Il mio intervento** si limiterà a ricordare, nel giorno della memoria, un aspetto apparentemente secondario della dittatura. Mi riferisco alla politica linguistica del Fascismo. Questo aspetto rischia di essere dimenticato, e lo dico sulla base dell’esperienza personale. Ho insegnato Linguistica italiana alla Sapienza fino al 2014: ogni volta che durante le lezioni toccavo questo argomento, mi accorgevo che gli studenti reagivano come se stessi raccontando cose mai sentite prima, né in famiglia né a scuola. I libri, i saggi, gli articoli sull’argomento erano e sono noti a una élite di colleghi e di studiosi, ma le nuove generazioni hanno bisogno anche di immagini per entrare in contatto col passato: da questa consapevolezza nacque il documentario Me ne frego! Il Fascismo e la lingua italiana, che verrà proiettato oggi per ricordare una pagina della nostra storia, a chiusura della tavola rotonda La lingua del nazifascismo: parole e discorsi di odio.

I tre cazzotti del Duce

Certo, mi rendo conto che rispetto alle leggi razziali la politica linguistica del fascismo è questione molto meno drammatica, e ne ricorderò tra poco solo i punti essenziali, ma vorrei partire da una constatazione: nel discorso del 25 ottobre 1938, al palazzo del Littorio (cioè palazzo Vidoni Caffarelli in corso Vittorio Emanuele II a Roma), Mussolini pronunciò queste parole:

«Vediamo un po' cosa è successo nel sedicesimo anno del regime. È successo un fatto di grandissima importanza. Abbiamo dato dei poderosi cazzotti nello stomaco a questa borghesia italiana. L'abbiamo irritata, l'abbiamo scoperta, l'abbiamo identificata.

  1. Il primo cazzotto è stato il passo romano di parata. Il popolo adesso lo adora […]

  2. Altro piccolo cazzotto: l'abolizione del “lei”. È incredibile che da tre secoli tutti gli italiani, nessuno escluso, non abbiano protestato contro questa forma servile, che ci è venuta dalla Spagna del tempo. Fino al Cinquecento gli italiani non hanno conosciuto che il “tu” e il “voi”. Poi solo il “tu “, ignorando il “lei”. […]

  3. Altro cazzotto nello stomaco è stata la questione razziale. Io ho parlato di razza ariana nel 1921, e poi sempre di razza […] Il problema razziale è per me una conquista importantissima, ed è importantissimo l'averlo introdotto nella storia d'Italia. […]»

In quel discorso si accostavano, tra i cosiddetti “cazzotti”, tre questioni non paragonabili: il passo romano di parata, l’uso del voi al posto del lei e “il problema razziale”. Ma proprio l’aver messo sullo stesso piano questioni così diverse e così lontane tra loro riporta il discorso alla questione in parte dimenticata della politica linguistica del Fascismo.

1923: una campagna di purismo xenofobo

Dal 1922 al 1943 fu praticata, per la prima volta in Italia, una vera e propria politica linguistica. I momenti più significativi possono essere rievocati seguendo i vari momenti attraverso i quali quella politica fu attuata. L’aspetto più noto riguarda la lotta contro le parole straniere. Con la legge dell’11 febbraio 1923 il purismo di matrice nazionalista e irredentista subì un’ulteriore impennata, imponendo una tassa sulle parole non italiane. Ebbe inizio così una nuova campagna di purismo xenofobo che riempì le pagine dei quotidiani e delle riviste. Negli anni Trenta, in una situazione linguisticamente sempre più autarchica, nacquero diverse iniziative giornalistiche contro le parole straniere: ricordo almeno Una parola al giorno, pubblicata nella “Gazzetta del Popolo” di Torino per «ripulire la nostra lingua dalla gramigna delle parole straniere che hanno invaso e guastato ogni campo», in cui Paolo Monelli, giornalista allora già molto noto e scrittore di grande successo, proponeva ai lettori le sostituzioni delle parole non italiane. La rubrica costituì il punto di partenza per il libro intitolato, significativamente, Barbaro dominio. Cinquecento esotismi esaminati, combattuti e banditi dalla lingua con antichi e nuovi argomenti storia ed etimologia delle parole e aneddoti per svagare il lettore pubblicato a Milano da Hoepli nel 1933, e poi ristampato anche nel dopoguerra.

Dal divieto di parole straniere all’antidialettalismo

L’ostilità verso tutto ciò che era straniero si intensificò nel 1936, poi nel 1938 si arrivò al decreto-legge del 5 dicembre, n. 2172 sulle «denominazioni del pubblico spettacolo». Da quel momento in poi anche i nomi e i cognomi furono italianizzati. Nel 1939 fu condotta sul “Popolo d’Italia” una campagna contro le insegne in lingua straniera, con particolare accanimento nei confronti delle insegne che comparivano nei negozi di cittadini ebrei.

