… era l’anno dei mondiali quelli dell'86 / Paolo Rossi era un ragazzo come noi…

Dite la verità, quanti di voi ascoltando questi versi di Venditti hanno pensato – come ho fatto anch’io per tanto tempo, sia chiaro – al protagonista indiscusso dei Mondiali di calcio dell’82?

Il cantautore romano è tornato più volte sulla questione («in “Giulio Cesare” faccio riferimento a Paolo Rossi, ma non è l’eroe del Mundial di Spagna come in molti pensano ed hanno pensato. Io ricordavo uno studente morto negli scontri tra studenti e polizia a Roma nel 1966», Repubblica.it, 4.7.2013), senza tuttavia riuscire a risolvere, una volta per tutte, l’equivoco: lo stesso Venditti, del resto, giocando sulla cosa, approfittò della presenza sul palco di Paolo Rossi durante un suo concerto per dichiarare apertamente «Il vero unico titolare di questa canzone è lui» (vedi).

Troppo grande il ricordo di Pablito, dei tre gol al Brasile, dei due alla Polonia, di quello in finale alla Germania Ovest, del Presidente Pertini che esulta sulle tribune del Santiago Bernabéu, del triplice «Campioni del mondo! Campioni del mondo! Campioni del mondo!» di Nando Martellini, del capitano Dino Zoff che solleva la Coppa, dei caroselli festanti avviluppati nel tricolore in quell’Italia «derubata e colpita al cuore», come cantava Francesco De Gregori appena tre anni prima.

E di quell’Italia «con gli occhi aperti nella notte triste», di quell’Italia «che resiste[va]» – al terrorismo, alle stragi, alla violenza di strada, agli scandali politici –, Paolo Rossi divenne il simbolo, ipostatizzato nel nome – tutto attaccato – prima ancora che nella persona: «È abbastanza evidente il salto di qualità, dal Pablito del ’78 al Paolorossi ’82. Scrivo tutto attaccato non per seguire la moda degli assemblaggi (stiramorbido, uvamaro, mangiaebevi, castigapidocchi) ma perché mi pare di cogliere una necessità, un tutto unico fra Paolo e Rossi, le generalità tese a diventare simbolo e slogan. Vogliamo dire bandiera?». Così scriveva Gianni Mura nel 1982, e aggiungeva: «Paolo non basta, Rossi è troppo poco, viva Paolorossi ianua coeli, turris davidica, consolatio afflictorum, soprattutto», proprio lui che all’anagrafe di Prato era «registrato come Paolo Giovanni» (San Pablito, in Mura 2013, pp. 300-304).

Paolo Rossi, l’omonimo attore, racconta in un monologo un aneddoto che lo vede protagonista a un posto di blocco, quando un carabiniere, esaminando i suoi documenti, chiede ingenuamente: «Paolo Rossi? Ma è il fratello?». «Mi scusi, se uno ha dodici figli, secondo lei li chiama tutti Paolo?», replica il comico, che poco prima aveva precisato: «La battuta che sto per dire è la battuta migliore del mio repertorio, è vera, non è mia […]» (vedi).

E c’è da credergli.

La formazione calcistica del (mancato) ragionier Rossi

Nato a Prato il 23 settembre 1956, 174 cm per 67 kg, un fisico gracile – da ragioniere, ha detto qualcuno, che in fondo era il mestiere che avrebbe voluto per lui mamma Amelia –, non certo privo di talento, ma senza la classe di Platini, la genialità di Maradona o l’eleganza di Falcão, e anche senza un nome altisonante – un signor Rossi come tanti, insomma –, ma dotato di velocità, intuito e soprattutto di una straordinaria forza di volontà, che certo fece la differenza nei momenti difficili della sua carriera: «Altro che ragioniere o prete. Sono un calciatore, voglio giocare a pallone, negli stadi più belli del mondo. Con le bandiere delle squadre e della nazionale che sventolano» (Rossi / Cappelletti 2019, p. 64).

