22 marzo 2021

Alighieri, oggi e domani

«Ti amo Beatrice / Dante». Basta una scritta come questa, vista qualche tempo fa sui muri di Roma, a ricordarci quanto Dante sia presente ancora oggi nella cultura popolare. Nella nostra vita di tutti i giorni, verrebbe da dire: di sicuro, nella nostra lingua di tutti i giorni. Perché tante frasi del poema sono diventate modi di dire proverbiali, che ancora circolano nei social network: senza infamia e senza lode (nel testo: sanza infama e sanza lodo), le dolenti note, non ti curar di lor (che in realtà nel testo è: non ragioniam di lor) ma guarda e passa, fa tremar le vene e i polsi, cose che ’l tacere è bello. Ma ancor più, perché tantissime parole della nostra lingua di tutti giorni risalgono in via diretta o indiretta a quel capolavoro. «Quando Dante comincia a scrivere la Commedia», notava Tullio De Mauro, «il vocabolario fondamentale è già costituito al 60%. La Commedia lo fa proprio, lo integra, e col suo sigillo lo trasmette nei secoli fino a noi. Alla fine del Trecento l’attuale vocabolario fondamentale dell’italiano è configurato e completo all’81,5%». Se Dante non avesse scritto il suo capolavoro, insomma, l’italiano di oggi sarebbe una lingua diversa. Ecco perché diciamo di parlare la lingua di Dante. Ecco perché chiamiamo Dante «padre della lingua italiana».

La fortuna popolare di Dante comincia già nel Trecento e arriva, più di recente, fino a quell’universo culturale che chiamiamo genericamente «pop». Al punto che Dante è ormai diventato quello che si è soliti chiamare un’icona: un’icona nel senso di un simbolo legato a un immaginario condiviso. C’è il Dante simbolo dell’identità culturale italiana, la cui effigie passa dalle lire agli euro. C’è l’immagine di Dante usata già da tempo come marchio commerciale e in chiave pubblicitaria. C’è il Dante personaggio che ritorna nelle trame di libri, film, fumetti, giochi di successo. Un Dante non pedante, insomma: ancora presente con forza nella nostra vita di tutti i giorni.

 
 

Dante pop-orale

 

Diceva il grande scrittore argentino Jorge Luis Borges (per cui la Commedia era «un libro che dobbiamo tutti leggere») che «in Dante, come in Shakespeare, la musica segue le emozioni: l’intonazione e l’accento sono ciò che conta di più, ogni frase deve essere letta e viene letta ad alta voce». A dominare la tradizione popolare è in effetti – da secoli – la tradizione orale. Una dimensione alimentata dall’abitudine di leggere e spiegare in pubblico il poema, come per primo fece Boccaccio nel 1373 e come hanno continuato a fare fino ai nostri giorni – sempre con grande successo – Vittorio Sermonti o Roberto Benigni. Una dimensione legata anche all’intrinseca memorabilità e musicalità del poema, grazie alla quale molti versi sono stati cantati per secoli quasi come oggi si farebbe con una canzonetta.

Nel Trecentovelle di Franco Sacchetti (morto nel 1400) si racconta di Dante che, passeggiando per Firenze, sente prima un fabbro poi un asinaio cantare pezzi del suo libro. E tutte e due le volte si arrabbia. Col primo perché «tramestava i versi suoi, smozzicando e appiccando». Col secondo perché, «quando avea cantato un pezzo, toccava l’asino, e diceva: Arri»; «Cotesto arri non vi miss’io!», protesta il poeta indignato. Chissà cosa avrebbe detto – il caro padre Dante – sentendo Venditti e Jovanotti citare in modo diverso un suo stesso verso. «E se amor che a nullo amato amore amore mio perdona», canta il primo in Ci vorrebbe un amico (1984); e il secondo, in Serenata rap (1994): «Amor che a nullo amato amar perdona porco cane / lo scriverò sui muri e sulle metropolitane».

