Tullio De Mauro ha lasciato un’ampia eredità che spazia dagli studi di linguistica alla lotta contro l’analfabetismo funzionale, dalla linguistica democratica all’impegno per la costruzione nel nostro Paese di un sistema di educazione degli adulti. Sempre tenendo presenti i principi fondamentali della nostra Costituzione.

A margine di questo suo fondamentale contributo, De Mauro ci ha lasciato anche alcune intuizioni che parlano ancora alla scuola di oggi.

In una intervista rilasciata al Corriere della Sera il 3 settembre 2016, dopo l’approvazione della discussa e discutibile Buona scuola, De Mauro argomentava quanto segue: «sarebbe, anzi è assolutamente necessario che l’Italia attivi, come fanno altri Paesi e come da anni ci chiede con insistenza l’Ocse, un sistema organico di educazione degli adulti che svolga le sue attività negli istituti scolastici, nei due terzi della giornata in cui sono un mausoleo vuoto e devono invece diventare, come è stato detto, “fabbriche della cultura”. Le condizioni della popolazione adulta italiana, in cui assai più di due terzi hanno difficoltà a leggere un qualunque testo scritto, non possono non riflettersi su ragazze e ragazzi e ostacolare gravemente il lavoro della scuola, oltre che pesare negativamente sull’intera vita sociale».

Un salto nella crescita

Quell’accenno alle scuole come possibili “fabbriche della cultura”, quasi una olivettiana immagine di una scuola che diventa comunità aperta tutto il giorno e tutto l’anno, sembrava dunque a De Mauro la strada giusta per contrastare l’analfabetismo di ritorno degli adulti e l’insopportabile dispersione scolastica che ancora oggi segna il nostro sistema scolastico. Eppure De Mauro, che sempre commentava e studiava gli esiti delle diverse inchieste internazionali sulle competenze di adulti ed adolescenti, ricordava come «i bambini delle scuole dell’infanzia e delle elementari hanno avuto finora, e dagli anni ‘80, una delle migliori scuole del mondo».

Dunque anche i figli dei ceti sociali più disagiati vivono l’opportunità straordinaria di fare un salto nella loro crescita; certo che risentono del condizionamento ambientale e familiare ma l’incontro con la scuola (infanzia ed elementare), può essere in grado in grado di rovesciare quel destino. Del resto, lo abbiamo imparato dalla nostra stessa vita, gli incontri pesano assai più del condizionamento della nostra famiglia d’origine. Ma allora come mai, a partire dalla scuola media, il quadro diventa così preoccupante?

Un ripensamento radicale

La risposta di Tullio De Mauro contiene a mio parere un’indicazione politica, culturale e professionale di grande significato e di grande attualità. Tullio avrebbe potuto benissimo snocciolare l’elenco ben noto e del tutto ancora attuale di quanto ancora necessario alla politica scolastica: più investimenti, più risorse, organici, formazione, leggi non fatte, ecc.

Tullio invece afferma che per avere insegnanti delle medie e superiori più preparati occorre, e lo ripete per ben tre volte, un “radicale ripensamento” della formazione iniziale e in servizio, dei contenuti didattici e dei modi di «farne oggetto di reale e durevole apprendimento».

Con Tullio, si sa, contano le parole ed esse meritano una annotazione.

“Radicale” sta per profondo, di rottura, di nuovo significato.

Il “ripensamento” (da parte dei docenti, sotteso) indica la necessità di un movimento professionale che faccia della riflessività sul proprio lavoro la ragione delle responsabilità da assumere nello svolgimento della professione. Questo “radicale ripensamento” sul contenuto dell’insegnamento e sulle pratiche didattiche indica due versanti precisi di intervento. Il primo chiama in causa quello che ancora oggi indichiamo come “obbligo scolastico”. Tullio invita a riflettere sul fatto che la piattaforma di saperi che ha informato la struttura della scuola media e dell’obbligo scolastico è divenuta anacronistica per effetto delle grandi trasformazioni di questo ventennio (rivoluzione tecnologica, l’industria 4.0, ecc.). Urge quindi definire il nuovo quadro di conoscenze e competenze per il cittadino del nostro tempo. E a questo obiettivo deve concorrere tutta la società, dalle istituzioni formative alle organizzazioni sociali. Un’occasione anche per fare il punto su un obbligo che si conclude a 16 anni ma all’interno di un istituto secondario che già segna l’indirizzo del ciclo secondario, mentre resta un esame, e del tutto impegnativo, per la conclusione della terza media. Insomma un bel problema tutto da ridefinire.

La scuola elementare italiana

Ma il messaggio più impegnativo per i docenti è riflettere su che cosa abbia consentito alla scuola elementare di diventare la scuola migliore del mondo, senza il ricorso a grandi leggi e minuziose indicazioni ministeriali.