Nel 1940 (l’Italia era già entrata in guerra) si arrivò al divieto assoluto di parole straniere nell’intestazione delle ditte e della pubblicità, sotto pena di sanzioni che potevano arrivare, almeno in teoria, alla detenzione. Contemporaneamente, la Reale Accademia d’Italia, che aveva tra i suoi compiti la difesa dell’italianità, fu incaricata dal governo di sostituire le parole straniere con parole italiane. L’Accademia fu incaricata di tradurre, sostituire o italianizzare non solo le parole straniere, ma anche la toponomastica, e di stendere gli elenchi ufficiali delle sostituzioni delle parole straniere.

La scuola fu uno degli strumenti della propaganda e della politica linguistica del regime. Dall’anno scolastico 1930-31 il libro di testo unico edito dalla Libreria dello Stato fu introdotto nelle prime due classi delle scuole elementari, contribuendo al processo di fascistizzazione degli italiani fin dalla prima infanzia. Il libro unico comprendeva la storia della rivoluzione fascista e dei suoi protagonisti, primo fra tutti il Duce. Nella politica scolastica ebbe un ruolo importante la campagna contro i dialetti. In una prima fase, si erano applicate le idee del pedagogista Giuseppe Lombardo Radice (1879-1938), che aveva introdotto il metodo «dal dialetto alla lingua» nei programmi scolastici della riforma Gentile del 1923. Ma in seguito, col consolidarsi del regime e il timore di spinte localistiche e autonomistiche, l’ostilità e l’ostracismo contro i dialetti, visti come ostacoli all’ideologia nazionale, si intensificarono, trasformandosi all’inizio degli anni Trenta in una vera e propria politica antidialettale.

La lotta contro le minoranze linguistiche

Non mi soffermerò sulla campagna contro il “lei”, pronome allocutivo contro il quale Mussolini scagliò uno dei “cazzotti” che citavo all’inizio, conseguenza di una singolare campagna promossa nel 1938 dal gerarca Achille Starace: il lei, che doveva essere sostituito dal tu o dal voi, a seconda del grado di confidenza con l’interlocutore, era bandito perché considerato «femmineo» e «straniero» (in realtà la forma era italianissima, in uso fin dal Cinquecento, e derivava dall’abitudine di rivolgersi a una persona di riguardo, indicata con l’espressione «Vostra Signoria», con la forma lei, regolarmente concordata al femminile con «Signoria»).

L’aspetto più odioso della politica linguistica del Fascismo fu, infine, la lotta contro le minoranze linguistiche, che si manifestò con varie iniziative: l’imposizione dell’italiano in Valle d’Aosta, la politica etnica ai danni della minoranza di lingua tedesca in Alto Adige e tedesca e slovena nella Venezia Giulia, l’italianizzazione forzata della toponomastica, l’obbligo di italianizzazione dei cognomi slavi o tedeschi.

Il "me ne frego": oggi come ieri?

Quando nel 2014 decidemmo il titolo per il documentario dedicato alla politica linguistica del Fascismo, lo scegliemmo proprio perché retaggio di un passato che ci illudevamo fosse chiuso per sempre. Ebbene, l’espressione «me ne frego!» tanto screditata da non poterne immaginare un riuso, continua a essere pronunciata, e non con intento ironico. Basta fare una ricerca in Google e negli archivi dei quotidiani per trovare le citazioni, tratte da dichiarazioni pubbliche e interviste di uomini politici con importanti incarichi istituzionali. Le parole dell’odio, del disprezzo, dell’arroganza, vengono ora esibite e urlate senza vergogna, come se non fossero il portato di un passato da condannare. Nel giorno della memoria bisogna ricordarne l’origine e la storia, perché l’odio passa anche attraverso il linguaggio, nel quale deposita tutta la violenza e la ferocia dell’ideologia.

**Il testo è la trascrizione dell’intervento tenuto dall’autrice nel corso tavola rotonda sul tema La lingua del nazifascismo: parole e discorsi di odio, tenutasi il 28 gennaio 2019, in occasione del Giorno della memoria, presso l’Università per stranieri di Siena.

Bibliografia essenziale

F. Foresti, La lingua italiana e il fascismo, Consorzio provinciale di pubblica lettura, Bologna, 1977 (ora in Id, Credere, obbedire, combattere. Il regime linguistico del Ventennio, Pendragon, Bologna, 2003).

C. Galeotti, Achille Starace e il vademecum dello stile fascista, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2000.

E. Golino, Parola di Duce. Il linguaggio totalitario del Fascismo, Rizzoli, Milano, 1994.

G. Klein, La politica linguistica del fascismo, il Mulino, Bologna, 1986.

E. Leso, M. Cortelazzo, I. Paccagnella, F. Foresti (a cura di), La lingua italiana e il fascismo, Consorzio provinciale pubblica lettura, Bologna, 1977.

S. Raffaelli, Le parole proibite. Purismo di Stato e regolamentazione della pubblicità in Italia (1812-1945), il Mulino, Bologna, 1983.

S. Raffaelli, Un «lei» politico: cronaca del bando fascista (gennaio-aprile 1938), in Omaggio a Gianfranco Folena, III, Editoriale Programma, Padova, 1993, pp. 2061-2063.

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