Marco Missiroli
Avere tutto
Torino, Einaudi, 2022
“Il gioco è innegabile”, scriveva Johan Huizinga, “Si possono negare quasi tutte le astrazioni: la giustizia, la bellezza, la verità, la bontà, lo spirito, Dio. Si può negare la serietà. Ma non il gioco”. Il gioco è il luogo abitato da Sandro e Nando in Avere tutto, l’ultimo romanzo di Marco Missiroli: uno, il figlio, nello spazio ludico tenta di perdere tutto ciò che non ha ancora; l’altro, il padre, cerca invece di ritrovarvi quanto ha già pienamente avuto e perso. Per Sandro il gioco è l’azzardo, per Nando è una forma particolare di danza, quella nostalgica del “facciamo finta che tu eri ancora qui”, quella che evoca i balli del passato.
Sandro torna a Rimini per festeggiare il settantaduesimo compleanno del padre, Nando. Ha quarant’anni, lavora a Milano come consulente creativo freelance e, a causa della sua ludopatia, è pieno di debiti. Nella metropoli lascia un senso di fallimento diffuso e la ferita di un amore finito per colpa di quel vizio che, nonostante ogni volta gli costi caro, sempre ritorna. La Provincia che ritrova è quella della propria infanzia, ad accoglierlo gli amici di sempre, l’orto, il radicchio da taglio, i merli che razzolano la strada, l’intingolo con le melanzane e i fori di zucca, il vociare sui balconi e gli strilli dei burdèl nei cortili, la crosta rosolata del galletto, la scatola con i calamai, le tele, le tempere nella madia. Se si attraversano attentamente le strade, se si percorrono i vicoli con lo sguardo scrupoloso, se si aprono le stanze con circospezione, però, la Rimini ritrovata è cambiata e, con dolorosa evidenza, svela chiaramente ogni sua crepa: nessuna ombra di quella cassetta traboccante di pesche e di tutti quei pomodori, i muri sono stati privati dei dipinti che prima vi erano appesi, non si va più al bar Laura né al bagno numero 5, non v’è più nessuno che impasti la piada in cucina e non si sente più la Caterina canticchiare per casa.
La Rimini di Missiroli possiede anima e ricordi, offre itinerari affettivi, serba memoria e concede la lentezza che è necessaria a un sarto determinato a ricucire. È il limite che definisce e la soglia che chiede di essere varcata, il luogo che confina fallimenti e ricordi e la frontiera delle speranze. Rimini è il passato, l’attesa, l’ultimo inciampo, l’ultimo corpo da seppellire, il valico della montagna più alta, il passaggio dall’età dei padri all’età dei figli.
Nella città-soglia ritrovata, Sandro raggiunge un padre malato e, rimandando il suo rientro a Milano, sceglie di accompagnarlo nel breve percorso che lo separa dalla fine. È un cammino frastagliato, costellato da acuminati non detti, da dubbi che solo ora chiedono di essere chiariti, da nodi che possono ancora essere sciolti. I due percorsi paralleli, di ricerca e di addio, sono popolati da interrogativi di diversa entità, ma che condividono la stessa urgenza di trovare risposta: dove va Nando, ogni notte, sparendo con la sua Renault 5? Dove vorresti essere con un milione di euro in più e diversi anni in meno? Perché, quella volta, la mamma piangeva? E come mai, mentre la stavano per seppellire, lui, Nando, era sparito?
Il lutto che si prepara nell’arco di tutto il romanzo si dispiega sullo scheletro di un altro lutto, di poco precedente: Caterina, madre di Sandro e moglie di Nando, è la figura allegra e soave che ha abitato la casa che ora appare sempre più desolata; le sue mani hanno impastato, dipinto, innaffiato, lavato e stirato, la sua voce ha cantato, riso e salutato, le sue suole hanno strascicato, ma soprattutto le sue gambe hanno ballato. Una presenza-assenza che sembra dettare il ritmo degli accadimenti e della narrazione e, con la sua vivace consistenza, continua a esistere anche in un tempo dove mai è esistita.
“La Baia Imperiale, su a Gabicce. Il Gran Galà con lei. Lui che inventa il salto-Scirea del Pasadèl. Cerco le foto e non le trovo. Gli chiedo dove le ha messe. Non ci sono mai state, Sandrin. Le ho viste. Mai state: era la mamma a raccontare del Galà così a stufo che alla fine ci venivano le fotografie in testa. Torno nello studio, frugo tra gli album, niente.”
È la scrittura chirurgica di Missiroli che, con uno stile segmentato, periodi brevi e asciutti, accosta la narrazione al passo e al fiato dei personaggi che la animano. La stessa concitazione appare anche nei dialoghi, botta e risposta compressi e incalzanti che consentono al lettore di entrare pienamente nel serrato ritmo dell’implicito familiare, tra chi rimprovera e chi para il colpo, tra chi dice troppo e chi non consente che si dica, tra chi nomina e chi smonta, tra chi induce al conflitto e chi preferisce negarlo attraverso una mancata verbalizzazione. “ – Oddio. – Ti pare. – Sandro, fa’ il serio. – Sono serio. – Te li do io se chiudi con questa roba. Dimmi quanti soldi hai da dare. – Ma quali soldi. – Dimmi la verità. – Basta. – Te li do io. – Basta ho detto! – Basta tu! – e anche lei aveva pianto. – Ho un figlio drogato.”
Insieme alla scelta di una paratassi nervosa, anche l’uso del dialetto marca i momenti di maggiore familiarità e affettività della narrazione, impinguando, a macchia di leopardo, un registro linguistico elevato e sobrio. “ – No cosa? – A n ò vòja. – E di cos’è che hai voglia? – A n ò vòja.” È uno dei molti dialoghi dove, attraverso la scelta del lessico, lo scrittore potenzia la rappresentazione di intimi momenti familiari “ – Bèla ròba, - e sparecchia”, intarsi presenti all’interno di una narrazione elegante e poetica: “Ma io avevo le case sconosciute e i loro tavoli. Entravo e cercavo la rassicurazione in un mobile, in un ninnolo, negli scorci delle finestre. Un bisogno che chiamiamo lo svio. Come se dovessimo sviare la solennità del momento, distraendo la malasorte.”
Come lo svio, molti sono i termini che compongono un terzo registro narrativo, quello specialistico, riservato al gioco d’azzardo. Così le slot, il blackjack elettronico, il trotter, il raddoppio, la puntata, un tavolo espresso, un bluff sporco, il tris servito, una dèbâcle, le fiches, i camaleonti, la capacità di lasciare con rete, l’ultima mano.
Missiroli compone e scompone, stratificando il linguaggio su più livelli, distendendo o incalzando il ritmo in ragione del momento psicologico vissuto, in quel momento della narrazione, dal personaggio. Non è l’intreccio a trainare il lettore, ma Sandro e Nando in rapporto tra loro e nei rispettivi percorsi introspettivi. Un romanzo, Avere tutto, che osserva due vite, quelle di un figlio e di un padre, per arrivare a rimuovere il superfluo. Restano solo “le due o tre cose per cui veniamo al mondo” e restano persino quando vengono irrimediabilmente a mancare, perché “avere tutto” significa, per prima cosa, accogliere la potenza rinnovatrice della memoria.