Carola Carulli
Tutto il bene, tutto il male
Milano, Salani, 2023
C’è un momento in Saba, un attimo di fragilità grandissima (e di inesorabile umanità) nel prendere coscienza di una dicotomia irrisolvibile, quella che separa la madre di gioia, la cara Gioseffa, inopportunamente vissuta radice, da quella di dovere, prima sconfitta di un rapporto naufragato a pancia ancora piena. Non poteva non venirci in mente, il triestino, nel leggere il testo (Tutto il bene, tutto il male, Salani) con cui Carola Carulli affronta una delle questioni più delicate, bugiarde e irrisolvibili del creato: quella familiare. È al bivio Sveva, giovane figura in formazione, tra chi ama – Alma, prossima ma non quanto si vorrebbe, zia dalle spoglie elettive materne – e chi pure dovrebbe sopra ogni cosa amare – una madre, Sara, vittima di scelte ed eventi, ed un padre così impegnato altrove da acquisire trasparenze. Si staglia sulle fragilità la storia raccontata da Carulli, su quelle gocce che scappano da finestrini e risultano inarrivabili condannando chi guarda a dispiaceri ed amarezze: la famiglia, così lontana dall’auspicato canone pubblicitario – grazie a dio o a chi per lui, alzi la mano chi ne ha una funzionale ed efficace – diventa momento primo di smarrimento, luogo dei vorrei e deserto dell’attesa: la figura maschile, claudicante nei romanzi ormai da decenni (e che i romanzi siano specchio e prima condizione di denuncia) risulta disgraziata, mortificante nel suo essere lontana: mentre salvava delle vite ne uccideva altre. Quella complementare e sempre per pubblica dichiarazione invocata alla salvezza (di ruolo padrematerno, parlava Argentina, ma sarebbe il caso che comparissero nelle menti meno vergini marie e più figure tridimensionali) si trova in condizioni d’emergenza: priva d’esempi, sprovvista di soluzioni (e qui vogliamo ringraziare l’autrice per l’ancoraggio alla realtà e il disfacimento della fiaba) eppure, per maledetto bisogno di stelle polari, riferimento per giovani satelliti: cerchiamo sempre il perdono della madre, la sua approvazione (…) per quanto sbagliata possa essere.
Eccoci dunque: il palcoscenico è saltato. Tu sei sopra a recitarvi il preparato di molti mesi, ma mamma è in distrazione e papà in incidente: per decisione o per sfortuna è la solitudine il tuo prezzo. C’è però un tentativo, una possibilità del cuore da assecondare, per una figlia malriuscita: la famiglia non può essere sempre quella di destinazione, giacché gli essere umani non sono pietanze da consegnare sulla porta. Si può cercare altro, appoggiarsi a un masso in attesa della bussola: Alma il suo nome, di palloncino che si schianta e cicatrici sulla fronte. Alma con le sue scritture, Alma così lontana dal tempo saccheggiato alla vecchiaia dalla madre, Alma così disordinata eppure così inglobante in questo concistoro di strani che tanto ci riempie il cuore perché tanta verità appresso si porta. Chi scrive qui non vuole parlare di famiglie scomponibili, di nidi pascoliani in perenne sfacimento, ma proporre una terza via: se la famiglia non è luogo di accoglimento, di cura dal timore, che allora non sia, che allora possa lasciare lo spazio a tutte quelle realtà altre che minori non sono. Sono così contento nel vedere distrutti – o più semplicemente illuminati – tanti postulati anticamente indiscutibili: penso a Lattanzi e alla questione della maternità in Cose che non si raccontano, allo sfilacciarsi della figura genitoriale ne L’invenzione della madre di Peano, ai dolori del rimescolamento di chi scivola e di chi prova a prendersene cura in Noi non abbiamo colpa di Zura-Puntaroni. La prospettiva dei figli, generati o increati, lo sguardo di chi, questi figli, è chiamato ad assemblarli e tenerli insieme in un processo nucleare va documentato nella sua veridicità, nelle sue componenti di dolore e di timore, nei suoi tentativi di convivenza tra vettori: è qui che sfila Carulli, è qui che la penna fa il pieno di onestà, giacché il pericolo, a fingersi una sagoma, è che i meccanismi interni saltino e che i protagonisti da un gioco apparentemente pacifico, quotidiano e di custodia si allontanino con in corpo le spore di un lungo veleno: avevo paura di prendere tutto quel dolore che mia madre aveva accumulato negli anni. Non era mai guarita dalle sue ferite, anche se quelle ferite non ero stata io a fargliele. In quel momento capii che finché non sarebbe guarita avrei continuato a sanguinare insieme a lei.
Eccoci, alla riflessione: si curino i rami, le foglie, il tronco, ma prima di tutto – imploriamo – si trattino le radici, giacché alberi snervati, tristi o avviliti non potranno avere forze di non spandere il morbo. È da un dolore che scrive Carulli, è da un risolversi che sogniamo noi.