Apparso nel 2018, il volumetto di Adelphi dal titolo Odi è una scelta antologica dei quattro volumi che compongono i Carmina di Orazio. Così dei 103 testi originari ne ritroviamo soltanto 27, scelti e tradotti da Guido Ceronetti, poeta, drammaturgo, giornalista, soprattutto elzevirista, pittore e anche marionettista – la qual cosa non sembri una stravaganza se Valerio Magrelli è partito proprio da un suo spettacolo di pupi nel rievocarlo all’indomani della morte (avvenuta il 13 settembre 2018).

Il volume di Ceronetti è parte di un progetto mai portato a termine di traduzione dell’intero opus del grande venosino. Un dato che non deve sorprendere, essendo la produzione del poeta torinese non solo eteroclita, ma anche frammentaria e costitutivamente sparsa in una scrittura che procede per lampi tanto abbaglianti quanto insulari. Lui, come altri geniali reazionari del Novecento, a cominciare dal più grande di tutti, Fernando Pessoa, ha fatto della singola scheggia del macrotesto cui ha dato vita un pezzo inseparabile dagli altri, ma molto spesso incompiuto e programmaticamente riconducibile a quella che Eco definiva «opera aperta». Come lo sono le sue traduzioni: tanto enciclopediche, quanto eclettiche e forse proprio per questo raccolte solo a posteriori in Come un talismano – libro delle traduzioni: dal greco al latino, dall’ebraico all’arabo, dallo spagnolo al tedesco, ecc.

Alla luce dell’induismo

Eppure, il rapporto con Orazio è di lunga data. Risale addirittura all’adolescenza, allorché Ceronetti – come racconta nella prefazione – credeva di attualizzarlo «nell’imitazione della lingua ungarettiana dell’Allegria. Fu un capitombolo senza allegria: l’illeggibilità di quei tentativi liceali è infatti totale».

Ma chi è stato Orazio per lui? Non certo il poeta delle Satire secondo la definizione dantesca, né tanto meno il cortigiano inviso all’amato Leopardi (dalla cui condanna ci tiene però a dissociarsi). In proposito Ceronetti avanza una tesi molto originale, se non bislacca: ricordando i trascorsi repubblicani del poeta latino, il quale aveva fatto parte addirittura dello «Stato Maggiore di Bruto», afferma: «Credo che Orazio scrivesse il Carme bestemmiando», manco fossimo ai tempi di Stalin e del malcapitato Shostakovich e il Carme saecolare fosse stato composto obtorto collo per ingraziarsi i favori del tiranno (quale Augusto non fu mai) e anzi presagendo l’uso che ne avrebbe fatto il regime fascista (venti secoli dopo!), trasformandolo in un inno del Ventennio con la «musica stregante di Giacomo Puccini».

L’Orazio che Ceronetti ama è un altro. È quello in cui rivive e diviene poesia «non il mito, che è eccesso di vita, e neppure la sua ironica resurrezione letteraria», bensì quello là dove risplende «la diafanità dell’Inesistente dell’Immobile in cui sono rapprese le umbratili storie delle origini, una visione del Nulla protratta all’infinito». Quella di Orazio «è un’offerta di amore ascetico, l’indicazione di una via nel deserto per cui può passare la redenzione».

Leggere e tradurre la sua poesia significa insomma compiere «un viaggio ascetico verso il puro non-essere, lo spogliarsi di ogni illusione e farsi jīvanmukta in compagnia di Orazio».

Ecco la chiave di volta dell’approccio di Ceronetti ai Carmina. Il suo Orazio si spiega alla luce dell’induismo, dal quale riprende il lemma sanscrito di jīvanmukta, cioè il «jīva liberato», l’essere che ama la vita, pur non rievocando le gioie passate, né inquietandosi per le incognite dell’avvenire, ma radicandosi nell’unica dimensione che c’è: il presente.

