Ho sentito parlare di Silvio D’Arzo per la prima volta nel 1985, ad un seminario di lettura tenuto dal professor Fabrizio Frasnedi alla Facoltà di Lettere dell’Università di Bologna. Erano veri e propri corsi di scrittura e lettura nati molto prima che si diffondessero in Italia, ed erano malvisti o semplicemente tollerati, se non ignorati, dagli altri professori. Li frequentavo da matricola spaesata che aveva una gran voglia d’imparare a scrivere. Frasnedi portava, per ognuno di noi, cinque o sei fotocopie di opere di autori diversi, e noi dovevamo capire che tipologia di scrittura avevamo davanti. All’inizio non era importante conoscere l’autore, dovevamo capire la scrittura di primo acchito, “vederla”, ascoltarla, come accade ad un direttore d’orchestra che legge uno spartito e capisce subito di che musica si tratta. Tra queste pagine c’era l’inizio di Casa d’altri di Silvio D’Arzo, uno scrittore reggiano morto giovane, di cui si sapeva poco o niente, e che nessuno conosceva. Ci aspettavamo di leggere grandi autori della letteratura mondiale, non so, Tolstoj o Dostoevskij, Goethe o Schiller, e invece leggevamo romanzi e racconti di autori italiani poco frequentati, di non grande fama. Fu all’inizio una delusione perché non capivo. Casa d’altri di Silvio D’Arzo, I sillabari di Goffredo Parise, Una questione privata di Beppe Fenoglio erano alcune delle opere che Frasnedi c’invitata a leggere; opere e autori che non trovavo nelle antologie scolastiche ed erano fuori dai canoni tradizionali del Novecento. Quando leggemmo e capimmo la lezione, fu una vera e propria rivelazione, per non dire “una rivoluzione”.

L’importanza del leggere e conoscere a fondo gli scrittori della propria terra

Le lezioni di Frasnedi mi hanno indicato una strada di lavoro e di ricerca che, a distanza di tanti anni, perseguo ancora con dedizione e passione. S’impara a scrivere leggendo bene, con lentezza, le opere degli scrittori; s’impara a leggere prendendo dimestichezza con le tecniche narrative che utilizzano. Leggere e scrivere, dunque, sono un unico atto, due momenti inscindibili, come la diastole e la sistole del battito del cuore. Questa è la lezione di cui ho fatto tesoro, che insegno nei corsi di scrittura, dalla scuola primaria ai master universitari di comunicazione. Pur proponendo autori sempre nuovi e diversi, c’è sempre e comunque Casa d’altri di Silvio D’Arzo che leggo e consiglio continuamente: e ogni volta, per lettori d’ogni età, è una rivelazione. All’Università avevamo avuto la fortuna di scoprire un autore, D’Arzo, che sarebbe diventato negli anni uno scrittore di culto, amato soprattutto dagli scrittori.

Questo preambolo è fondamentale per comprendere la mia passione per Silvio D’Arzo, la sua lezione di vita e letteratura, che ha segnato gran parte del mio lavoro. Con lui scoprivo la bellezza della scrittura e l’importanza del leggere e conoscere a fondo gli scrittori della mia terra. E ogni volta che si parlava di D’Arzo era una sorpresa. Il suo racconto più famoso, Casa d’altri, aveva attirato l’attenzione di Eugenio Montale che lo aveva dichiarato «perfetto»; Giorgio Manganelli aveva definito questo «lungo racconto», piuttosto anomalo nella tradizione letteraria del nostro Novecento, una «tragedia teologica». Silvio D’Arzo per anni è stato uno scrittore misterioso, si parlava dell’esistenza di carte segrete, favolosi materiali inediti in mano a diversi eredi, versioni diverse dei suoi scritti, lettere, pubblicazioni sparse in giornali e riviste e non ancora raccolte, con i suoi libri introvabili in edizioni rare a prezzi altissimi nel mercato antiquario. Un autore che aveva lavorato su generi diversi, dai libri per ragazzi, ai racconti, ai saggi di letteratura poi raccolti in Contea inglese: Silvio D’Arzo sembrava imprendibile, con un profilo intellettuale che si ricostruiva pezzo per pezzo, con fatica. Era difficile avere una visione complessiva del suo lavoro. Anche questo vuol dire “leggere bene” un autore. Ed è stato il motivo per cui ho cominciato a fare il ricercatore e poi l’editore, per velocizzare la pubblicazione dei materiali raccolti, muovendomi con maggiore libertà. Rimettere in ordine le carte e i materiali di uno scrittore è un modo per leggerlo meglio, cercando la verità della sua scrittura.