Dopo la trafila nelle giovanili della Juventus, che lo aveva acquistato giovanissimo, va in prestito al Como («il Como si è limitato a farsi prestare dalla Juventus lo sconosciuto diciannovenne Paolo Rossi. Il malcontento si può sintetizzare così: anziché investire i soldi di Tardelli per rinforzare la squadra, il Como ha giocato al risparmio», Corriere della Sera, 20.1.1976, p. 14). Esordisce in serie A con i biancoblu nella stagione 1975-76 (con la Juve aveva giocato solo tre partite di Coppa Italia), senza tuttavia lasciare il segno: alla fine del campionato appena sei presenze e neanche un gol. La svolta arriva l’anno successivo, dopo il passaggio al Lanerossi Vincenza di Giussy Farina, che acquista la metà del cartellino del calciatore; qui l’allenatore Gibì Fabbri ha una felice intuizione e sposta Rossi dall’ala al centro dell’attacco: «Ma mister! Avevo giurato a me stesso, anni fa, che non avrei più indossato la maglia numero 9. Avevo vissuto un’esperienza choccante con gli Allievi della Juventus. In una partita sono stato letteralmente malmenato. Mi ero appena rotto tre menischi ed ero fisicamente fragile. È stato terribile mister, indimenticabile. Da non augurare a nessuno. Non ho il fisico, mister… Non ho il fisico da attaccante…» (Rossi / Cappelletti 2019, p. 110). Si sbagliava: Fabbri tiene duro («Ce la farai Paolo, ce la farai. Fidati di me, te ne prego», Id., p. 109) e il nuovo ruolo frutta 21 gol in B e 24 l’anno dopo in A, grazie ai quali il Vicenza conquista uno storico secondo posto e Rossi il titolo di capocannoniere (con il suo record personale che non batterà più) e la maglia della Nazionale.

Pablito ’78 e l’Ente autarchico mundial

Paolo Rossi fa il suo esordio in Nazionale il 21 dicembre 1977 a Liegi, in amichevole contro il Belgio; rigioca poi un mese dopo contro la Spagna a Madrid, sempre in amichevole. Benché non abbia disputato le qualificazioni, Bearzot non ha dubbi, è lui (assieme a Bettega) l’attaccante titolare della Nazionale: lo convoca per i Mondiali in Argentina e il 2 giugno a Mar del Plata, nella partita d’esordio, segna il suo primo gol in azzurro nella vittoria per 2 a 1, in rimonta, contro la Francia. L’Italia ha l’erede di Mazzola e Rivera titola il giorno dopo il Corriere d’informazione, riprendendo le parole di Pelé: «Nessuno me ne aveva parlato. È grande quel ragazzo, può diventare uno dei protagonisti di questo “mundial”, ha un talento naturale eccezionale. È mobilissimo, imprevedibile. […] L’Italia scopre sempre qualche fiore raro. Una volta c’erano Rivera e Mazzola...». Rossi segna ancora con l’Ungheria alla seconda giornata e si ripete con l’Austria nel secondo turno. Tutto sembra arridergli in quei giorni, durante i quali Paolino (così in molti articoli di Gian Antonio Stella per il Corriere d’informazione, a partire dal 15.11.1976, p. 10: «“baby-gol” Paolino Rossi, gioiello del Vicenza») – detto anche mister cinque miliardi, in riferimento al (doppio del) prezzo versato nel ’78 “alle buste” dal presidente Farina (2 miliardi e 612 milioni di lire), pur di strappare alla Juve l’altra metà del cartellino (Scambio di accuse fra i presidenti intorno a Rossi, mister cinque miliardi, Corriere della Sera, 21.5.1978, p. 26), e, occasionalmente, Dinamite-boy («la velocità, la tecnica, l’intuizione sotto porla di Paolo Rossi, il dinamite-boy del nostro calcio», Piero Dardanello, Corriere d’informazione, 28.11.1977, p. 5; anche in un titolo a p. 8) – diventa per tutti Pablito.

