Di «linguaggi», «discorsi», «parole d’odio» – o, per usare l’originaria locuzione inglese, di «hate speech» – sentiamo parlare ormai quasi tutti i giorni. Purtroppo.

Ne sentiamo parlare in relazione alle tante, troppe notizie di cronaca che riportano aggressioni – verbali e fisiche, ai danni di individui o gruppi di persone – causate da razzismo, omo-lesbo-transfobia, misoginia, antisemitismo, islamofobia. O da una serie di altri motivi come la diversa nazionalità, la disabilità, l’età, ecc. Motivi che, agli occhi degli aggressori, possono giustificare umiliazioni, violenze, discriminazioni.

Ne sentiamo parlare ancor più spesso quando insulti, offese, minacce vengono arrecati – e ricevuti – a mezzo social. Non di rado, in quantità e qualità tale da produrre vere e proprie «tempeste» d’odio: rende bene l’idea se le chiamiamo shitstorm.

Sentiamo così frequentemente parlare di linguaggi, discorsi, parole d’odio, hate speech da pensare (anzi, temere) che si tratti ormai di un fenomeno connaturato, complementare alla comunicazione quotidiana. A vari livelli: dalla comunicazione privata a quella pubblica, dalla comunicazione «mediatizzata» a quella istituzionale. E non è che ne sentiamo soltanto parlare, come se la cosa non ci riguardasse. Possiamo esserne noi (casualmente) le vittime, quando non (deliberatamente) gli artefici.1

Tuttavia, se dovessimo dire esattamente che cosa intendiamo con linguaggio, discorsi, parole d’odio o hate speech, probabilmente dovremmo rifletterci un po’. Non per mancanza di esempi. Ma perché – è il paradosso notato da Andrew Sellars, ricercatore dell’università di Harvard – la gamma di sentimenti, stati d’animo e reazioni che queste locuzioni e le forme con cui si articolano suscitano in ognuna o ognuno di noi è così ampia e diversificata da sfuggire a una definizione sola, capace di accontentare tutte e tutti.

Non che le definizioni manchino. Se ne trovano anzi molte, diverse. Ma nessuna sembra apparire esaustiva, completa, rigorosa. «Tutti deplorano le condotte espressive [di hate speech] – è la provocazione del filosofo del diritto Gianmarco Gometz ricordata da Raffaella Petrilli nel suo contributo a questo speciale – ma nessuno sa esattamente quali siano, dato l’inusitato grado di genericità e vaghezza che contraddistingue ciascuna delle sue varie definizioni».

«Basta osservare le definizioni di hate speech in circolazione – rimarca Petrilli nel suo articolo – per constatare che soffrono dei due limiti della circolarità e dell’empiricità. La prima consiste nell’errore di definire qualcosa... usando come definizione... quello stesso qualcosa. L’empiricità entra in gioco invece quando la definizione si riduce a un elenco di casi concreti, si tratti poi di elenchi dei contenuti d’odio già registrati dalla cronaca o dalla storia; dei mezzi di comunicazione usati per la diffusione; o delle forme linguistiche ritenute incitamento all’odio».

E in effetti è difficile sfuggire a questa sensazione. Prendiamo la definizione di hate speech del dizionario online Treccani, ad esempio: «Nell’àmbito dei nuovi media e di Internet, espressione di odio e incitamento all’odio di tipo razzista, tramite discorsi, slogan e insulti violenti, rivolti contro individui, specialmente se noti o famosi, o intere fasce di popolazione (stranieri e immigrati, donne, persone di colore, omosessuali, credenti di altre religioni, disabili, ecc.)».

Si tratta di una definizione chiara, concisa, foriera di domande in attesa di risposta. Fino a che punto è un fenomeno, quello dell’hate speech, che si può restringere ai nuovi media e a Internet? Che cosa si intende esattamente per «espressioni», o «discorsi»? Quali sono le loro forme linguistiche? Ancora: qual è – o dovrebbe essere – la differenza tra «espressioni d’odio» e «incitamento all’odio»? E quali sono le dinamiche della loro produzione e diffusione? Quali i diversi effetti, da parte di chi li riceve?

