Dopo aver dato la maturità da privatista con un anno d’anticipo, Ezio Comparoni (1920-1952), meglio noto con lo pseudonimo Silvio D’Arzo, si iscrive alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna nell’a.a. 1937/1938, per poi laurearsi nel 1942 con una tesi in glottologia (relatore il prof. Gino Bottiglioni) dal titolo Aggiunte e correzioni all’A.I.S. per il centro 444 (Comparoni 1990). Il suo percorso di studi universitario è documentato dal libretto conservato presso l’Archivio storico dell’Università di Bologna, che testimonia lo studio in ambito letterario e artistico, con Carlo Calcaterra e Roberto Longhi, del Settecento, secolo in cui D’Arzo ambienta All’insegna del Buon Corsiero e i libri per ragazzi Gec dell’Avventura e Penny Wirton e sua madre; i due corsi, di Letteratura italiana e di Storia dell’arte medievale e moderna, rispettivamente del 1937/1938 e 1939/1940, affrontano infatti gli scrittori politici del Settecento, la storiografia illuministica in Italia e Ludovico Muratori, e poi Caravaggio, i caravaggisti e i ritorni caravaggeschi europei (con lo spagnolo Francisco de Zurbarán, nome che D’Arzo riprenderà per il personaggio Androgeo Zurbaran per il progetto omonimo mai completato). Il libretto suggerisce inoltre che l’onomastica “slava” del racconto L’osteria (composto nel 1942, uscito postumo, per quanto annunciato in uscita per Vallecchi nel gennaio 1946 sul mensile informativo dell’editore, “Le carte parlanti”) nasca seguendo il corso di Filologia slava con Arturo Cronia, mentre è probabile che nel corso di Filosofia teoretica, tenuto nell’a.a. 1937/1938 dal prof. Giuseppe Saitta, allievo di Giovanni Gentile, trovi origine concettuale o almeno il vocabolario specialistico un intervento saggistico rimasto finora ignoto alle bibliografie darziane, riemerso solo grazie a riferimenti trovati nei nuovi epistolari acquisiti dalla Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia nel “Fondo D’Arzo – Macchioni Jodi” (vedi in questo Speciale l’intervento di Alberto Ferraboschi): Saggio sulle rivoluzioni.

Il primo e unico saggio a carattere filosofico e politico

L’articolo appare a firma Silvio D’Arzo nel 1939 nella sezione “Arengo”, che ospita le «(Collaborazione dei lettori)», come recita il sottotitolo della rubrica, di “Gerarchia. Rassegna mensile della rivoluzione fascista” (settembre 1939-XVII, anno XIX n. 9, pp. 644-645), la rivista politica per eccellenza del regime, fondata da Mussolini e uscita dal gennaio 1922 al luglio 1943. Il testo quindi sarebbe il primo pubblicato con il celebre pseudonimo (la sua prima attestazione è invece in una lettera di Vallecchi del 22 maggio 1939), dato che l’autore aveva usato Raffaele Comparoni per l’esordio La valanga del 1934, la silloge Luci e penombre e i racconti di Maschere del 1935. Inoltre, è il primo intervento saggistico noto di D’Arzo, e l’unico a carattere filosofico e politico. La sua attività saggistica, infatti, sarà intensa nel secondo dopoguerra, ma di ambito letterario, pur con considerazioni sulla società coeva.

Di seguito, diamo trascrizione integrale di Saggio sulle rivoluzioni, di cui, allo stato attuale degli studi, non si hanno altri testimoni:

«Sono le rivoluzioni che fanno la storia.

Bisogna star molto attenti perciò, e profondamente studiare ogni movimento, nelle sue origini, nel suo sviluppo, nel suo fine e nei suoi riflessi immediati e probabili per classificarlo al suo posto e non dargli entità che non gli compete, né attribuirgli portate da cui esorbita.

Una riforma, anche la più vasta e complessa immaginabile, non può mai, in nessun caso, essere una rivoluzione: ci vuole qualche cosa di più profondo, e, in un certo senso, di più intimo, per trasformare questo superficiale movimento politico, in quella vera e propria manifestazione di un popolo che è la rivoluzione: la stessa cosa può dirsi sul «sovvertimento» che in ultima analisi, non è che una brusca riforma.

