È vero, la sanzione già c’è e non funziona, lo Stato parla e pochi ascoltano, e la replica al portatore d’odio è rapida e imperfetta. Intanto gli effetti del discorso d’odio perdurano, il campionario di stereotipi rimane, e aumenta l’osmosi tra linguaggio e comportamento razzista. Su questo sfondo, dove peraltro schiere di cittadini-utenti possono diffondere risentimento e rancore, come possiamo comprendere un problema, quello dell’efficacia delle risposte al discorso d’odio, e quindi, come rispondere alla domanda, in che modo prevenire l’offensiva della retorica razzista e intollerante?
Nella maggior parte degli orientamenti giuridici occidentali il discorso di incitamento all’odio viene considerato un reato e quindi sanzionabile dalla legge attraverso regolamentazioni in materia di gestione dello spazio pubblico, diffamazione, stigmatizzazione, incitamento all’odio, minacce all’ordine pubblico, rifiuto o negazione di genocidi o crimini contro l’umanità, tutela della dignità, violazione dei diritti umani e crimini d’odio.
I limiti dell’approccio punitivo
Da sempre l’approccio punitivo pone problemi di compatibilità con il diritto alla libertà di espressione, uno dei cardini delle società liberali e democratiche (per un’introduzione a questi problemi rimando al pregevole Hate Speech Law: A Philosophical Examination di Alexander Brown). Penalizzare il discorso d’odio equivale a ridurre le opportunità di discussione, viola il principio di neutralità e, come metteva in guardia Alexander Meiklejohn nel suo Free Speech and Its Relation to Self-government (1948), guasta la legittimità delle istituzioni democratiche. Nell’ultimo decennio questa diffidenza verso la giustificabilità normativa dei limiti alla libertà d’espressione ha indotto a cercare delle soluzioni alternative. Si guarda dunque con attenzione al counterspeech (la controparola). Dello Stato, delle associazioni o dei comuni cittadini, la controparola comprende qualsiasi tipo di risposta che, senza ricorrere a sanzioni o pene, tenta di moderare, bloccare o delimitare gli effetti del discorso d’odio.
Lasciamo però da parte le dispute di carattere normativo per considerare un altro punto della questione. Un occhio in più sul funzionamento del linguaggio aiuta infatti a comprendere cosa sia meglio fare quando l’obiettivo è quello di limitare la diffusione di idee intolleranti in una società, come la nostra, dove ogni membro dovrebbe meritare rispetto e godere di uguali diritti.
Iniziamo dalle sanzioni. Spesso si difende il rigore come strumento per prevenire sofferenze psico-fisiche o per garantire la dignità individuale nella sfera pubblica. Tuttavia, i procedimenti giudiziari, ricordiamo, per esempio, la querelle Dieudonné in Francia, finiscono per dare visibilità alle idee razziste e trasformano gli intolleranti in martiri della libertà d’espressione. Poi, aggiunge ancora qualcuno, se guardiamo meglio alla pragmatica del discorso d’odio, non c’è legge che tenga. Il discorso d’odio, perché abbia gli effetti sperati, deve poggiare su un terreno comune intollerante composto di presupposizioni implicite ed esplicite. Se però l’hate speech è ben piantato in questo terreno, le sanzioni, adatte a colpire solo il parlante, si rivelano quasi innocue. E così, pur in un ambiente puntellato da restrizioni e divieti, il discorso d’odio continua a fluire. Per esempio, in Australia, dove da tempo sono previste sanzioni per i portatori d’odio, si è registrato, come ricordano Katharine Gelber e Luke McNamara, un aumento significativo delle molestie verbali tra il 1998 e il 2011.
