole giuste per nominare le cose, come violenza, creatività, mancanza, vergogna, paura, presunzione.

Le consapevolezze dell’autrice e protagonista si stratificano progressivamente nel suo memoir, tra racconti di vita propria e frammenti di biografie altrui, sentimenti e saperi, intarsi di narrativa e saggistica. Gli eventi, i piccoli urti quotidiani, i bivi e i tentennamenti sono raccontati attraverso la congiunzione di brevi archi narrativi che portano la fabula a non coincidere mai con l’intreccio. La linea narrativa si sorregge su una raccolta di ricordi personali che, di volta in volta, vengono introdotti da aneddoti sulle scrittrici e le artiste che l’autrice ha scelto come sorelle putative. Così, Antonia Pozzi ha una fotografia che le è particolarmente cara e Gaia Manzini ne evoca una che la ritrae bambina: entrambe somigliano a un ragazzo, entrambe sorridono felici. Sylvia Plath e Anne Sexton sono libere e pazze e si rifugiano nella poesia, “l’unico luogo dove non c’era follia, solo esattezza”; Gaia Manzini lancia arancini sugli invitati, durante una festa, la chiamano “matta”, ma lei in quel momento incede verso la propria libertà. Natalia Ginzburg è “grave e materna”, i suoi figli rappresentano per lei un auto-limite, il confine tra determinazione e tentazione; Gaia Manzini, nel momento in cui “nasce” come madre, compie un ampio passo, una falcata, nel suo percorso identitario: entrambe, però, comprendono che deve esistere un limite anche nel sentirsi visceralmente madri e che esso coincide con la vocazione.

Per raccontare le svolte della propria formazione, l’autrice ha bisogno di ripercorrere la strada tracciata da chi l’ha solcata prima di lei; ciascun tragitto è esplorato in compagnia di una “sorella” e descrive una parabola, un insegnamento che si tramanda di donna in donna. Così: “La creatività e le ambizioni femminili si consumano tra l'incompiuto e la rinuncia"; “In quegli anni intorno al mio corpo c’era violenza e io non lo sapevo”; “Vivere dentro una proiezione allontana dalla realtà, ma soprattutto allontana da sé stessi. Tutte le volte che ho aderito a un’immagine che volevo proiettare ho costruito un muro”.

La narratrice entra ed esce dalla narrazione, coincide con il personaggio principale – la scrittrice – ma si racconta ora come soggetto che prende parte agli eventi, ora come soggetto che gli eventi è capace di controllarli e che, spesso dichiarando prima i suoi intenti, dirige la scrittura laddove deve andare, laddove vuole che vada: come quando, interrompendo la narrazione che procede all’imperfetto, cambia tempo e al presente avverte che “È per questo che la mia amica, nei miei ricordi e in queste pagine, sarà sempre e solo Frida”; e ancora, poco dopo, afferma che “È di loro che voglio raccontare: amiche con cui ho iniziato a sognare, che ho amato tanto da voler essere come loro, con cui ho immaginato grandi imprese; amiche che mi hanno indicato una strada”. Allo stesso modo, la narratrice, raccontando una storia di complicità, evocando un’amicizia pura “come l’acqua di un ruscello”, d’improvviso sospetta di se stessa, esce fuori dalla narrazione e chiarisce che “Forse tra noi c’erano piccole gelosie, piccole invidie; sicuramente ho sognato di venire impagliata dallo zio cacciatore di Silvia, ma non lo ricordo. Voglio credere che certi affetti siano stati cristallini; ho bisogno di un serbatoio di purezza a cui attingere di tanto in tanto”. In altri momenti la narratrice interrompe il narrare e rinuncia all’onniscienza per amor del vero, decidendo di non ricorrere alla finzione neanche per colmare le dimenticanze: “Un venerdì sera ci sarebbe stata una festa. Non mi ricordo cosa si festeggiasse, ricordo però la vasca da bagno di G. riempita di ghiaccio, decine e decine di bottiglie di birra.” Attraversando lo stesso flusso, le stesse immagini, l’autrice salta da un evento a un pensiero e da un tempo all’altro: “Aveva nove anni Simone… Un giorno era entrata in classe una bambina più grande, i capelli bruni tagliati corti, il viso intelligente, una simpatia innata. Si chiama Élisabeth Lacoin, detta Zaza, e spicca sul conformismo che la circonda”.

L’autrice si mostra non convenzionale non solo laddove dirige la narrazione dentro e fuori la storia, tra la vita della scrittrice-personaggio e i pensieri della scrittrice-narratrice, ma anche nei diversi momenti in cui, evocando un aneddoto, se ne appropria al punto da decidere di non usare le virgolette per delimitare i dialoghi: ciò che è avvenuto ed è stato detto è indistinguibile da ciò che la narratrice pensa sia avvenuto e pensa sia stato detto. Così, per esempio, raccontando dell’incontro tra Virginia Woolf e Katherine Mansfield, Gaia Manzini scrive: “La loro amicizia era iniziata da una lettera di Katherine nel giugno 1917. Non vedeva l’ora di incontrarsi ancora una volta con Virginia. Amo pensare a te come a un’amica. Ti prego di considerare quanto sia raro trovare qualcuno con la stessa passione per la scrittura, qualcuno che desideri essere altrettanto autentico e scrupoloso. Capace di concederti la stessa libertà che solo ti può concedere una grande città. È una richiesta di intimità”. Ora parlano i personaggi tra loro, ora invece è la scrittrice che si rivolge al lettore. Le parole sono le stesse, ambivalenti, prestate e prese in prestito.

La via delle sorelle è un libro che nasce dal bisogno profondo di indagare l’amicizia e la femminilità, alla ricerca di un legame slegato dallo spazio, dal tempo e dal sangue, avulso da invidie e gelosie e riconoscibile in tutti gli incontri che sono stati testimoni o baluardi di una determinata metamorfosi. Gaia Manzini, cucendo e tagliando tra ricordi personali e evocazioni storiche, arriva a isolare la sua personale soluzione di sorellanza: “l’amicizia – quella vera – è letteratura”, scrive, e poi ribadisce che “La scrittura è una festa piena di invitati e dialoghi silenziosi di artiste, donne, sorelle, qualcuna ancora viva, qualcuna deceduta; famose, anonime, dimenticate, emergenti. Un luogo di condivisioni, e di amicizia”.