Di certo il nomignolo, coniato certamente da Giorgio Lago, era nato prima del Mondiale, come racconta Trellini (2021), che rimanda all’amichevole disputata contro la Spagna il 25 gennaio 1978 (la seconda partita giocata in Nazionale da Rossi): «[…] sull’aereo che sta riportando i giornalisti italiani a casa da Madrid viene coniato il suo nomignolo. Giorgio Lago, capo dei servizi sportivi del “Gazzettino”, è seduto vicino a Piero Dardanello, [futuro] direttore di “Tuttosport”, quando si avvicina Sandro Ciotti, che sta realizzando alcune interviste per un programma radiofonico della RAI. “L’Italia ha trovato il suo centravanti per il Mondiale, d’ora in poi possiamo chiamarlo Pablito” risponde Lago accostandolo al piccolo gaucho simbolo degli imminenti Mondiali di Argentina. Ciotti sorride, Dardanello lo scrive» (p. 287). L’aneddoto è confermato da un’intervista di Dardanello a Bearzot per il Corriere d’informazione del 27 gennaio 1978, intitolata programmaticamente Lo chiameremo Pablito (p. 9): «[…] Giorgio Lago, cantore delle Venezie, ha ormai deciso di ribattezzarlo Pablito. Sono d’accordo con lui. Il simbolo biricchino e simpatico dei mondiali è appunto quel ragazzino vestito da “gaucho” che non ha ancora un nome definitivo. Lo chiamano Juanito, Gauchito, Mundialito. Perché, allora, non chiamarlo Pablito? È una proposta». Il ct, che aveva appena detto «Rossi ormai è una sicurezza. Ha scatto, velocità, fantasia, intelligenza…», replica con la consueta ironia: «A chi? A l’Ente Autarchico mundial?».     Immagine 0La mascotte dei Campionati di Calcio del 1978; vedi la galleria fotografica della Gazzetta dello Sport)

All’inferno e ritorno

«Ancora un anno a Vicenza, uno in prestito al Perugia e poi... lasciamo perdere» (Corriere della Sera, 14.6.1982).

Quel “poi” è il periodo più buio della carriera di Rossi: l’accusa di aver truccato la partita Avellino-Perugia del 30 dicembre 1979, i giornali che “sbattono il mostro in prima pagina” (Paolo Rossi e altri ventisei giocatori accusati per le scommesse truccate, Corriere della Sera, 3.3.1980; Calcioscandalo: 38 in Tribunale. C’è anche Paolo Rossi, Corriere d’informazione, 24.4.1980) e relegano le parole di chi lo difende in qualche trafiletto interno (Cabrini: «Ridicoli i sospetti su Rossi», Id., 4.3.1980, p, 26), la giustizia ordinaria che lo assolve e quella sportiva che lo squalifica per tre anni, poi ridotti a due in appello, la voglia di lasciare l’Italia e il calcio. Paolo Rossi ha 23 anni in quel momento e la sua vita, quanto meno quella calcistica, sembra finita: «Il primo anno di squalifica è devastante. […] Piange in silenzio, quando nessuno lo vede. Al buio, perché lui è orgoglioso e non vuole mostrare a nessuno la sua debolezza. E con gli altri fa finta di niente, sorride. Ma dentro è distrutto. Svuotato. E per proteggersi dalle cattiverie della gente ha alzato un muro. L’ingiustizia è un serpente pericoloso che ti stringe la gola e ti toglie il fiato» (Rossi / Cappelletti 2019, p. 179).

Poi arriva una telefonata: «Pronto?», «Paolo, sono Giampiero Boniperti. Come stai? Ti ho seguito in questo periodo, sai. Hai voglia di tornare alla Juventus?» (Id., p. 185). Il passaggio alla Juve nella primavera del 1981 consente a Rossi di allenarsi in vista del ritorno in campo previsto per l’aprile successivo, ma due anni sono tanti. Alla squalifica di due anni, per giunta, si aggiunge un altro mese comminato dalla Lega al calciatore per alcune dichiarazioni rilasciate ai giornali («I processi sportivi sono stati una vera e propria buffonata. Se si ripresentasse un'identica  situazione non sarei più disposto a farmi giudicare da gente del genere», Corriere della Sera, 2.4.1981, p. 30). Il campionato quell’anno si sarebbe concluso il 16 maggio e difficilmente Bearzot, che pure aveva sempre creduto nell’innocenza di Rossi («Ti credo, Paolo, ti credo. Ti ho guardato negli occhi e il tuo sguardo è sincero. Pulito», Rossi / Cappelletti 2019, p. 178), avrebbe potuto convocare per il Mondiale spagnolo (13 giugno – 11 luglio) un calciatore che da due anni non giocava una partita ufficiale. Quell’ulteriore squalifica, tuttavia, viene trasformata in una multa (5 milioni di lire) e il calciatore può così disputare le ultime tre partite di campionato: al debutto, in trasferta contro l’Udinese, ritrova anche il gol (vedi, 36’ 55’’), malgrado i fischi impietosi dei tifosi avversari.

