Un’impresa mai realizzata sarà on line, liberamente accessibile, nel 2025, ricorrenza del 650° anniversario della morte di Giovanni Boccaccio (1313-1375), una delle “Tre Corone” della letteratura e della lingua italiana; il prosatore che fece da modello plurisecolare per la lingua letteraria narrativa successiva e insieme il tenace, appassionato e intelligente studioso e promotore dell’opera di Dante Alighieri, nonché amico di Francesco Petrarca, suo coevo, col quale intrattenne una corrispondenza epistolare. L’impresa consiste in un vocabolario digitale, che lemmatizza sistematicamente le parole usate da Boccaccio nelle sue opere, a partire dal capolavoro, il Decameron, che costituirà, col suo lessico, il primo ingente tesoro reso disponibile alla libera fruizione da parte di studiosi, ricercatori, studenti, amanti della letteratura e della lingua italiana. Il vocabolario si chiamerà VocaBO. Il progetto è stato avviato verso la fine del 2022 dall’Ente Nazionale Giovanni Boccaccio insieme all’Università per Stranieri di Siena, in collaborazione con l’Istituto di Linguistica Computazionale del CNR – ILC “Antonio Zampolli” di Pisa, capofila nelle digital humanities, e l’Accademia della Crusca. Direttrice dell’opera è Giovanna Frosini, presidente dell’Ente nazionale Giovanni Boccaccio, coadiuvata da studiosi. In due articoli Federico Pani spiega la genesi, gli obiettivi e le caratteristiche del progetto, raccogliendo anche le testimonianze di Veronica Ricotta, caporedattrice del VocaBO, e di Claudia Palmieri ed Ester Baldi, che fanno parte del gruppo di lavoro lessicografico. E torna a ricordare a tutti noi l’importanza cruciale di Boccaccio nella civiltà letteraria italiana, europea e mondiale, dal Medioevo a oggi.
A determinare la rilevanza della donna nel melodramma concorrono molti fattori, assai diversi tra loro: essi riguardano, oltre alla componente vocale che assegna un posto di spicco al registro di soprano, il ruolo tanto importante e variato delle figure femminili nelle fonti letterarie e teatrali da cui i libretti quasi sempre derivano, ma soprattutto l’intensità delle passioni che da sempre alla donna, nella realtà e nelle arti, è stata riconosciuta. Non si contano, per tutta la storia del melodramma, le donne protagoniste di opere eponime: dalle regine tormentate dal conflitto tra amore e potere, alle donne aristocratiche in vario modo vittime del potere, alle mantenute il cui desiderato riscatto sociale attraverso l’amore finisce in tragedia, la varietà delle figure nella varietà dei generi e delle epoche che l’opera ci presenta è davvero infinita. E se nel tempo, a partire dalle origini del melodramma, fino ai giorni nostri, il mutare dei temi, delle mode e del legame con la realtà e con la società ne ha determinato la straordinaria multiformità, la figura femminile è sempre rimasta elemento centrale e imprescindibile nell’opera (dall’articolo di Ilaria Bonomi). Prende il via una serie dedicata alla presenza della parola femminile nel melodramma italiano, curata da Maria Antonietta Epifani ed Edoardo Buroni, che scrivono, insieme con Ilaria Bonomi, i primi contributi, dedicati alla Semiramide di Gioachino Rossini, opera che debuttò alla Fenice il 3 febbraio 1823 (duecento anni fa) con Isabella Colbran nel ruolo della protagonista.