Il verso viene dal quinto canto dell’Inferno, quello in cui Francesca da Rimini volteggia nell’aria insieme al suo amante Paolo Malatesta. La loro storia d’amore rimane uno degli episodi più celebri del poema. In ambito musicale, ad esempio, Paolo e Francesca si ritrovano nella Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai (1914: libretto di Tito Ricordi dall’omonima tragedia di Gabriele D’Annunzio) molto prima che in Venditti e Jovanotti; e apparivano già in una canzone dei New Trolls (1972): «Tu cerchi sempre Paolo / Francesca cerca te / La storia di due anime / La storia di un perché».

Ma il loro resta pur sempre un amore adulterino, un amore al di fuori del matrimonio: e tanto bastava perché nelle edizioni scolastiche otto-novecentesche l’episodio venisse censurato. Non ne fa menzione neanche il fortunatissimo Dante dei piccoli, con cui Dino Provenzal inaugurava – esattamente un secolo fa – la tradizione dei libri che cercano di raccontare il poema ai più giovani inserendolo in una cornice narrativa.

Dantissimo

 

Gli occhiali da sole sul naso, seduto su una sdraio accanto alla sua seconda moglie, Don Draper – lo spietato protagonista della serie televisiva americana Mad man – legge in un’edizione tascabile The inferno. Un copywriter americano degli anni Sessanta che si gode il poema dantesco su una spiaggia delle Hawaii. La tradizione popolare di Dante, in effetti, attraversa tutti i generi: cinema, televisione, libri, fumetti e anche videogiochi. Una straordinaria fortuna internazionale hanno avuto – negli ultimi anni – libri come The Dante club di Matthew Pearl (2003) o Inferno di Dan Brown (2013) e proprio Dante’s Inferno s’intitola un diffusissimo videogioco uscito nel 2010 in cui Dante veste i panni di un reduce della terza crociata.

A proposito di pubblicità, e di America. «Che cos’è la gloria di Dante appresso a quella degli spaghetti?» si chiedeva nel 1957 lo scrittore Giuseppe Prezzolini, constatando che la pasta era arrivata «in moltissime case americane dove il nome di Dante non viene mai pronunziato». Ma le cose, in realtà, non stanno proprio così. In Italia e nel mondo il nome di Dante serve ed è servito anche a far vendere meglio gli spaghetti. O l’olio, o i sigari, o il vermouth, o le scarpe e persino la carta igienica. Qualcuno all’inizio se ne scandalizzava. Il 15 maggio 1865, il grande storico della letteratura Francesco De Sanctis scriveva una lettera alla moglie, raccontandole delle celebrazioni del VI centenario della nascita dell’Alighieri: «Sento cantar per via: spille di Dante a quattro soldi! Ne ho presa una, come curiosità e memoria. Hanno reso ridicolo Dante. Vendono perfino i confetti di Dante!».

Lo scandalo, ovviamente, era maggiore quando l’associazione con certi prodotti commerciali sembrava risultare particolarmente irrispettosa. Un giorno Nicola Zingarelli, fondatore del celebre vocabolario della lingua italiana, tornò a casa infuriato. In un tram di Milano aveva visto la réclame (all’epoca si diceva così) di un’acqua purgativa. L’immagine era quella di Beatrice, lo slogan ricalcava un passo del secondo canto dell’Inferno: «I’ son Beatrice che ti faccio andare». Per provare a strappargli un sorriso, il figlio – a cui dobbiamo l’aneddoto – gli fece notare che ci sarebbe stato bene anche il verso successivo: «Vegno del loco ove tornar disìo». Non servì a molto. Più utili, forse, le spiegazioni che Benedetto Croce ricordava di aver dato alle rimostranze di un alto prelato per quella stessa pubblicità: «io non potei far nulla, salvo che rispondere al degno uomo che, purtroppo, tutti i personaggi e tutte le opere famose si prestano alle parodie e alle scherzose allegorie».

