di Stefano Rossetti*
Nella scuola italiana, la fantascienza di Primo Levi rimane pressoché ignorata.
Si preferiscono i racconti del Sistema periodico, felice connubio di cultura umanistica e scientifica, e soprattutto i romanzi-saggio sulla tragedia dell’internamento. Peraltro, il senso profondo di queste narrazioni storiche viene spesso edulcorato, in nome di una celebrazione retorica della memoria che indebolisce il loro valore attuale, di monito ed insegnamento per noi, qui e ora.
Invece, l’opera di “profeta tecnografo” – così Levi definisce lo scrittore di fantascienza in un articolo pubblicato il 20 gennaio 1974 sul quotidiano «La Stampa» – propone stimoli sorprendenti e poco comuni nel percorso culturale degli studenti. In quella sede, lo scrittore distingue i tecnografi, che immaginano e descrivono il futuro, dai tecnocrati che lo costruiscono nella realtà: a questi ultimi affida «il compito urgente di frenare la loro folle corsa verso il profitto immediato, e di utilizzare il colossale patrimonio di conoscenze che si è accumulato in questi ultimi decenni per fare dono all’umanità di un destino meno precario e meno doloroso».
La formazione dei tecnocrati
La scuola è il luogo che maggiormente contribuisce alla formazione dei futuri tecnocrati: coloro che attraverso la scienza e la tecnologia gestiranno un potere significativo sulle persone e sulle cose. La lettura di Levi può allora fornire un contributo decisivo alla formazione di uomini e donne consapevoli del loro potere, inclini ad utilizzarlo in nome di una comune appartenenza all’umanità, non semplicemente per scopi di arricchimento personale.
Vorrei ragionare brevemente su questo contributo formativo, utilizzando le Storie Naturali del 1966, nelle quali l’autore descrive “profeticamente” temi e situazioni cui lo scorrere del tempo – il suo futuro, il nostro presente – ci mette di fronte.
Il più evidente è la diffusione costante della tecnica e delle macchine, e le loro applicazioni sempre nuove: Levi affronta l’incontro fra tecnologia e poesia (Il Versificatore), la clonazione/duplicazione (L’ordine a buon mercato), la crioconservazione (La bella addormentata nel frigo), la realtà virtuale (Trattamento di quiescenza). In ciascuna storia, mette in luce le implicazioni morali e filosofiche delle invenzioni, e il rischio di cadere in un entusiasmo preconcetto, che porta ad accettarle senza interrogarsi sul senso profondo del loro utilizzo.
Scienza, tecnologia ed etica a scuola
Questo entusiasmo acritico è fortemente radicato nella scuola odierna: per esempio, la tecnologia digitale è considerata una panacea, in grado di emancipare l’istituzione dalle sue abitudini trasmissive, rovesciando la classe ed i metodi tradizionali, a vantaggio di un apprendimento attivo. Levi ci insegna, però, che la valutazione dell’utilità di una tecnologia è operazione complessa. Il signor Simpson, protagonista di diversi racconti, vende gli apparecchi prodotti dalla multinazionale americana NATCA, e mostra che in nome del mercato si possono scavalcare facilmente le preoccupazioni etiche.
La finzione narrativa conduce ad una riflessione sul nesso fra produzione di tecnologie e profitto economico; di riflesso, spinge ad interrogarsi sulla relazione fra scienza ed etica.
In diversi racconti, questa riflessione viene presentata narrando storie di paradossali e sorprendenti interazioni fra uomo, natura, macchine: automobili che acquistano coscienza di sé (Cladonia rapida), formiche sindacalizzate che lavorano alla costruzione di piccoli componenti elettronici (Pieno impiego).
In altri casi, l’immaginazione dello scrittore recupera la tragica esperienza personale o gli studi religiosi. Racconti come Angelica farfalla o Il sesto giorno propongono con potente forza drammatica il dubbio che anima la fantascienza degli anni ’50: e se l’uomo cadesse vittima della propria superbia intellettuale e confondesse sé stesso con Dio?
Dalla lettura delle Storie si può uscire cambiati, perché il nesso che Levi stabilisce fra le scelte che l’uomo compie e le conseguenze cui andrà incontro è chiaro, più volte ribadito: e questa idea di scelta e di responsabilità è quanto mai preziosa.
Il modello di un linguaggio semplice e colto
Se questi interrogativi etici costituiscono il più evidente motivo di interesse – e di utilizzo – delle storie di Levi nella scuola, non devono però essere trascurati altri aspetti attraverso i quali ci spingono a pensare con la nostra testa.
Lo stimolo viene prima di tutto dall’esperienza linguistica della lettura. Nel mondo comunicativo di molti studenti, dominato dal rumore e da processi di semplificazione (lessicale, logica), la lingua di Levi è un modello significativo: si tratta infatti di un linguaggio semplice e colto al contempo, la cui accessibilità viene ricercata dagli studenti proprio in virtù della curiosità e della passione suscitata dalle storie narrate. Non credo che lo scrittore me ne vorrebbe, se affermo che i racconti presentano un aspetto seriale, creano attese e suscitano orizzonti complessi: hanno, cioè una loro spettacolarità intelligente, una colta dimensione pop. Non a caso - credo -, appaiono non molti anni dopo la prima grande serie televisiva americana, con la quale condividono temi e valori: Ai confini della realtà.
Inoltre, queste storie sottolineano il valore dell’incontro fra le discipline, fornendo una risorsa per lottare contro uno dei pericoli più concreti del mondo, e della scuola, di oggi: la separazione netta fra ambiti disciplinari e una visione riduzionista della materie di studio. In virtù di queste tendenze, le materie scientifiche sono percepite come utili, in quanto producono “cose” e profitto; quelle umanistiche sono sottovalutate, perché il loro oggetto è in gran parte immateriale, e la loro redditività sul mercato è scarsa.
Contro lo scientismo e contro l’arroccamento nella cittadella di un umanesimo astorico, Primo Levi incarna la consapevolezza della pluralità, il valore dell’alterità.
Di questa coscienza, insieme vecchia e nuova, i “nativi digitali” hanno estremo bisogno.
Foto di Bernard Gotfryd (1985)
*Stefano Rossetti è nato a Pinerolo (CN) nel 1962. Insieme al papà Vittorio ha cominciato ad amare le storie raccontate sulla carta e sugli schermi. Ha incontrato spesso insegnanti capaci, e si è laureato in Lettere moderne nel 1986. Insegnando a bambini “difficili” delle elementari, durante il servizio civile, e lavorando per alcuni anni con i carcerati, in un laboratorio di poesia, ha maturato l’idea che non esista apprendimento significativo senza relazioni e sentimenti forti. La sua ricerca si svolge da sempre nelle classi. Da alcuni anni, grazie all’incontro e alla collaborazione con le colleghe dell’Associazione degli Italianisti - sezione didattica, approfondisce i suoi interessi teorici nel campo dell’insegnamento della letteratura e della media education, intervenendo in seminari e convegni. Alcuni suoi articoli si possono leggere su siti (italianisti.it), blog (adisd.blogspot.it), negli atti dei convegni dell’associazione e sui «Quaderni della Ricerca» Loescher.
Immagine: Primo Levi seduto alla scrivania mentre legge con una sigaretta in mano - sullo sfondo scaffali con libri, circa 1960