Una sarcastica espressione cinese recita: «Possa tu vivere in tempi interessanti». E "interessanti" sono i tempi odierni, in effetti: calamità e insicurezze non sono nuove alla storia umana, ma è meno consueto, e più tipico di passaggi epocali, che si verifichino il cedimento e la mancanza di valori, visioni, paradigmi comuni e adatti a fronteggiare i problemi che sentiamo incombere su di noi. Anche la letteratura si dibatte in questa difficoltà, tentando, dopo l’esperimento del postmoderno, di percorrere strade che consentano di comprendere e restituire idee, significati, direzioni di intervento. Questo fervore lo constatiamo nella letteratura generalista, dove sempre più spesso storie apparentemente "normali" scivolano (o deflagrano) in suggestioni fantastiche e immaginarie. E parallelamente lo troviamo nelle letterature fantastiche, che raccontano l'esistente con strumenti preclusi alle storie realiste, e che stanno generando nuove forme narrative per argomentare analisi e ricognizioni del mondo. Questo Speciale, curato da Giulia Abbate, è incentrato proprio su un nuovo tipo di fantascienza, il solarpunk, che prende di petto inquietudini e traumi contemporanei, rispondendo con un'attitudine poco presente negli ultimi decenni: la speranza. Ma quale speranza? La speranza sembra fuori dal mondo, e in effetti lo è, fuori da questo mondo. Lo scopo è di costruirne un altro migliore e più giusto per tutti e tutte, esseri umani e non umani, in un ecosistema in cui nuove relazioni e diversi comportamenti antropici rigenerino la vita offesa, o per lo meno riparino i danni fatti. Il solarpunk non si ferma alla speranza, piuttosto se ne nutre, e la innesta su una battaglia all'esistente. Prima che come letteratura, il solarpunk è nato nelle pratiche: riduzione dei consumi tramite riuso, riciclo, riparazione; autoproduzione; (ri)costruzione di convivialità, comunità collaborative, mutuo aiuto; sabotaggio dei meccanismi del potere con gesti creativi (e qui torna buono il beffardo augurio cinese, che prosegue: «… e possa l'Imperatore accorgersi di te!»); e molto altro. Così, nelle storie sono intrecciati spericolati voli immaginativi a indicazioni concrete su cosa fare, qui e ora. Allo scopo, il solarpunk raccoglie sollecitazioni dal femminismo, dall'ecologismo di varie matrici, dall'antispecismo, dall’anarchismo e dal socialismo utopico. Gli articoli qui ospitati prendono in esame questa letteratura nuova e bizzarra che, nella sua produzione italiana, di fiction e contemporanea (numerosi i titoli usciti negli ultimi anni, anche in quello corrente), non prescinde mai dalle tradizioni che va a sollecitare e dalle problematiche di cui ipotizza il superamento. Catastrofe, sovversione, utopia, tecnologia, scienza e scienziate, corpo, ecologie, (senza) mappe: queste la parole-chiave dello Speciale solarpunk. Partiamo allora da una chiave massimalista, e con Marco Malvestio scopriamo, dopo una efficace definizione del campo di indagine generale, come il solarpunk si pone di fronte al tema della catastrofe, da sempre affrontato nella fantascienza e oggi adottato come prevalente nella produzione culturale e nel discorso pubblico. Elena Ronconi ci mostra come il filone dell'utopia, sempre presente in controluce nella storia delle idee, riemerga oggi grazie al solarpunk per offrirci nuovi strumenti di lettura, esistenza, resistenza. Nicoletta Vallorani tratta la questione tecnologica, osservando come il nuovo immaginario non si pone necessariamente in contraddizione con modi e ipotesi tecnologiche già presenti. Giuliana Misserville chiama in causa il complicato intreccio di scienza e tecnologia, tra le ultimissime uscite letterarie e cinematografiche, con una particolare attenzione alla figura della scienziata. E una riflessione femminista sul corpo e la generazione è il focus di Nadia Tarantini, a partire da racconti solarpunk che schiudono sentieri tanto fantasmagorici, quanto radicati nell'oggi. Il contributo di Giulia Abbate ragiona su come il paradigma ecologico della Modernità occidentale coesista accanto ad altri possibili, in una letteratura che pone l'ecologismo tra i suoi temi più importanti. Infine, Daniele Barbieri confronta novità e tradizione letteraria per rintracciare semi di speranza diffusi oltre il solarpunk, forse un po' anche grazie a esso. "Senza mappe, bisogna comunque muoversi", dichiara Barbieri nel titolo, e ciò può essere un'esortazione, oltre che un mero dato di fatto: non dimentichiamo che le mappe sono anche un particolare tipo di racconto, e che l'immaginazione, soprattutto, genera nuovi territori. Buon viaggio.