Certo, la definizione è presa da un dizionario della lingua redatto per un pubblico eterogeneo, non da un trattato. Le cose non cambiano di molto se prendiamo definizioni più specifiche – o almeno con l’ambizione di esserlo – tratte da documenti dedicati espressamente al tema, come la Raccomandazione sull’hate speech del Consiglio dei Ministri del Consiglio d’Europa n. 20 del 1997: «il termine “discorso d’odio (hate speech)” deve essere inteso come l’insieme di tutte le forme di espressione che si diffondono, incitano, sviluppano o giustificano l’odio razziale, la xenofobia, l’antisemitismo ed altre forme di odio basate sull’intolleranza e che comprendono l’intolleranza espressa attraverso un aggressivo nazionalismo ed etnocentrismo, la discriminazione l’ostilità contro le minoranze, i migranti ed i popoli che traggono origine dai flussi migratori». O come la Raccomandazione di politica generale n. 15 della Commissione contro il razzismo e l’intolleranza del Consiglio d’Europa (ECRI), del 21 marzo 2016, che definisce l’hate speech come «l’istigazione, la promozione o l’incitamento alla denigrazione, all’odio o alla diffamazione nei confronti di una persona o di un gruppo di persone, o il fatto di sottoporre a soprusi, molestie, insulti, stereotipi negativi, stigmatizzazione o minacce tale persona o gruppo, e comprende la giustificazione di queste varie forme di espressione, fondata su una serie di motivi, quali la “razza”, il colore, la lingua, la religione o le convinzioni, la nazionalità o l’origine nazionale o etnica, nonché l’ascendenza, l’età, la disabilità, il sesso, l’identità di genere, l’orientamento sessuale e ogni altra caratteristica o situazione personale».

L’ampliarsi delle definizioni non equivale necessariamente a chiarezza o esaustività. E infatti, i punti interrogativi non mancano. Solo per fare qualche esempio: quali «forme d’espressione» devono rientrare nella definizione? Quelle che vi rientrano – insulti, stereotipi, minacce, ecc. – sono formalmente e pragmaticamente comparabili? La «serie di motivi» è una serie chiusa o aperta? Devono trovare spazio indicazioni legate al mezzo di diffusione e alle sue caratteristiche? O relative all’impatto che l’hate speech – a seconda della tipologia e della frequenza delle sue espressioni – può avere su chi lo subisce? Come far rientrare i diversi gradi di responsabilità di chi produce hate speech o lo diffonde?2

E ancora: a chi deve essere utile una definizione di hate speech? Ai parlanti in genere? Settorialmente, alla giurisprudenza, che deve tentare di tradurla in norme – civili o penali – che stabiliscano fattispecie di reato e condanne precise? Alle ‘vittime’, sul piano delle tutele e dei diritti? A soggetti collettivi, per una maggiore consapevolezza e comprensione del fenomeno? Ai governi, per l’attuazione di misure di prevenzione e contrasto? A vecchi e nuovi media, che devono – dovrebbero – dotarsi di codici di condotta e policy specifiche?

Detta altrimenti: quante variabili dovrebbero essere prese in considerazione relativamente alle forme, ai motivi, ai canali di produzione e diffusione, allo spazio (pubblico o privato), agli attori coinvolti, alle responsabilità, al danno arrecato, alle misure?

Per riferirci infine al solo piano del linguaggio: è possibile riconoscere l’hate speech dalla sua forma linguistica?

Una strategia discorsiva?