Il potere espressivo delle istituzioni liberali e democratiche
Lo Stato non è solo potenza sanzionatoria. Al di là delle limitazioni alla libertà d’espressione, dispone dei mezzi necessari ad attivare programmi di educazione civica e celebrare gli eroi della tolleranza. Può avvalersi di rappresentanti dall’alto calibro morale, e, più in generale, ha la facoltà di costruire un’identità collettiva sui valori del rispetto, dell’uguaglianza e della libertà. Sullo sfondo di queste proposte si trova la medesima convinzione: le istituzioni liberali e democratiche, pur lasciando libero il discorso pubblico, devono plasmare un ambiente inospitale all’hate speech e, di volta in volta, ribattere ai portatori d’odio. Ancora più nel dettaglio, lo Stato, scrive Gelber in Speaking Back, potrebbe assistere le vittime dell’hate speech nella realizzazione di video e brevi sceneggiati, nell’organizzazione di laboratori e nella scrittura di comunicati pubblici. Nel suo When the State Speaks, What Should It Say?: How Democracies Can Protect Expression and Promote Equality Corey Brettschneider, teorico politico statunitense e una delle voci più autorevoli nel dibattito contemporaneo sulla controparola, pone l’accento sul potere espressivo delle istituzioni liberali e democratiche. Queste, nel comunicare decisioni e verdetti, dovrebbero spiegare e ribadire gli ideali di uguaglianza e libertà.
Tutto molto plausibile, se non fosse che, come avverte Maxime Lepoutre (Journal of Ethics and Social Philosophy, 2019), la giustificazione di queste politiche dipende da una concezione ingenua degli atti linguistici. In realtà, gli effetti nocivi del discorso d’incitamento all’odio sulla sfera pubblica non si possono cancellare con una bella passata di bianco. Le istituzioni liberali e democratiche, continua Lepoutre, godono inoltre dell’impareggiabile capacità di determinare i temi centrali del discorso pubblico. Davanti a enunciati come «Campi nomadi … Foeura di ball» lo Stato, nei suoi tentativi di attenuare la forza delle espressioni odiose, magari disconoscendo idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o ribadendo i diritti fondamentali della persona, proprio in virtù del suo ineguagliabile potere discorsivo, funge da cassa di risonanza.
In verità, quasi tutti gli enunciati possono alterare l’equilibrio di una conversazione e influenzare lo scambio tra le parti. Vengono subito alla mente i casi in cui si riconosce una speciale autorità a uno dei partecipanti o dove il parlante intende, senza troppi sottointesi, ritoccare le regole del gioco. I nostri enunciati, come attesta Mary Kate McGowan nei suoi studi sul linguaggio oppressivo (si veda il fondamentale Just Words: On Speech and Hidden Harm, 2019), accordano rilevanza, allargano il campo dei presupposti ammissibili, e così, in alcuni casi, agiscono su quanto sta tutt’attorno. Uno fornisce una nuova informazione, l’altro rimarca alcune notizie, qualcuno ancora, chiedendo che ogni intervento venga anticipato da un’alzata di mano, corregge la procedura.
Fallacie e blocking
Quasi tutti gli enunciati, appunto. E qui viene il problema. Alcune norme conversazionali sono più flessibili di altre e, guarda caso, invalidare quelle attivate dal discorso d’odio sembra essere più difficile. Immaginiamo uno de nostri talk show politici. Un partecipante urla: «Ma basta con queste storielle! Gli zingari sono dei ladri!». Dall’altra parte qualcuno risponde: «Questa storia degli zingari è la vostra ennesima falsità!». Seguono ancora: «Non usare la parola zingari!», «Non cambierete mai! Razzisti! Ridateci i nostri soldi, ladri!». Se possiamo infilare agevolmente informazioni fuori posto in uno scambio tra pari, non sempre, suggerisce l’esempio, abbiamo i mezzi per smentire il falso o negare l’oltraggioso. Se non troviamo ostacoli nell’introdurre nuove associazioni logiche e nessi causali, ben più complessa sarà l’impresa di privare questi enunciati di fondatezza. Anzi, pure qui, a provarci e riprovarci reiteriamo il riferimento all’offesa e ne ammettiamo l’importanza.
Prendiamo il cosiddetto blocking. Il blocking raccoglie operazioni logiche o di linguistica che, rivelando argomenti fallaci, falsità o presupposti impliciti, puntano a contenere la forza degli enunciati odiosi (Christian Raimo offre un esempio da manuale; cito_: La pragmatica comunicativa di Salvini in tv e ovunque è questa: […] a) critica su x; b) elusione e iperbole – x elevato a n; c) minimizzazione della critica > singolo x può essere ridimensionato e quindi avvalorato. Segre e Balotelli possono essere insultati, Putin è un alleato con cui si possono fare affari sporchi_). In un importante lavoro di documentazione e revisione delle strategie di controparola più diffuse sul web, Susan Benesch, fondatrice e anima del Dangerous Speech Project, documenta che, quando aspre disuguaglianze condizionano l’accesso al sapere, esporre fatti e vizi di ragionamento difficilmente attenua gli effetti dell’hate speech. Quando questo avviene senza la giusta misura, il tono irridente e aggressivo causa un crescendo di retorica odiosa e un’identificazione ancora più stretta con il messaggio intollerante.