D’altra parte, considerandola solo superficialmente, si finisce poi con lo svisare il significato umano ed eterno della rivoluzione: si giunge così, quasi sempre, ad attribuirle quello, tutt’altro che storico, di ribellione e a disconoscere, in conseguenza, che essa sia l’espressione più diretta del «senso eroico» dei popoli che non s’adagiano sul costume.

Si parlerà altre volte anche di folle e di capipopolo, questione che, per essere eterna, è sempre moderna ed attuale: se cioè sia il popolo, la massa popolare, a far le rivoluzioni e la storia, o gli uomini forti, gli eroi: o se, anche, popolo ed eroi, massa ed individui, non s’identifichino, per essere questi immediata creazione di quella.

Per ora, solo la rivoluzione in sé e per sé, intesa come fenomeno puramente politico, e quindi storico, sarà l’argomento delle nostre osservazioni e deduzioni: osservazioni e deduzioni, si badi bene, tratte soltanto dal corso della storia fino ad ora, che non vanno, come non possono andare, più in là dell’oggi, né assumere l’aspetto rigido di leggi: il che varrebbe a togliere senz’altro alla rivoluzione quella che ne è invece l’essenza: il dinamismo.

Lo svolgimento di una rivoluzione passa quasi sempre, e logicamente, attraverso tre stadi, tre fasi, che risulteranno più o meno lunghe (ed anche questo è ovvio) a seconda dei numerosi elementi di svariato e complesso ordine, di cui si dovrà necessariamente servire il movimento: così si dovrà tenere il massimo conto del fattore economia, del fattore morale, del fattore politica: coefficienti, questi, che hanno sempre un’influenza decisiva sulle grandi svolte della storia; che anzi, quasi sempre, le determinano e le indirizzano.

C’è più d’uno che sostiene nella maniera più categorica che il fattore primo, che l’unico fattore anzi, della vita dei popoli, delle loro lotte continue e dei loro continui progressi, il più remoto principio e il fine ultimo, insomma, di ogni nostra più disparata attività, sia la sola economia: tutto il resto, perciò, non sarebbe altro che un prodotto del «sentimento economico» dei popoli.

Questa tesi, però, spesso poggiata su argomenti assai solidi e che si vale di ben visibili esempi e di prove a portata di chiunque, non può essere accettata così com’è, tutta in blocco: riconosciamo senz’altro – perché il contrario sarebbe semplicemente da ciechi – l’importanza grandiosa, capitale della economia, ma non l’esaltiamo a quel punto; è un ragionamento freddo come un teorema, questo, che abbatte ogni altro valore morale o, per lo meno, lo pone all’ombra, in sottordine, e noi non siamo, e non possiamo essere così materialisti da accoglierlo nel nostro patrimonio spirituale: si verrebbe così a menomare l’eroismo, per la sua nuova funzione esclusivamente economica, e si eliminerebbe per sempre il sacrificio che sono invece forze vitali ed operanti di ogni rivoluzione.

E già che, anche solo di sfuggita, abbiamo ora accennato alle forze morali dei popoli, credo necessario almeno dedicare due righe di risposta a tutti coloro (e, presumibilmente, non saranno pochi) che si chiederanno meravigliati come mai, in questa scala di valori, non si sia tenuto affatto conto della religione, che è invece l’indice più sicuro dell’elevatezza delle genti.

Secondo noi sotto una veste, o, per meglio intenderci, in una funzione che chiameremo storica, essa o s’identifica e si perde nella morale, o diventa vera e propria politica; terzium non datur. Nient’altro che politica umana e terrena, dunque, se considerata soltanto come espressione e strumento della volontà della Chiesa: parte della morale, invece, se intesa come livello spirituale.

E si potrebbe anche, a proposito, parlare di quella formidabile Rivoluzione sociale che è il Cristianesimo.

Ma il nostro scopo è soltanto quello di dimostrare che la rivoluzione è concezione, e quindi vita: sofferenza e vita: in una parola umanità.