Dante e Virgilio, sbucati sulla spiaggia del Purgatorio, vedono brillare quattro stelle non viste mai fuor ch’a la prima gente (Pg I, vv.23-24), la cui bellezza li emoziona e commuove. Queste stelle sono le quattro virtù cardinali: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza, alle quali alcuni teologi cattolici hanno aggiunto una quinta, l’umiltà, che le completa. La teologia cristiana le ritiene propedeutiche alle tre virtù teologali, fede, speranza e carità, che portano l’anima umana alle soglie del divino. Le virtù erano già oggetto di riflessione dei pensatori antichi: in Omero l’aretè (virtù) è forza e qualità militare, come pure per i Romani, la virtus indicava la dote propria del vir (uomo) che, attraverso le proprie azioni, rivelava il suo valore. Nella dottrina cristiana, le Virtù umane principali rappresentano i pilastri e sono bastevoli per una vita consacrata al bene, ma non sono sufficienti per la conquista della felicità ultraterrena e per l’eterna salvezza. A queste furono affiancate le virtù teologali, che Dio instilla nell’anima umana. Quello delle virtù è un tema che ha attraversato la storia del pensiero dalla letteratura alle scienze umane, dalla musica all’arte. Oggi, è come se fossero state messe da parte, riposte in un baule in cantina, perché ritenute un’eredità dell’educazione religiosa ricevuta da piccoli da scrollarsi di dosso e in cui non ci si riconosce più. Ragionare delle e sulle virtù, tra letteratura, lingua e musica, potrebbe diventare un argomentare interessante, perché le virtù “abitano” le radici delle nostre tradizioni e possono essere voci per l’oggi e per il domani. Si apre, così, il ciclo ispirato alle Virtù che segue quello conclusosi sui sette Vizi capitali (https://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/articoli/parole/Gola.html). (testo di Maria Antonietta Epifani). Immagine: Allegoria delle virtù di Raffaello Sanzio (1511), Stanza della Segnatura, Città del Vaticano
Perché le lettere ʺcʺ e ʺgʺ hanno una pronuncia dolce davanti a ʺiʺ ed ʺeʺ ma dura davanti ad ʺaʺ, ʺoʺ ed ʺuʺ?
Camorra, mafia, ‘ndrangheta, Sacra Corona Unita: quattro studiosi d’eccezione ci aiutano a penetrare nelle storiche organizzazioni criminali italiane scavando per prima cosa nelle parole-etichette che li definiscono (una per ogni “mafia”), in questo Speciale curato da Annibale Gagliani. Speciale che cade in un anno speciale (quello della cattura del boss Messina Denaro) e in un momento speciale (le polemiche sull’impegno antimafia fiorite nei giorni dell’anniversario della strage di via D’Amelio). E speciale è l’autore che qui si cimenta nell’analisi genetico-linguistica e concettuale di codici, nomenclature e modi di dire della mafia di Cosa Nostra (da “pizzo” a “famiglia”, da “mettersi a posto” a “è la stessa cosa”): Maurizio De Lucia, Procuratore Capo della Procura di Palermo dal 2022, che ha coordinato le indagini e la cattura di Matteo Messina Denaro, avvenuta il 16 gennaio 2023. Dei camorristi, che a metà dell’Ottocento «controllavano le carceri e le isole di confino», e della camorra, madre di tutte le mafie, come scrive Isaia Sales, si hanno notizie già a partire dal 1820, mentre la parola compare per la prima volta in un atto ufficiale nel 1745. Alla radice, possibili etimi che fanno risuonare nei viottoli napoletani rumori, strepiti di lite e di rissa, prove di spavalderia. Per capire qualcosa della ‘ndrangheta, spiega Enzo Ciconte, può essere utile riandare ai miti fondativi e volare nello spazio e nel tempo, atterrando nel 1412 a Toledo, dove viene eretta la consorteria chiamata Garduna, della quale son parte gli onorabili Osso, Mastrosso e Carcagnosso, che si trasferiscono poi nell’isola di Favignana, prendendo strade diverse per fondare l’uno la mafia a Palermo, l’altro la ‘ndrangheta a Reggio Calabria, l’ultimo la camorra a Napoli. Una spartizione di aree che mai, nota Ciconte, è stata violata né ha generato conflitti tra le tre organizzazioni. Diversa dalle altre è la “quarta mafia”, scrive Andrea Apollonio: si tratta della mafia di Puglia, che raccoglie, ma soltanto per un arco di tempo di trent’anni, le diverse mafie pugliesi locali. La Sacra Corona Unita è «anomala», perché i suoi accoliti sono stati sempre stati incapaci di mantenere il segreto sull’organizzazione, a cominciare dal suo fondatore, l’ergastolano Pino Rogoli. Una mafia che vuole competere e farsi conoscere, a cospetto delle tre mafie storiche e saldamente strutturate, e che di originale ha la forma (e la parola) dell’“evocazione”, un uso del simbolico non per cementare l’organizzazione ma per operare il crimine tramite un’ellittica intimidazione, “evocando” con la parola, presso la futura vittima di estorsione, i propri “titoli”, il proprio curriculum criminale. Ad apertura dello Speciale, il curatore Annibale Gagliani, analizzando con cura, in diacronia, le fonti dei linguaggi e della lingua mafiosa, si chiede se «[i] tempi sono maturi per creare un dizionario della lingua delle quattro mafie d’Italia». Dopo aver letto questo Speciale, si ha la sensazione che la missione non sia impossibile.
Perché le forme dell’aggettivo dimostrativo 'quello' ricordano quelle dell’articolo determinativo (i libri -> quei libri; gli stivali -> quegli stivali)?
C’è sempre da domandarsi il perché vale la pena celebrare un anniversario che può trasformarsi tanto in un momento di riflessione e bilancio quanto di festa. Spesso gli uni a scapito dell’altra, con il pericolo sempre vicino di clamorose scivolate. Il doppio anniversario, racchiuso in questo 2023 nel centenario della nascita e nei 30 anni della scomparsa Giovanni Testori, consegna alla sua opera, una delle più poliedriche del Novecento letterario italiano e europeo, proprio queste due caratteristiche: approfondimento e divertimento. Endiadi rimata che sembra essere – oggi – la direttrice su è stato istradato Testori, attraverso l’azione sia editoriale (tra le nuove uscite va segnalata l’impresa del Meridiano curato e coordinato da Giovanni Agosti, uno degli artefici della “renaissance” testoriana, insieme a Casa Testori e a pochissimi altri) sia teatrale, con i tanti allestimenti che hanno movimentato i cartelloni delle stagioni teatrali di questo periodo. Dopo anni bui. Nondimeno con iniziative che ne esaltano le molteplici vocazioni artistiche, critiche, giornalistiche e didattiche. Pertanto, in un composito palinsesto che non ha esaurito ancora le celebrazioni (vale la pena consultare il palinsesto del centenario sul sito dell’Associazione Testori), con questo Speciale curato da Fabio Francione si è inteso guardare a Testori con le lenti strabiche di alcuni critici, scrittori, attori e architetti, incrociando alcune suggestioni ricavate da chi scrive in una quasi ventennale frequentazione con la narrativa, la critica, l’arte e il teatro dello scrittore lombardo: registrato prima in un piccolo libretto qualche anno fa e ora implementato da un personale “tuttotestori” degli ultimi sette-otto anni. Un “Testori a tutto tondo” che si specchia nella musica (il rapporto con Ferrè e il cantautorato francese indagato da Stefano Bruzzese) o il rapporto con il suo teatro visto dal di dentro come raccontano Federica Fracassi e Roberto Trifirò. Sul versante giornalistico e polemico, Alessandro Gnocchi aggiunge ulteriori riflessioni scrivendo uno spin-off del suo libro “Testori corsaro”. Ricca la suggestione di un Testori “urbanista” nella conversazione con Alessandro Colombo, architetto, designer, docente universitario, due volte compasso d’oro. Interessante è lo scritto di Giuseppe Frangi sulla relazione tra Testori e Comunione e Liberazione. E a Frangi e a Casa Testori va tutta la gratitudine possibile per aver concesso la pubblicazione dei due testi alfieriani di Testori e le tante foto, appartenenti alla mostra “Fotoromanzo Testori”, che corredano lo speciale. Un ringraziamento è rivolto a Velasco Vitali per aver dato le riproduzioni sia dei suoi due ritratti di Testori sia di quello dipinto dal padre Giancarlo. Infine, strappato alla memoria è il ritrovamento della sbobinatura originale della conversazione con Gianfranco De Bosio a proposito di uno dei primi testi teatrali di Testori, “Le Lombarde”. [testo di Fabio Francione. Foto di copertina: Giancarlo Vitali (1929-2018), Ritratto di Testori II, 1986 (150x120cm). Per gentile concessione dell'Associazione ArchiViVitali].