Proprio per tentare di rispondere ad alcune di queste domande è nato questo «Speciale» per la pagina di «Lingua italiana» del portale Treccani. E proprio dall’ultima domanda prende spunto l’articolo La strategia pubblica dell’odio di Raffaella Petrilli. Sulle forme linguistiche dell’hate speech, tanto quelle esplicite, quanto quelle più implicite – nella loro monografia Caterina Ferrini e Orlando Paris parlano a ragione di «odio velato»3 – si è molto indagato in anni recenti, non solo in Italia (per una visione d’insieme, rimando al mio #Odio. Manuale di resistenza alla violenza delle parole, UTET, 2020, pp. 145-190), scoprendo che gli appellattivi ingiuriosi (le cosiddette hate words o «parole per ferire», per citare un noto articolo di Tullio De Mauro) non sono che la punta dell’iceberg. Ad essi infatti si aggiungono – solo per fare alcuni esempi – crittografie, slogan, metafore deumanizzanti, implicature e presupposizioni, argomentazioni fallaci. Un materiale eterogeneo capace di aggirare le censure, di sfuggire alle maglie sempre più strette degli algoritmi, di camuffare il discorso d’odio rendendolo meno esplicito. Ma anche di difficile sistematizzazione. A meno che non lo si osservi all’interno di una struttura ricorrente: se non sul piano testuale almeno su quello pragmatico.

L’intuizione di fondo – scrive Petrilli – è che l’hate speech «costituisca una ben precisa strategia discorsiva in azione nello spazio pubblico democratico, le cui caratteristiche linguistiche sono di natura pragmatica, ovvero riguardino il modo in cui il parlante hater assegna un ruolo discorsivo all’ “odiato”... sottraendogli il ruolo di interlocutore (tu) per confinarlo nel ruolo di “persona al di fuori della relazione di interlocuzione” (lei, lui)». In sostanza, incitando alla “rottura” del normale rapporto dialogico con l’altro, «respingendolo nella posizione del “muto”».

L’obiettivo è quello di evidenziare strutture linguistiche soggiacenti alle loro diverse possibili realizzazioni: strutture pragmatiche di incitamento all’odio, le cui componenti concorrono «a realizzare la contrapposizione tra un parlante, valorizzato in positivo, e una ‘terza persona’ la cui connotazione negativa fonda la richiesta di espungerlo dal piano della discussione pubblica». Che è poi uno degli obiettivi perseguiti dalle persone hater: ridurre l’altro al silenzio, negandogli visibilità, agentività, e in ultima analisi diritti.

Se questa analisi sembra efficace in relazione allo spazio pubblico, resta ancora in gran parte da studiare, tuttavia, l’impatto cognitivo che il discorso d’odio ha sulle sue ‘vittime’, sia dirette – i target primari di hate speech – sia indirette – i gruppi cui le ‘vittime’ appartengono.4 Quali danni produce alla ‘vittima’ e alle ‘vittime’ l’hate speech nel breve, medio, lungo periodo non solo circa la (osteggiata) partecipazione al dibattito pubblico, ma anche sul piano psicologico, individuale e collettivo? Fino a che punto possono servire gli studi sull’insulto di Timothy Jay – laddove sostiene che la carica offensiva di un termine dipende dai fattori contestuali dello status del parlante, del luogo di produzione, e del potere detenuto dal parlante in quel luogo – o quelli di Steven Pinker sulle imprecazioni, governate «da quelle stesse aree del cervello che gestiscono fenomeni di basso livello come le emozioni o le funzioni corporee»?5

Ancora: esiste una gradualità del danno a seconda dell’espressione linguistica, del contesto, della frequenza con cui si viene aggrediti? Un’ingiuria ferisce più di una minaccia? Una calunnia rivolta a un gruppo («gli X sono tutti ladri!») quali conseguenze ha – sul piano cognitivo – sui singoli individui di quel gruppo? E di contro, la violenza su un individuo quali limitazioni (di movimento, di espressione, di pensiero, ecc.) pone alla comunità o il gruppo di cui quell’individuo fa parte?

La ricerca dimostra che se anche non lasciano lividi o fratture, i discorsi d’odio possono lasciare ferite profonde: dalla perdita di autostima, allo stress post-traumatico, da un senso di frustrazione a forme depressive.6 Chi dice che «si tratta solo di parole», evidentemente, non ha mai provato davvero l’hate speech sulla propria pelle. Anzi, sulla propria psiche.