Le Opere di D’Arzo

Nel 2002, appena fondata la casa editrice Monte Università Parma editore (che metteva insieme, in un progetto molto innovativo, la Fondazione della Banca Monte e l’Università di Parma), decisi come direttore editoriale che avrei pubblicato l’opera omnia di Silvio D’Arzo. Sarebbe stata la prima grande opera della casa editrice. Tutto quello che era conosciuto in quel momento volevo raccoglierlo in un unico volume. Così ho messo insieme una squadra di lavoro, con Alberto Bertoni e Fabrizio Frasnedi, insegnanti all’Università di Bologna, che avrebbero firmato le introduzioni, e la cura dei testi affidata a Stefano Costanzi, Emanuela Orlandini e Alberto Sebastiani. Frasnedi, sempre parco e restìo allo scrivere, aveva detto di sì con grande entusiasmo. Così sono nati i due grandi volumi, quello delle Opere nel 2003, e delle Lettere, a cura di Alberto Sebastiani, l’anno dopo, nel 2004. Quindici anni dopo le lezioni all’Università di Bologna, davo concretezza ad un progetto di riordino dei materiali di Silvio D’Arzo. Un’operazione innovativa, il cui modello erano i Meridiani Mondadori. La mia lunga fedeltà all’opera di Silvio D’Arzo si concretizzava non solo con il riordino dell’opera: da quel momento cominciava il lavoro più difficile, quello di far conoscere il suo lavoro al maggior numero di persone.

Le illustrazioni di Meli

Nel 2003 avevo pubblicato la “Biblioteca Parmigiana del Novecento”, una collana di 39 volumi tra romanzi, racconti e saggi di autori parmigiani, in allegato con “Gazzetta di Parma”, che aveva avuto un notevole successo di vendite. Sull’onda di quel successo avevo progettato “La biblioteca dei piccoli”, una serie di libri per ragazzi, sempre in allegato con “Gazzetta di Parma”. Avevo inserito di Silvio D’Arzo Il pinguino senza frac e Tobby in prigione. Per l’occasione avevo chiamato Roberto Meli, illustratore e fumettista eccezionale, allora ancora agli inizi ma oggi autore conosciuto soprattutto in Francia, per illustrare le sue storie. I due libri erano stati quelli tra i più venduti della collana.

Nella rivista "Palazzo Sanvitale"

Mentre lavoravamo ai due volumi, pubblicavo sul n°6 della rivista “Palazzo Sanvitale”, vero strumento di progettualità della casa editrice, il raccontino inedito di Silvio D’Arzo L’annegata. La foto di copertina vede un Silvio D’Arzo giovanissimo. La parte monografica raccoglieva interventi di Eraldo Affinati, Bruno Arpaia, Valerio Aiolli, Roberto Barbolini, Alberto Bertoni, Giuseppe Bonura, Luca Doninelli, Angelo Ferracuti, Paola Mastrocola, Daniela Marcheschi, Antonio Moresco, Fulvio Panzeri, Laura Pariani, Domenico Scarpa, Antonio Spadaro, Pietro Spirito, Filippo Tuena.

La seconda copertina di “Palazzo Sanvitale” dedicata a Silvio D’arzo la pubblicai qualche anno dopo, in occasione di una ricorrenza speciale: i dieci anni della rivista. Così scrivevo nell’editoriale del numero 21-22 del 2007.

Ancora una volta è Silvio D’Arzo a occupare la sezione monografica, così come era avvenuto nel numero 6, a dimostrazione che gli argomenti non si esauriscono mai e che la rivista ama approfondirne probabili e interessanti sviluppi. “Palazzo Sanvitale” è pensata non come una serie di pubblicazioni isolate, ma come un unico progetto editoriale. Di D’Arzo proponiamo un nuovo inedito giovanile e una versione finora sconosciuta di un suo racconto, a conclusione di un lavoro mai interrotto che ha condotto alla pubblicazione della opera omnia filologicamente restaurata e, poi, dell’intero corpus delle lettere, rendendo giustizia a uno scrittore non certo minore della storia della nostra tradizione letteraria.