Su questo punto specifico non ho ritrovato analisi dettagliate da parte di De Mauro. Noi abbiamo tuttavia a disposizione un grande patrimonio di ricerche, studi ed esperienze del movimento che ha determinato quel grande cambiamento e ha aperto lo scenario delle più importanti leggi sul sistema di istruzione (i decreti delegati del 1973, la legge 517/77, la legge Bassanini e l’avvio dell’autonomia scolastica). È la grande esperienza e sperimentazione didattica realizzata nel nostro paese dalle scuole a tempo pieno dalla metà degli anni ‘70 che giunge ad investire tutta la scuola elementare fino a mutarne anche il profilo istituzionale agli inizi degli anni ’90.

Quel grande movimento di “ripensamento radicale” ci ha tramandato alcuni principi fondamentali di natura pedagogica ed organizzativa che meritano di essere ripresi.

- L’apprendimento è un processo sociale: è lo stare insieme dei bambini, è il lavorare insieme degli insegnanti. Con il tempo pieno si afferma il lavoro per team, la programmazione didattica e la valutazione condivisa, il superamento delle discipline e degli orari rigidi della scuola “corta”.

- Il tempo è una variabile di democrazia: un tempo pieno di cura per i bambini, di attività, di vita nella scuola e nel territorio. È il passaggio dall’io al noi, è il tempo della scuola che si apre al mondo; non è lo spazio per occupare la scuola strumentalmente come supermarket dei servizi a domanda;

- I bambini incontrano situazioni, problemi, non le discipline. Gli insegnanti praticano le discipline decidendo, di volta in volta, quanto di ciascuna disciplina serve per risolvere quella situazione concreta. La motivazione è la leva dell’apprendimento, non la competizione.

- Le discipline pertanto dialogano tra loro e si incrociano, se gli insegnanti dialogano tra loro e lavorano insieme ed insieme valutano l’efficacia del loro lavoro e il processo di crescita dei bambini; l’individualismo della scuola gentiliana tutto insegnamento individuale, lezione, cattedra, compito-interrogazione-voto è messo in soffitta.

- E infine, il messaggio forse più eversivo per la scuola secondaria: non c’è un solo modo di apprendere (e di insegnare), per questo l’aula e la lezione non sono sufficienti. Cento linguaggi, gridava Malaguzzi parlando di bambini, le intelligenze multiple, ci ha insegnato Gardner, ed ancora gli atelier di Freinet, le nuove tecniche di Bruno Ciari, i laboratori di Mario Lodi. Il cuore di questo problema riguarda anche gli adolescenti.

Il sapere e il fare

Se differenziamo le modalità di apprendimento/insegnamento, ogni giovane troverà la strada per esprimere il meglio di sé. E allora il territorio diventa una grande aula didattica piena di luoghi, persone, eventi ed esperienze tutte da leggere ed indagare; l’ambiente diventa il palcoscenico per conoscere la natura e la responsabilità delle persone per l’equilibrio ecologico; la storia si presenta come lo strumento fondamentale per comprendere il proprio posto nel mondo e il futuro possibile. In tutte queste dimensioni, il lavoro è sempre presente come dimensione del fare in cui la mano e la mente sono inseparabili. Il lavoro pervade ogni ambito sociale, come pervade la vita delle persone e ne segna il rapporto con gli altri, con la società. In sostanza, istruzione e formazione sono integrati perché il primo sistema integrato è la persona.

Non a caso la nostra Costituzione mette al centro dei suoi principi e valori fondamentali la persona, l’istruzione e la formazione dei lavoratori (art. 35).

Un’educazione linguistica democratica

L’aspetto controverso del nostro sistema è che questo “radicale ripensamento” su cui riflette De Mauro si è fermato al termine della scuola elementare ed è mancata in questi anni una seria sperimentazione e altrettanto rigorosa ricerca, per tentare di praticare anche nella scuola secondaria, di primo e secondo grado, quei principi.

Anche per queste ragioni la cura che Tullio riserva alla scelta delle parole è sorprendente. Le parole, ha scritto, sono “fatti politicamente rilevanti”. Dietro le carenze del linguaggio si celano le carenze del pensiero. Siamo “ciò che parliamo”, sembra dirci Tullio con quella sua ostinazione per una educazione linguistica democratica da lui perseguita fin dai primi anni ’70. Una passione che nasceva da lontano (così ricorda in Parole di giorni lontani), da una precoce curiosità verso quel librone di nome vocabolario: uno scrigno pieno di parole e significati. Una curiosità che talvolta Tullio ha ricordato evocando un altro appassionato di vocabolario. Si trattava di un ragazzotto pugliese che, oltre cento anni fa, acquistava da un ambulante, con poco più di una lira e la sua giacca sdrucita, un vecchio vocabolario. «Quel ragazzotto», ha scritto Tullio De Mauro, «si chiamava Peppino, all’anagrafe, Giuseppe Di Vittorio».