Tra diritto e semantica: effetti dell’intreccio di ingiurie

La materia è complessa. E molti nodi, anche concettuali, restano ancora da sciogliere. Come il nodo sull’hate speech «intersezionale», su cui si interroga Barbara Giovanna Bello nel suo contributo. L’odio – spiega Bello – non viene espresso «a compartimenti stagni», ma spesso incrocia, colpendole, diverse categorie e motivazioni (nazionalità, colore della pelle, religione, etnia. Non è un caso che «l’immagine che ha ispirato questo neologismo [intersezionalità] è l’incrocio stradale... Se pensiamo a una persona situata al centro di un incrocio e ipotizziamo che il veicolo proveniente da ogni strada che vi converge sia una categoria dell’identità, allora si può desumere che gli incidenti (discriminazioni, oppressioni, discorsi d’odio) causati simultaneamente da più vetture al centro dell’incrocio siano qualitativamente diversi da quelli prodotti da un veicolo alla volta».

«Ti odio perché sei donna, perché sei nera, o perché sei una donna nera?» – si chiede provocatoriamente Bello, riprendendo gli studi pioneristici di Kimberlé Crenshaw. E quindi, sul piano delle tutele, «ti difendo perché sei donna, perché sei nera, o perché sei una donna nera?». L’intersezionalità, scrive Bello, va affrontata prima di tutto sul terreno legislativo: «se l’odio non si manifesta sempre a compartimenti stagni, allora anche il diritto dovrebbe equipaggiarsi di strumenti adeguati a prevenire e contrastare le espressioni specifiche lesive delle persone offese dal reato, senza costringerle a strapparsi pezzi di identità nello scegliere sulla base di quale categoria sporgere denuncia». Ma andrebbe approfondita anche sul piano linguistico-semantico. Perché – per citare ancora i lavori di Kimberlé Crenshal7 – la discriminazione causata da più caratteristiche simultaneamente è qualitativamente diversa da quella causata da una caratteristica alla volta. E l’impressione è che in un epiteto come «viziata comunista tedesca», che nel luglio 2019 Matteo Salvini era solito rivolgere a Carola Rackete8, l’efficacia dell’ingiuria sia data dalla somma dei tre elementi, le cui connotazioni negative si potenziano proprio in ragione della loro co-collocazione, stabilendo un legame tra le tre caratteristiche richiamate (la classe sociale, l’appartenenza politica, la nazionalità) che agli occhi del lettore – e delle migliaia di commentatori al post – rendono il bersaglio ancora più odioso.

Controparola, contronarrazione e aikido

Sulla necessità di indagare in profondità gli atti linguistici e i loro effetti anche per poter valutare l’adeguatezza degli strumenti giuridici e delle risposte sociali si sofferma anche Corrado Fumagalli nel suo articolo. «Il discorso d’odio, perché abbia gli effetti sperati – spiega Fumagalli – deve poggiare su un terreno comune intollerante composto di presupposizioni implicite ed esplicite. Se però l’hate speech è ben piantato in questo terreno, le sanzioni, adatte a colpire solo il parlante, si rivelano quasi innocue». Lo stato tuttavia – prosegue l’autore – non è solo sanzionatorio. Dispone di mezzi necessari per attivare programmi di educazione civica e celebrare gli eroi della tolleranza. Può assistere le vittime dell’hate speech. Può soprattutto fornire dei modelli, incidere sulla consapevolezza dei cittadini, lavorare per attenuare diseguaglianze profonde sul piano materiale e dei diritti umani. Ma questo richiede tempo, risorse, e una visione di largo respiro.

«Gli effetti nocivi del discorso di incitamento all’odio sulla sfera pubblica non si possono cancellare con una bella passata di bianco». Né – prosegue Fumagalli – sono sufficienti tentativi di blocking: quando aspre disuguaglianze condizionano l’accesso al sapere, esporre fatti e vizi di ragionamento difficilmente attenua gli effetti dell’hate speech. Questo perché ci sono parole o modi di dire ripetuti quasi meccanicamente che condizionano scambi e interazioni a tutti i livelli fino a comporre un vero e proprio «rumore di fondo», pervasivo e difficilmente ignorabile.