Godi oggi la luce

È la filosofia del carpe diem, la celebre locuzione del I, 11, che in genere traduciamo con «cogli l’attimo», reminiscenza di un verso del Faust di Goethe, il «verweile doch, du bist so schön» (in italiano: «fermati attimo, sei così bello»). Ceronetti tuttavia preferisce tradurre uno dei motti oraziani per antonomasia in modo del tutto indipendente: «Noi parliamo e la rapinosa vita / è già fuggita. / Godi oggi la luce, la futura / credimi, è niente!» Dunque, non resta traccia del tradizionale «cogli l’attimo», né tanto della variante più vicina all’originale «cogli il giorno».

La via mediana è d’oro

Stessa sorte tocca a un altro sintagma di Orazio divenuto proverbiale: l’«aurea mediocritas» del II, 10, ovvero l’aurea moderazione, la dorata via di mezzo, o più semplicemente: il giusto mezzo. Giova citare la traduzione di Ceronetti, ancora una volta distante dalla lettera: «La via mediana è d’oro / chi ne è devoto le miserie schiva / di un tetto malandato, la bramosia / di quei palazzi che tutti bramano ignora».

Il senso è sempre lo stesso: a Ceronetti, che pur disporrebbe di affilati strumenti filologici – a differenza di altri poeti, come Quasimodo con i lirici greci o Pasolini con l’Orestiade di Eschilo – non interessa produrre l’ennesima versione dei Carmina. Lui ha praticato così tanto spesso la traduzione di testi poetici per sapere che la traduzione letteraria è sempre del tutto diversa da una traduzione giurata – chi lo ignora farebbe meglio a dedicarsi alla commendevole sarchiatura dei campi – e che un testo poetico tradotto è un testo altro, al quale un poeta si dedica per sperimentare la propria poetica o, al massimo, per condividere col lettore la sua interpretazione del poeta tradotto.

Con queste premesse è agevole immaginare che l’Orazio volgarizzato da Ceronetti sia il suo Orazio, là dove le Odi del poeta latino si trasformano in versi di Ceronetti.

Con Priebke

Sta in questo soprattutto l’originalità, o meglio: l’unicità, del suo libro di traduzioni dei Carmina. La poesia di Orazio è restituita in tutta la sua grandezza. Esemplare la traduzione per rigore filologico – sia pure dissimulato – e inventiva poetica. Questo è il Ceronetti da ricordare e ammirare. Meglio invece dimenticare il polemista che, dopo aver litigato – a volte, a ragione – con tutto il Novecento in nome dell’antimodernità, ha poi accompagnato la nascita del nuovo millennio con dichiarazioni francamente ributtanti in materia di emigrazione, Islam, donne, gay, ecc. E taccio della confessione assolutoria di Priebke, uno dei boia delle Fosse Ardeatine, da lui registrata con vergognosa condiscendenza.

Indicazioni bibliografiche minime

Per altre edizioni in italiano dei Carmina si veda:

Quinto Orazio Flacco, Odi ed epodi, a cura di Enzo Mandruzzato, Milano, BUR Rizzoli, 1986

Quinto Orazio Flacco, Opere. Testo latino a fronte, a cura di Tito Colaramino e Domenico Bo, Torino, UTET, 2015

Un buon sito di versioni con testo originale sito consultabile on-line è:

http://www.poesialatina.it

Tutte le citazioni di Ceronetti sono riprese da: Guido Ceronetti, Odi, Milano, Adelphi, 2018

Le altre sue traduzioni si trovano in: Guido Ceronetti, Come un talismano – libro delle traduzioni, Milano, Adelphi, 1986

Il necrologio di Magrelli si trova in rete, cliccando qui

Sempre post mortem dobbiamo a Luigi Mascheroni una silloge di dichiarazioni dell’ultimo Ceronetti pubblicata dal quotidiano «Il giornale».

Immagine: D.N.R. [Public domain]