La divina parodia

 

Le parodie dantesche, in effetti, sono molto frequenti già nei secoli scorsi. Testi che al tempo stesso nutrono e testimoniano una comune memoria dantesca, confermata anche dal fiorire di tutto un filone enigmistico basato sui versi della Commedia. A volte, nel nome di questa memoria, parodia ed enigmistica possono anche incrociarsi sullo stesso terreno. Nel terzo canto dell’Inferno, Dante e Virgilio sentono un tumulto di voci che proviene da un primo gruppo di spiriti (gli ignavi: quelli, appunto, che vissero «sanza ’nfamia e sanza lodo»). Al che Dante domanda: «Maestro, che è quel ch’i’ odo?». Nella celebre parodia Disney – L’inferno di Topolino, disegni di Angelo Bioletto e «verseggiatura» di Guido Martina («Topolino», 1949-50) – il testo gioca sull’equivoco tra quel «ch’i’odo» (cioè io sento, ascolto) e la parola chiodo, fingendo che ci si riferisca allo pneumatico bucato di una bicicletta. Un tipico esempio di quel gioco enigmistico che si chiama sciarada.

Dopo l’Inferno di Topolino la parodia fumettistica passa – tra l’altro – per le strisce di Jacovitti e di Marcello Toninelli (La Divina Commedia a fumetti, «Il Giornalino», 1994-1998). Ma molti sono anche i film comici d’ispirazione dantesca: da Totò all’inferno (1955) alla Solita commedia di Bigio e Mandelli (2015), senza contare gag televisive come L’inferno in 6 minuti cantato dagli Oblivion in stile Quartetto Cetra o le anacronistiche terzine dantesche di Maurizio Lastrico a Zelig, in cui gli echi letterari cozzano con la più bassa prosaicità.

A questo stesso filone possono essere ricondotte anche le raffinate parodie di Umberto Eco. Come la radiofonica intervista impossibile a Beatrice (1975), in cui lei si lamenta dell’ossessivo corteggiamento di Dante: «si è messo a fare il cascamorto. Si appostava su tutti i cantoni. Come giravo l’angolo, me lo trovavo davanti». O come i paradossali pezzi in cui Eco immagina il giudizio su Dante a un concorso universitario o quello di una casa editrice che rifiuta di pubblicare la Divina Commedia: «Il lavoro dell’Alighieri, pur essendo di un tipico autore della domenica, che nella vita corporativa è associato all’ordine dei farmacisti, dimostra indubbiamente un certo talento tecnico e un notevole “fiato” narrativo. Il lavoro – in volgare fiorentino – si compone di circa cento cantiche in terza rima e in non pochi passi si fa leggere con interesse».

 

 

Bibliografia

Alberto Casadei, Dante oltre la Commedia, Bologna, il Mulino, 2013.

Anna Maria Cotugno, Trifone Gargano, Dante pop. Romanzi Parodie Brand Canzoni, Bari, Progedit, 2017.

Stefano Lazzarin, Jérôme Dutel (a cura di), La Divina Commedia nella letteratura e nella cultura popolare contemporanea, Manziana (Roma), Vecchiarelli Editore, 2018.

Tullio De Mauro, La fabbrica delle parole, Torino, Utet libreria, 2005.

Jorge Luis Borges, Nove saggi danteschi, a cura di Tommaso Scarano, Milano, Adelphi, 2001.

Dino Provenzal, Il Dante dei piccoli, Firenze, Editrice La voce, 1921.

Giuseppe Prezzolini, Maccheroni & C., Milano, Longanesi, 1957.

Francesco De Sanctis, Epistolario (1863-1869), Torino, Einaudi,1993.

Italo Zingarelli, Prontuario della lingua selvaggia, Milano, Ceschina, 1972.

Benedetto Croce, Conversazioni critiche. Serie quinta, Bari, Laterza, 1939.

Umberto Eco, Diario minimo, Milano, Mondadori, 1975 e Secondo diario minimo, Milano Bompiani, 1992.

 

 


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