Quanto efficaci possono essere allora, in questo contesto, le azioni di «controparola»?

Quanto serve, ad esempio, una contronarrazione che partendo da un titolo di giornale come «C’è poco da stare allegri. Calano fatturato e PIL ma aumentano i gay» («Libero», 23 gennaio 2019) produca – col rischio di rilanciare il testo di partenza, senza peraltro arrivare ai suoi lettori – un messaggio come «C’è poco da stare allegri. Calano fatturato e PIL ma aumenta l’omofobia», come si fece – e fui coinvolto anch’io, in quel tentativo – per far emergere tutta la portata omofobica della titolazione del quotidiano?

La contronarrazione – lo suggerisce efficacemente Gianrico Carofiglio nel suo ultimo libro Della gentilezza e del coraggio – è un po’ come l’aikido: permette di combattere l’avversario (in questo caso chiunque produca discorso d’odio) con le sue stesse mosse, le sue stesse parole. Insegna la resilienza: la capacità di adattarsi alle situazioni volgendole in proprio favore. Ma anche nell’aikido, come in tutte le discipline, per vincere bisogna conoscere la tecnica giusta. Fuor di metafora, la resilienza è tanto più efficace quanto più si è consapevoli dei propri mezzi, e dei limiti dell’avversario.

Ma se a mancare è proprio questa consapevolezza?

Se la consapevolezza dei propri diritti, dei propri mezzi linguistici ed espressivi, degli strumenti digitali che si stanno utilizzando non fosse ancora patrimonio di tuttƏ?

Racconta Flavio Alivernini ne La grande nemica (People, 2019), a proposito delle denunce di Laura Boldrini a carico dei suoi hater, che molte delle persone che avevano oltraggiato l’ex presidente della Camera sui social media, denunciate pubblicamente e messe di fronte alla gravità dei fatti, si mostravano fragili, incredule, sostenendo che mai avrebbero pensato di causare tanto danno, e che avevano scritto quei messaggi come sfogo personale, accessibile solo da pochi amici, ignare della portata delle loro azioni. Emergeva chiaramente la loro scarsa consapevolezza dei mezzi: linguistici, certo, ma anche tecnologici.

Proprio alla necessità di educare ed educarsi all’uso dei media richiama Alessandra Vitullo nel suo articolo.

La media education – e in particolare la corretta fruizione e produzione di contenuti online, soprattutto tra i più giovani – è al centro delle politiche della Unione Europea dal 2017, dalla pubblicazione del DigComp 2.1: The Digital Competence Framework for Citizens: un documento che ha l’obiettivo di standardizzare le competenze digitali e di uniformare gli strumenti per acquisirle. Ma nessuna proposta, per quanto buona, funziona se non viene adeguatamente sostenuta.

«Una società digitale realmente inclusiva per tutte e tutti – scrive a ragione Vitullo – deve tener conto anche di un’alfabetizzazione digitale che passi attraverso incentivi per la qualità dell’istruzione e della formazione in generale, policy di supporto alle famiglie che risultano maggiormente in affanno nel seguire la piena crescita e lo sviluppo armonioso del nucleo familiare, e tutti quei provvedimenti necessari per consentire anche a chi risulta più in difficoltà di apprendere e utilizzare tutte le risorse delle TIC. Servono quindi politiche parallele a quelle indirizzate alla mera erogazione di tecnologie, che vadano a colmare le lacune riguardo l’uso responsabile e critico di queste ultime da parte di studenti e familiari. La scuola è sicuramente uno di quei luoghi in cui questo spazio può essere ricavato, e la recente introduzione dell’educazione civica, che presenta anche una parte specifica sull’educazione civica digitale, è sicuramente un’importante opportunità in questo senso».