Perciò la storia non la farà, assolutamente l’uomo politico, che esaspera gli ideali, né l’uomo economico che li uccide: può essere, e sarà, soltanto l’uomo morale che li congiunge e li tempera: che non cerca di abbattere i valori spirituali, ma non vuol d’altra parte esagerarne alcuni soltanto. Per questo, esclusivamente per questo, le rivoluzioni, umane, profonde e storiche come noi l’intendiamo, non verranno mai dall’Africa che non ha uomini morali, né sorgeranno mai dall’America che ha solo uomini economici: ed anche oggi, noi abbiamo il filiale orgoglio di vedere l’Europa dar vita alla storia e imprimerne il corso.

Da lei, ancora una volta, da noi, anzi, sorgono le concezioni nuove che vanno per il mondo e lo plasmano».

La struttura è tipica del testo argomentativo, scandita da una paragrafazione puntuale: definizione dell’argomento, affermazione di una tesi con relative argomentazioni, confutazione delle argomentazioni contrarie o divergenti, conclusione. Vi troviamo però soluzioni poco affini alla scrittura saggistica canonica, come espressioni virgolettate, quindi probabili citazioni, ma senza attribuzione («sovvertimento», «senso eroico», «sentimento economico»), affermazioni vaghe («ci vuole qualche cosa di più profondo», «che si vale di ben visibili esempi e di prove a portata di chiunque») o perentorie, quasi sentenziali, e non argomentate: «come mai, in questa scala di valori, non si sia tenuto affatto conto della religione, che è invece l’indice più sicuro dell’elevatezza delle genti»; «Perciò la storia non la farà, assolutamente l’uomo politico, che esaspera gli ideali, né l’uomo economico che li uccide: può essere, e sarà, soltanto l’uomo morale che li congiunge e li tempera: che non cerca di abbattere i valori spirituali, ma non vuol d’altra parte esagerarne alcuni soltanto». Alle citazioni dirette, infine, sono preferiti i riferimenti generici (es. «C’è più d’uno che sostiene»), soluzione che peraltro ritroveremo nella saggistica postbellica, ad es. in Robinson ’48: «Senza voler prendere la mano a quei commentatori che in ogni verso di Dante giurano di trovar racchiuso tutto lo scibile umano».

Dialogo con Gentile

Potremmo ipotizzare che la scelta dell’allusione, reticente, sia dovuta alla notorietà di espressioni e posizioni del dibattito politico e filosofico coevo. Il testo pare infatti dialogare con il neoidealismo gentiliano, in particolare con la sua concezione della storia, ma ritroviamo echi marxisti (filtrati forse dallo stesso Gentile, o da Croce) nel riferimento all’economia come struttura, inoltre nelle affermazioni sul dinamismo e sullo spirito eroico supponiamo un’influenza del corso di Saitta (dedicato, stante l’Annuario, a: la concezione eroica della vita nella filosofia moderna; religione e filosofia; la dialettica moderna; la coscienza illuministica; la filosofia dell’azione). Si tratta di concetti dibattuti nella discussione culturale fascista (Tarquini 2011), in cui si forma Comparoni, peraltro attento alle sollecitazioni culturali anche non allineate al regime (Sebastiani 2019), come testimoniano, sia durante che dopo la guerra, le citazioni di Croce nel carteggio con Vallecchi in relazione alla letteratura per l’infanzia (D’Arzo 2004: 47) e nel saggio Maupassant («Fortuna che, in mezzo a tanto odor di tomba, Croce, Stefano Zweig e Thomas Mann danno tranquillamente a Cesare quel che è suo»).