In un contesto dove, per citare un recente articolo di Lynne Tirrell (Southern Journal of Philosophy, 2018), filosofa americana da tempo impegnata nello studio delle interconnessioni tra pratiche e parole oppressive, chiunque, sfogliando i quotidiani, navigando tra un sito e l’altro o facendo scorrere le immagini sui social network, percorre «campi minati di paura, odio, ansia e disperazione», ogni risposta post hoc, punitiva o di controparola, trascura la capacità del linguaggio di penetrare i nostri caratteri cognitivi e affettivi. Ci sono parole e modi di dire ripetuti quasi meccanicamente che condizionano sia scambievolezze di poco conto sia interazioni assai più significative fino a comporre una vera e propria “piramide dell’odio” (Giovanni Ziccardi, L’odio online. Violenza verbale e ossessioni in rete, 2017).
Su questo sfondo Patricia Devine ha dimostrato che il superamento dei pregiudizi richiede tanto uno sforzo considerevole e duraturo quanto la piena consapevolezza del contesto in cui gli stereotipi traggono forza. Quale può essere dunque la nostra influenza sull’ascesa del discorso d’odio, su ciò che, come osserva giustamente Federico Faloppa, sembra «un rumore di fondo pervasivo e difficilmente ignorabile»?
Costruire un confronto duraturo
La controparola, come una nuova onda di letteratura sul tema ci insegna, non dovrebbe insistere solo sul momento in cui un discorso viene proferito, bensì costruire un confronto duraturo. Per esempio, Lepoutre suggerisce di preparare il pubblico presentando dei fatti rilevanti a livello politico. Se offriamo buoni argomenti, o siamo particolarmente autorevoli, innestiamo nel terreno comune presupposti che sarà difficile sconfessare in futuro. Occorre poi mettere in guardia dalle fonti inaffidabili. Se ne indebolisce l’autorità e si limitano gli effetti nocivi sulla conversazione. Il counterspeech diventa così un esercizio prolungato nel tempo che, accompagnandoci nella vita di tutti i giorni, anticipa e segue la manifestazione dell’odio nella sfera pubblica.
Ma come possiamo sapere che questo impegno, già gravoso e complicato, centra l’obiettivo? La questione non è conclusa. Una prima risposta, forse un po’ troppo terrena, si appella ad altre sfere del discorso pubblico. Per esempio, in un tema come il riscaldamento globale, già segnato da forte polarizzazione, introducendo al pubblico il consenso scientifico sulle emissioni di carattere antropogenico, sono stati neutralizzati gli effetti della misinformazione (si veda lo studio Neutralizing misinformation through inoculation: Exposing misleading argumentation techniques reduces their influence di Cook, Lewandowsky e Ecker, 2017).
Ora, poiché abbiamo imparato che smentire associazioni logiche e nessi causali risulta assai complicato, conviene concludere che un ostinato esercizio di controparola ribalta almeno l’onere della prova: sta, come dovrebbe essere, ai portatori d’odio dimostrare la falsità delle nostre proposizioni, l’inattendibilità dei nostri argomenti tolleranti. Di certo, come benissimo argomenta Elizabeth Anderson nel suo The Imperative of Integration, l’assenza di convinzioni etiche condivise non impedisce di trovare altri appoggi su cui poter avviare scambi accesi, iniziare a assimilare abitudini condivise e, dunque, educarsi al pluralismo. Lo diceva già John Dewey nelle sue considerazioni sul pregiudizio razziale. Si tratta di un percorso lento e graduale, ma contatti e rapporti continui possono facilitare la comprensione della diversità, mitigare naturalmente le differenze, animare la natura partecipante dell’individuo, e, nel nostro caso, silenziare il discorso d’odio.
Immagine: Love padlocks, Juist, Lower Saxony, Germany
Crediti immagine: Dietmar Rabich / Wikimedia Commons / «Juist, Liebesschlösser -- 2014 -- 3600» / CC BY-SA 4.0
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