Nel volume avevo pubblicato due racconti “dispersi” darziani, firmati con due diversi pseudonimi: La valanga di Raffaele Comparoni e Fine di Mirco di Silvio D’Arzo. Il tutto a cura di Alberto Sebastiani.

D’Arzo in mostra

In occasione del novantesimo della nascita, nel 2010, prima di lasciare la direzione della casa editrice, volevo celebrare l’autore che aveva segnato i miei dieci anni di lavoro da editore, con quattro volumi, una speciale collana composta da quattro titoli in quel periodo introvabili sul mercato: Penny Wirton e sua madre_,_ Casa d’Altri_,_ Il pinguino senza frac e All’insegna del Buon Corsiero_._ Di Casa d’altri firmavo la bandella introduttiva. Senza dimenticare la mostra fotografica e documentaria itinerante, dedicata alla vita e all’opera di Silvio D’Arzo, composta da 24 pannelli, che avevo creato insieme a Manuela Cacchioli per far conoscere l’autore: un’esposizione che aveva girato per tanti anni, tra scuole e biblioteche dell’Emilia e della Romagna. Così si chiudeva, almeno per me, un periodo della mia vita di scrittore e di editore all’insegna dello scrittore reggiano.

La filologia del leggere bene

Le lezioni di Frasnedi mi avevano insegnato anche questo, che “leggere bene” uno scrittore vuol dire, quando possibile, riordinare la sua opera e poi divulgarla. C’è una profonda unità nel mio lavoro di scrittore all’apparenza dispersiva, una coerenza che non si limita alla sola stesura di racconti e romanzi. Bisogna prendersi cura dell’opera dei propri maestri, degli autori amati, cercando di salvaguardare la loro lezione e la loro verità, diffondendo l’opera, rimettendo in ordine le carte. La ricerca, la filologia, e dunque la critica, sono forme diverse, lo ribadisco, del “leggere bene”, con un fondamento etico che riguarda il rispetto dell’autore, della sua verità umana e letteraria. In questo modo avevo fatto mia la lezione di Fabrizio Frasnedi che così racconta, nell’introduzione alle Opere, p. XXV, il suo incontro, il suo amore e la sua fedeltà a Silvio D’Arzo:

Silvio D’Arzo è, per quasi tutti noi, l'autore di Casa d'altri. Questo noi, va da sé, si riferisce alla sotterranea comunità dei lettori, alla solidarietà profonda e nascosta che unisce tutti coloro che hanno con i testi un rapporto vitale, carnale, di pelle. Accadde anche a me, molti anni or sono, di rimanere fulminato dalla lettura del più famoso racconto darziano, e di avere poi sempre conservato gelosamente questo amore, rileggendo e facendo conoscere il testo a generazioni di allievi e di insegnanti. È ovvio che volli poi allargare lo sguardo, e conoscere meglio l'autore di quella gemma. Esplorai così il terreno dal quale quel capolavoro era nato, e incontrai il mistero di un fascino che sembrava fatto apposta per non farsi catturare dalle parole: per lasciare, nel lettore, inappagata la sete di possedere. L'incanto di D'Arzo mi parve, a un certo punto, proprio rivelato dalla capacità dei suoi racconti di sfuggire alla critica delle definizioni, e di avvalorare una poetica dell'afasia: del non rivelare, nella scrittura, la chiave di un senso riassumibile, da una parte, e di lasciare, dall'altra, il lettore nel balbettio di nebulose affettive che rifiutavano di farsi pensiero. Mi hai raggiunto, pensavo, colpito, ferito, ma tu vuoi che quel vulnus non si sciolga nella pacificazione apollinea di un senso.