Pluralis maiestatis

Esula però dal nostro ambito di ricerca un commento alla riflessione filosofica di D’Arzo; intendiamo piuttosto osservarne alcuni fenomeni stilistici e linguistici funzionali a contestualizzare il testo nella produzione darziana e nell’evoluzione della sua scrittura. Partendo da una questione retorica, notiamo ad es. che Saggio sulle rivoluzioni, dopo l’iniziale andamento impersonale, introduce il pluralis maiestatis (da «l’argomento delle nostre osservazioni e deduzioni»), soluzione poi non adottata in Inchiesta sulla narrativa (1942), il primo intervento “teorico” darziano noto prima d’ora, scritto in forma impersonale, mentre negli articoli successivi prevale la prima persona singolare (es. in Polonio o il sentimento serio della vita: «Così comune, dicevo, la storia, da apparire nuova affatto»; in Robinson ’48: «credo sul serio non sia cosa facile incamminarsi [...]»), spesso però affiancata da un uso inclusivo della prima persona plurale. Si tratta di una soluzione stilistica con cui D’Arzo punta alla costruzione di una complicità con il lettore: l’autore, con fare pedagogico, coinvolge nel processo interpretativo i suoi interlocutori, soluzione che riscontriamo in nuce anche in questo testo, a partire dall’inciso «per meglio intenderci».

Un noi inclusivo

Se, infatti, di rado incontreremo l’alternanza io/noi per la voce autoriale (già qui: «abbiamo ora accennato alle forze morali dei popoli, credo necessario almeno […]»), stilema darziano è piuttosto il noi inclusivo che abbraccia la comunità dei lettori. Ad es. in L’isola di Tusitala: «E una cosa, quanto all’isola, vorrei rilevare, grazie alla quale l’avventura non deve considerarsi irrimediabilmente finita e il mare non si richiude per l’eternità sullo scoglio: perché infatti ci sembra che appunto da questo nasca quel sottile potere suggestivo che ci rende ancor oggi il sogno possibile». Vorrei rilevare e ci sembra mostrano l’alternanza autoriale, ma ci rende estende il referente del pronome. Estensione che abbiamo anche in Saggio sulle rivoluzioni in «noi abbiamo il filiale orgoglio di vedere l’Europa dar vita alla storia e imprimerne il corso», poi ad es. in Henry James: «Ormai dei fatti siamo arrivati a farcene una specie di culto o poco meno; direi che non si crede più che in quelli»; o in Hemingway: «Bene. Per conto mio, io invece penserei d’andar cauti. […] Ma lasciamo per ora andar Faulkner, scrittore in fondo più citato che letto; e fermiamoci piuttosto su Hemingway». E in Maupassant la comunità ideale istituita dal noi è esplicitamente denominata: «Quanto al noi, suoi lettori, è positivo che ci ignora: tranquillamente, senza orgoglio, ma ci ignora».

Perentorio

Rispetto alla produzione successiva, inoltre, di Saggio sulle rivoluzioni va sottolineata la scarsa presenza di formule dubitative o attenuative ricorrenti in D’Arzo, ovvero verbi, avverbi e costrutti «seminatori di dubbio» (Marazzini 1984), qui assenti, come parere, magari, forse, avremmo anche. Incontriamo però a infrangere la successione degli assai perentori «non può mai, in nessun caso», o «è sempre moderna ed attuale», l’uso di quasi sempre: «si giunge così, quasi sempre, ad attribuirle quello, tutt’altro che storico, di ribellione», «Lo svolgimento di una rivoluzione passa quasi sempre, e logicamente, attraverso tre stadi». La titubanza che la locuzione introduce è significativa nella prossimità di sempre a quasi sempre in «coefficienti, questi, che hanno sempre un’influenza decisiva sulle grandi svolte della storia; che anzi, quasi sempre, le determinano e le indirizzano». È una spia dello stile darziano (narrativo soprattutto) in un testo dai toni ben lontani da quelli noti, in cui però riscontriamo fenomeni attestati nella scrittura successiva (per cui rimandiamo anche a Testa 2004, Martignoni 1984), come le allocuzioni al lettore «Bisogna star molto attenti perciò», «si badi bene», il colloquialismo «tutta in blocco», fino all’inciso idiomatico «perché il contrario sarebbe semplicemente da ciechi» che peraltro nomina una delle figure topiche darziane per eccellenza: il cieco. O come l’anadiplosi («[…] delle nostre osservazioni e deduzioni: osservazioni e deduzioni, si badi bene, [...]»), le coppie aggettivali («il significato umano ed eterno della rivoluzione», «la più vasta e complessa immaginabile, moderna e attuale, elementi di svariato e complesso ordine»), o, nell’ambito della punteggiatura, l’uso non sempre standard della virgola (forse qui anche dovuta a errori di battitura in «che[,] in ultima analisi, non è che una brusca riforma»), o ritmico («ed anche oggi, noi abbiamo il filiale orgoglio»), e quello dei due punti in successione nella stessa frase.