Educazione linguistica, educazione civica, educazione digitale, educazione alla cittadinanza inclusiva: un progetto articolato, a partire dalla scuola, per contrastare l’hate speech sul terreno della consapevolezza e della conoscenza, prima ancora che su quello giuridico. Serve tempo, però, e servono scelte chiare da parte di tutti gli attori coinvolti: lo stato, studenti e insegnanti, le famiglie. Senza dimenticare – tra gli altri – chi lavora nell’informazione, e le forze politiche, che devono essere in grado di generare modelli virtuosi e non, invece, fare da cassa di risonanza a quel meccanico, pervasivo rumore di fondo. Ed è centrale il ruolo delle piattaforme, dei social media provider.9 Senza un loro intervento deciso, e una ferma condivisione di responsabilità nel prevenire la diffusione di hate speech online rimuovendone i contenuti chiaramente illegali, o nell’assistere gli utenti rendendo tracciabili le loro segnalazioni, o nell’adeguare i loro codici di condotta per il pieno rispetto non soltanto degli standard aziendali ma anche dei diritti umani, molti sforzi lasceranno il tempo che trovano.

L’hate speech – non solo online – è tema complesso, che richiede monitoraggi e analisi costanti per consentire una visione complessiva delle forme linguistiche in cui si articola, della percezione delle persone che ne vengono colpite, del quadro giuridico in cui deve essere collocato – in delicato equilibrio tra norme che tutelino la libertà di espressione e norme che contrastino la discriminazione e l’esclusione – dei processi cognitivi che attiva e condiziona, degli attori che coinvolge, delle misure di breve, medio e lungo periodo che richiede. Molto, per fortuna, sappiamo già, stiamo già facendo (come dimostra anche la creazione di una Rete nazionale per il contrasto ai discorsi e ai fenomeni d’odio, di cui fanno parte alcune delle persone che hanno contribuito a questo «Speciale»). Ma molto ancora resta da scoprire, da approfondire: a partire dal linguaggio, come si è cercato di dimostrare anche qui.

Tra tante domande, affiora però la certezza che il lavoro da fare non sia soltanto ingente, ma anche piuttosto urgente, se è vero che la proliferazione del discorso d’odio sta condizionando, in maniera crescente, parte del dibattito pubblico e politico, riducendo gli spazi e le occasioni di dialogo e confronto civile, generando diffusi fenomeni di esclusione, discriminazione, violenza (non solo verbale). Già condividere questa urgenza sarebbe, credo, un ottimo punto di partenza.

Note

1 Cfr. Vera Gheno, Se gli hater siamo (anche) noi: gli errori comuni su social e giornali, «Agenda digitale», 16 luglio 2020.

2 Cfr. Federico Faloppa, #Odio. Manuale di resistenza alla violenza delle parole, UTET, 2020, pp. 23-33.

3 Caterina Ferrini e Orlando Paris, I discorsi dell’odio. Razzismo e retoriche xenofobe sui social, Carocci, 2019.

4 Sul concetto e sulle tipologie di ‘vittima’, in relazione all’hate speech, rimando ancora a Faloppa, #Odio, cit., pp. 219 sgg.

5 Cfr. Filippo Domeneschi, Insultare gli altri, Einaudi, 2020, pp. 64; 67.

6 Cfr. Faloppa, #Odio, cit., pp. 23-33.

7 A cominciare dal fondamentale Demarginalizing the Intersection of Race and Sex: A Black Feminist Critique of Antidiscrimination Doctrine, Feminist Theory and Antiracist Politics, «The University of Chicago Legal Forum», Vol. 1989, Issue 1, pp. 139-67.

8 Cfr. ad esempio: «La nuova eroina della sinistra è stata interrogata per quattro ore...Ci sarà un giudice che almeno stavolta farà rispettare le leggi, la sicurezza e la dignità del nostro Paese? Io non vedo l’ora di espellere questa viziata comunista tedesca e rimandarla a casa sua» (Matteo Salvini, post su Facebook, 19 luglio 2019).

9 Cfr. l’eccellente punto di partenza, sull’argomento, fornito da Article 19, Self-regulation and ‘hate speech’ of social media platform, 2018.

Immagine: Screenshot dal film d’animazione Robin Hood (1973)