Frasnedi e l’ossessione ritmica di Silvio D’Arzo

Frasnedi a lezione leggeva in due modi la prima pagina di Casa d’altri; faceva una prima lettura con un tono normale; la seconda volta, scandiva con precisione gli accenti, battendo talvolta la mano sul tavolo, come se stesse facendo solfeggio. E la metafora non è banale. La scrittura darziana è quella che lui definiva una “ossessione ritmica”, con la frase costruita su una cadenza di metri “anapestici o anapestico-giambici” che avevano come ricorrenze privilegiate “il settenario di terza e di sesta e il decasillabo manzoniano di terza, sesta e nona” (Opere, p. LXVII). La scrittura di D’Arzo era dunque ritmo, era cadenza, era ossessione. Aveva il passo del montanaro che cammina su per un sentiero alla ricerca di una verità metafisica. Una forma di scrittura molto originale, musicale, con la quale aveva creato le sue opere più importanti come Penny Wirton, Il pinguino senza frac e Tobby in prigione. Una scrittura all’apparenza semplice ma complessa, articolata nel suo farsi, che ti entrava nell’orecchio e dovevi presto dimenticare perché finivi per imitarlo. Questa era la scoperta di uno stile, di un autore imprendibile, sfuggente, originale, fuori dai canoni. Una scrittura molto diversa da quella utilizzata da D’Arzo nel romanzo All’insegna del Buon Corsiero.

Il racconto di Casa d’altri si apre con l’abbaiare di cani che annunciano la morte di uno dei pochi abitanti del paese di Montelice, un abbaiare che diventa “sirena del mondo alla fine” e allarga silenzi tra montagne sperdute dell’Appennino reggiano. I protagonisti sono una vecchia lavandaia di nome Zelinda, che tutti i giorni, anche nel crudo inverno, porta a lavare i panni nel fiume accompagnata da una capra, e il suo alter ego, un prete vecchio, un Falstaff dall’ironia sottile, drammaticamente sperduto anch’egli fra tramonti viola, in un paese dove ci sono «sette case», sette tetti e montagne fin che si vuole.

La domanda che la vecchia Zelinda deve rivolgere al prete è la spinta che conduce il racconto verso la fine, con una tensione creata non dai fatti ma dal ritmo della scrittura, attraverso una prosodia ossessiva, musicale. Un racconto dove non accade quasi niente. Silvio D’Arzo riesce a dare il tono al racconto tra sospensione e silenzio con questi due vecchi che affrontano in due modi diversi la morte, in un mondo che non gli appartiene, in un mondo “ostile”, diventato all’improvviso “casa d’altri”. D'Arzo, come i protagonisti del suo racconto, è un “esiliato” dal mondo, non ha un destino e non ha un nome ma solo “pseudonimi”. Il suo paese-rifugio non sarà Reggio Emilia, dov’è nato, ma la “Contea inglese” della letteratura, luogo privilegiato in cui cercare le risposte al senso ultimo della vita.

Senza un cielo sopra la testa

D’Arzo è uno scrittore che apre diversi interrogativi sulla nostra letteratura, sul tema del canone e delle tradizioni, sulle geografie del territorio, sul nostro lavoro di scrittori, con la categoria del “marginale” rimessa in discussione. Non sono forse “centrali” per gli autori che vengono dopo? Affrontano “il senso finale del nostro esistere” senza un cielo sopra la testa. Scrittori appartati che indicano una strada di verità. D’Arzo è uno scrittore morto giovane, non possiamo prevedere come sarebbe stato lo sviluppo dell’opera nella maturità e nella vecchiaia; ha seminato più che raccogliere, ha indicato percorsi a chi viene dopo, com’è successo con Pier Vittorio Tondelli. Tocca a noi inverare la lezione di questi scrittori aurorali. Silvio D’Arzo ha scandito il senso del mio lavoro di scrittore fin dalla mia prima formazione e continua ancora oggi a interrogarmi sul mio modo di scrivere. La tragica beffa del destino volle che uno dei capolavori della nostra letteratura del Novecento, Casa d’altri appunto, uscisse postumo per “Botteghe oscure” nel 1952, proprio l’anno in cui Silvio D'Arzo, appena trentaduenne, lasciava questo mondo che non amava, non riamato.

Illustrazione di copertina: ©"Dakar" Meli per Tobby in prigione di Silvio D’Arzo (“Biblioteca Parmigiana del Novecento”, 2003). Si ringrazia l’autore per la gentile concessione alla riproduzione della tavola.