Freddo come un teorema

Anche a livello lessicale riscontriamo fenomeni rilevanti per l’evoluzione della scrittura darziana: hapax, prime attestazioni e futuri stilemi. Innanzitutto, anche per il tema trattato, rileviamo una presenza consistente di lessico filosofico e politico. Il primo è testimoniato ad es. da parole come entità, o da sintagmi quali «il più remoto principio e il fine ultimo», del tutto assenti nella produzione letteraria ed epistolare coeva e successiva, come anche i sostantivi fattore, coefficiente, materialisti, fenomeno, i verbi plasmare e svisare, l’espressione forze morali dei popoli, la formula si dovrà necessariamente, mentre principio appare usato solo per ‘inizio’. Segnaliamo anche l’insistenza sulla parola popolo (e derivati e composti come popolare e capipopolo), che conta qui 9 occorrenze contro le 14 nel resto dell’opera darziana, mentre ritroviamo il sintagma nominale «nel nostro patrimonio spirituale» in L’uomo che camminava per le strade, coevo all’articolo ma edito postumo: «Siamo troppo abituati a servirci delle frasi fatte, che adottiamo sul momento per comodità, e che a lungo andare vengono a far parte del nostro patrimonio spirituale» (D’Arzo 2003: 169). Tra articolo e testo letterario riscontriamo anche il passaggio della similitudine «freddo come un teorema» in due occasioni: «Una dimostrazione parca, fredda e precisa come un teorema» (p. 465); «Era freddo, parco e preciso come la dimostrazione d’un teorema: diceva spesso evidentemente e, per indicare la difficoltà di qualche cosa, accennava a un procedimento molto laborioso» (p. 142), in cui, di fatto, D’Arzo ironizza sullo stile usato in Saggio sulle rivoluzioni.

Nell’Italia fascistizzata

Per quanto riguarda il lessico politico, l’intervento su “Gerarchia” appare in anni in cui, ricorda Norberto Bobbio (1973: 235), «gli intellettuali superstiti, ormai inquadrati, diedero vita all’Istituto di mistica fascista», mistica legata alla figura di Mussolini, che almeno nell’articolo darziano non è nominato. Se però non abbiamo riferimenti al mito del Duce, né appare la parola fascismo, è un fatto che D’Arzo cresca e viva in un’Italia fascistizzata, esordisca nella Antologia dei giovani scrittori e poeti italiani (1934) con la prefazione dello scrittore legato al regime Guido Milanesi, e tra il 1940 e il 1941 pubblichi su “Il Meridiano di Roma” e “Quadrivio”, ed è indubbio che la sua scrittura risente delle peculiarità linguistiche del Ventennio (Raffaelli 2010). Basti notare l’insistenza nel Saggio sulle rivoluzioni sul «senso eroico» dei popoli e di parole come eroismo, sacrificio, aggettivazioni roboanti del tipo formidabile, eterna, importanza grandiosa, espressioni come «forze vitali ed operanti di ogni rivoluzione», «grandi svolte della storia», affermazioni quali «noi abbiamo il filiale orgoglio di vedere l’Europa dar vita alla storia e imprimerne il corso». Un vocabolario e uno stile che ritroviamo ad es. nelle poesiole pubblicate quattro anni prima in Luci e penombre, non prive di risonanze dei miti e della retorica fascisti, per cui basti leggere, ad es., 4 Novembre: «O madri, voi che della vostra carne / la carne deste, e che del vostro sangue / il sangue offriste all’ara del dovere, / alzate il volto al bacio del martirio; / soldati, alzate i vostri moncherini / che seppero la gloria e il sacrificio / e fissate con l’orbite accecate / la sfolgorante primavera nuova / [...]». Sono invece assenti dai successivi testi letterari darziani elementi del lessico politico quali rivoluzione, riforma, «sovvertimento», movimento, mentre prendendo movimento politico riscontriamo alcune occorrenze, per quanto generiche, della parola politica, come aggettivo e sostantivo, nei coevi Piccolo mondo degli umili («Prende il foglio, lo mette sotto gli occhi di chi ha dubitato un solo istante delle sue idee ed esclama con intimo compiacimento: “Leggete, lì, ragazzo, e poi venite a parlarmi di politica”») e Fine di Mirco («Mirco non parlava mai di politica né aveva le tasche»), e insieme a democratico in L’uomo che camminava per le strade: «Ma, detto fra noi, abbiamo avuto qualche divergenza politica, sai... Lui non è democratico, ecco».