Corrono i centocinquant’anni dalla morte di Alessandro Manzoni (1785 – 1873), secondo padre della lingua italiana (padre cioè di quella moderna), in virtù, oltre che del genio, di un lavoro durato una vita sui Promessi sposi, un’“opera mondo”, come scrive Fabio Magro, citando Umberto Eco, all’interno di questo Speciale curato da Debora de Fazio e Maria Antonietta Epifani. Sono infinite le direzioni nelle quali “corrono” questi centocinquant’anni, se guardiamo alla «pluralità di approcci che essa ha permesso nel tempo. Gli studi che la riguardano infatti occupano ambiti diversissimi: storico, politico, giuridico, economico, oltre che naturalmente culturale, letterario e linguistico», nota sempre Magro. Le curatrici hanno scelto quindi di indicare alcune delle strade possibili dentro, accanto e intorno al «classico», per definizione segnato da un orizzonte mobile, attente a sollecitare, nel reticolo di relazioni cronologiche e interdisciplinari, la ripullulante contemporaneità degli esiti e delle letture. Debora de Fazio, restando nell’àmbito della lingua, misura l’incisività del modello manzoniano ragionando sulle locuzioni, i modi di dire coonestati dal romanzo (da “[fare come] i capponi di Renzo” a “disposto sempre all’ubbidienza”), segnalandone l’affioramento perfino nel «terreno sterminato dei meme di internet». Donatella Nisi parte dal realismo delle “illustrazioni d’autore” di Francesco Gonin, pioniere della litografia in Italia, fortemente voluto da Manzoni, per soffermarsi sulle celebri letture di tre artisti italiani contemporanei, Giorgio De Chirico, Renato Guttuso, Ernesto Treccani, improntate tutte a un diversamente declinato antirealismo. Angelo Maria Monaco coglie nell’occhio del Manzoni un elemento strutturante, «[l]’esercizio ecfrastico», che innerva la narrazione: «Una collezione di paesaggi, di ritratti, di nature morte e qualche allegoria, in esposizione piuttosto simmetrica che didascalica, volta a suscitare in colui che osserva i più disparati stati d’animo, con studiato contrapposto di luci, con chiaro gusto per l’antinomia» (a cominciare dall’incipit del romanzo). Maria Antonietta Epifani sperimenta un altro modo di guardare all’arte del capolavoro, misurando la qualità dei tanti adattamenti e rifacimenti testuali e musicali, dal melodramma al musical parodico, dall’Ottocento («la prima riduzione musicale de I Promessi sposi avvenne il 3 ottobre 1828 a Firenze all’interno dei festeggiamenti in onore del Granduca Pietro Leopoldo») fino ai giorni nostri (I promessi sposi in dieci minuti degli Oblivion), passando attraverso la rilettura più grande, quella di Ponchielli-Ghislanzoni-Praga. Martina Tarzia, infine, indaga l’intento morale dell’autore, chiedendosi quale sentimento della giustizia governi il romanzo. Tarzia guarda al Leonardo Sciascia della “Introduzione alla Storia della Colonna Infame”, il quale «evidenzia come il vero compito dello storico (da compiersi con onestà intellettuale e libero dai condizionamenti storici) sia quello di raccontare con metodo scientifico sui dati documentati, senza deformare la verità dei fatti o elaborare menzogne che nulla hanno a che vedere con la realtà; un compito che il Manzoni ha egregiamente svolto sapendolo coniugare con la sua innata inclinazione a sondare gli abissi dell’animo umano».
Perché esiste una serie di pronomi tonici e una di pronomi atoni?