La parola intimo

Saggio sulle rivoluzioni è quindi da inserire nel clima linguistico e culturale del tardo Ventennio, come testimonia anche l’affermazione razzista per cui «le rivoluzioni, umane, profonde e storiche come noi l’intendiamo, non verranno mai dall’Africa che non ha uomini morali», ma va notata una sensibilità personale che emerge in spie lessicali, soluzioni retoriche e stilistiche che esulano dalla scrittura saggistica, filosofica e politica, e che caratterizzeranno la poetica del D’Arzo maturo. Nella frase «ci vuole qualche cosa di più profondo, e, in un certo senso, di più intimo» troviamo ad es. intimo, ovvero una parola chiave dell’autore per esprimere l’interiorità e una difficile condizione relazionale tra sé e il mondo. La ritroviamo (come anche le forme intime e intima) nelle lettere a Vallecchi e ad Ada Gorini, e nei coevi, o comunque riconducibili al periodo formativo, Essi pensano ad altro, L’uomo che camminava per le strade, All’insegna del Buon Corsiero, L’osteria, Maschere. La parola è poi presente anche nella produzione saggistica del dopoguerra, e in Tobby in prigione.

Quale rivoluzione

Il concetto è strettamente connesso con l’elemento più significativo, per la scrittura e la poetica darziana, di questo testo: la definizione di “rivoluzione”. Curiosamente, l’intervento appare nello stesso numero della rivista che ospita Concetto mussoliniano della “rivoluzione permanente” di Giuseppe Bottai, articolo che identifica fascismo e rivoluzione, e che riprende fin dal titolo il celebre concetto trotskiano, ma all’interno della retorica della «rivoluzione in marcia» tanto cara al regime (Lucaroni 2015), definendola come «realtà stessa del processo storico» che, con radici nel Risorgimento e distinta da quella Francese, vive una prima fase nella Grande Guerra, «che acquista un contenuto morale, politico e sociale di rinnovazione», e poi, sotto la guida di Mussolini, diviene una «energia creativa, materiale e spirituale insieme, che si mantiene integra attraverso gli anni e si affina nelle continue prove», «un moto interiore», «una forza in azione [… che] genera il Fascismo» (Bottai 1939). Bisognerebbe indagare nella corrispondenza e negli archivi redazionali di “Gerarchia” per capire se sia solo una coincidenza la pubblicazione di Saggio sulle rivoluzioni nello stesso numero del testo di Bottai, ma è innegabile l’affinità di elementi lessicali e concettuali (basti ricordare, per il mito dell’azione: «il che varrebbe a togliere senz’altro alla rivoluzione quella che ne è invece l’essenza: il dinamismo»); è però interessante notare una peculiarità darziana quando afferma che: «la rivoluzione è concezione, e quindi vita: sofferenza e vita: in una parola umanità». L’uso di concezione è ambiguo, può rimandare al concepimento, all’elaborazione di una riflessione, all’assunto fondamentale di un pensiero (GDLI), ed è accostato a vita con un rapporto esplicativo, per cui sottende una metafora biologica che riconduce il vitalismo (il dinamismo) in un orizzonte dove si incontrano vita e sofferenza, evocando così di fatto una complessità esistenziale e una contraddittorietà rispetto al vitalismo energico sintetizzate in umanità. Un processo di semantizzazione che depotenzia l’azione concreta, il gesto eroico, e interiorizza la trasformazione, intima, fatto insolito per la retorica di regime.

Solitudine e socialità

La parola umanità è assente nel saggio di Bottai, ed è curiosamente un termine che Benedetto Croce userà nell’articolo Il fascismo come pericolo mondiale, sul “New York Times”, il 14 ottobre 1943, nell’individuazione delle premesse ideologiche del fascismo, per cui l’ideale del superuomo «era un ideale profondamente immorale e anticristiano in quanto negava l’umanità dell’uomo» (Croce 1993). ‘Umanità’, quindi, non come ‘genere umano’ ma come ‘natura umana’, ‘partecipazione alla condizione umana’ (GDLI). Tale significato è prossimo all’uso darziano, che parla anche di «significato umano ed eterno della rivoluzione», di «rivoluzioni, umane, profonde e storiche», ed è spia della sua peculiare ricerca poetica, che svilupperà nel dopoguerra. Nel coevo L’uomo che camminava per le strade, però, l’espressione è usata per ‘insieme degli esseri umani’: «Egli per l’umanità esisteva ormai solo in quanto si chiamava Umberto Frassi ed aveva ucciso una donna la sera del sette giugno del millenovecentotrentacinque» (D’Arzo 2003: 157), quindi è in “Gerarchia” che appare con il significato poi sviluppato come espressione della ‘condizione di essere umano’ che ritroveremo nella Prefazione a “Nostro lunedì” («Ma il curioso era questo. Leggevamo già il vecchio Conrad, e il vecchio Melville e Cecof: ci salutavamo alle volte citando una frase di Lord Jim o di Bartleby, e per scrivere una novella alla Cecof avremmo dato ogni cosa e anche più. «Che umanità... che umanità» dicevamo», p. 497), o nei saggi Polonio e Kipling e l’isola (pp. 562. 568), fino a definire una condizione apparentemente ossimorica  (come «sofferenza e vita»), consapevole e a suo modo aristocratica, di empatia: una «dolorosa simpatia per gli uomini», «virile e solitaria e malinconica» in Joseph Conrad o dell’“Umanità” (pp. 585, 591), saggio che focalizza il concetto fin dal titolo e lo affronta nell’analisi dell’opera di Conrad, per cui: «se ci furono mai circostanze e atmosfere adatte a formare un suo pubblico, circostanze e atmosfere ci sembrano, per più di un aspetto, quelle appunto di adesso: se ci furono uomini che poterono con certa facilità riconoscersi in qualcuna delle creature di Conrad e sentirne non solo letterariamente l’esilio, questi uomini, credo, si possono trovare fra noi». Qui, nel consueto movimento pronominale, sposta l’asse del discorso dal letterario al sociale. È «la possibilità [...] di “un diretto rapporto cogli uomini”» in T.E. Lawrence (p. 610), che incarna «un punto di vista moderno», come scrive a Vallecchi nel 1946 (D’Arzo 2004: 160), e che nel 1947 specificherà come «il desiderio di solitudine, il bisogno di solitudine, e nello stesso tempo il desiderio di amare e di scendere in mezzo agli uomini» (p. 198).

Alla ricerca di umanità

Saggio sulle rivoluzioni, quindi, al di là degli evidenti debiti, nella commistione di lingua roboante di regime e concezioni filosofiche in voga lascia trapelare un lessico e una sensibilità che si discostano dalla retorica dominante, e mostra come D’Arzo, già nel 1939, stia cercando quel percorso individuale, intimo, introducendo il concetto di umanità, parola chiave per comprendere nel dopoguerra la sua ricerca poetica e il conflitto con la produzione (neo)realistica egemone in ambito artistico, letterario in particolare (Macchioni Jodi 1984: 106, Vignali 2010: 50-52). A ben vedere, quindi, è il suo primo timido tentativo di affermazione da outsider, come lo definirà Pier Paolo Pasolini nel 1961 (Pasolini 1999), per quanto alla continua ricerca di un suo posto al mondo.

Bibliografia

Si ringraziano, per la consulenza in ambito filosofico, Igor Pelgreffi e Gian Luigi Zucchini.

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Immagine di copertina: le prime due pagine del libretto universitario di Ezio Comparoni (ASUBo, Fascicoli degli studenti di Lettere e Filosofia, n. 3368) ©Alma Mater Studiorum Università di Bologna – Biblioteca Universitaria di Bologna. Divieto di ulteriore riproduzione o duplicazione con qualsiasi mezzo.