El hombre del partido

Arrivano i Mondiali, tra lo scetticismo generale. La Nazionale gioca male e si qualifica abbastanza fortunosamente per il secondo turno, dove dovrà affrontare nell’ordine Argentina e Brasile. Il coro di critiche sulla squadra e su Paolo Rossi in particolare tocca l’acme in quel momento, mentre Gianni Mura raccoglie meticolosamente «voci popolari e giudizi critici (giornali, tv)», che pubblicherà qualche settimana dopo; questo è quanto si diceva allora di Rossi: «Intanto è uno scandalo che gli diano la maglia azzurra a questo ladro, a quest’infamone. Come ci si può fidare di uno che ha fatto quello che ha fatto lui, che per due lire venderebbe la madre? E almeno giocasse bene, si capirebbe perché quel testone di Bearzot insiste. Invece no. Rossi fa piangere, tanto è vero che l’hanno sostituito e d’altra parte basta sapere appena un pochino di calcio per capire che dopo tutti quegli anni fermo Rossi non poteva più essere il Rossi argentino. Là arrivava sul pallone con un secondo d’anticipo su tutti, qui con due secondi di ritardo. E poi è sempre per terra a lamentarsi. Almeno tre centravanti meritavano quella maglia più di lui, a prescindere dalle scommesse. Con Rossi facciamo ridere il mondo, te lo dico io» (Mura 2013, p. 370).

Poi la partita con il Brasile e la resurrezione, alle cinque e cinque del pomeriggio del cinque luglio, a Barcellona, Stadio di Sarriá: Rossi porta avanti l’Italia al 5’; Socrates pareggia al 12’; ancora Rossi al 25’ (con un gol “alla Paolo Rossi” si sarebbero detto più tardi); pareggio di Falcão al 68’; Rossi al 74’ chiude la partita, definitivamente. Pablito, di gran lunga il migliore in campo – El hombre del partido, come dicono in Spagna –, divenne o carrasco do Brasil (‘il boia del Brasile’) e fece piangere un Paese intero; così ricorda la partita Léo Júnior, che negli anni successivi avrebbe poi giocato in Italia, tra Torino e Pescara: «Paolo Rossi gol, Paolo Rossi gol, Paolo Rossi gol. Mi scorrono ancora le immagini di quella partita che per i brasiliani è stata la tragedia del Sarriá. Paolo Rossi, o carrasco do Brasil, un grande esempio per tutti» (Rossi / Cappelletti 2019, p. 296). Dall’altra parte del mondo, i tifosi italiani scendono in strada per festeggiare la vittoria e il nuovo, inaspettato, idolo del pallone.

Era solo l’inizio: altri due gol in semifinale alla Polonia e nuovamente il titolo di migliore in campo, poi la finale contro la Germania Ovest, l’11 luglio 1982, ore 20.00, Stadio Bernabéu di Madrid. Quella mattina, Gianni Mura, caustico, pubblica su la Repubblica l’articolo Gli azzurri prima e dopo la cura. Ecco quello che si è detto di loro; il giudizio su Paolo Rossi cambia radicalmente: «Angelo vendicatore, angelo sterminatore, bel morettino mio, ianua coeli, niño de oro, Rossigol, aiutaci a sognare, aiutaci a segnare, mettila dentro, con Rossi facciamo tremare il mondo, te lo dico io, non solo i crucchi. Pensa a quante ne ha passate ’sto ragazzo, l’hanno sporcato che era pulito come un giglio, ha perso più di due anni della sua vita, ha perso quattrini, ha perso quotazione, ha perso fiducia, ed eccolo qui come se niente fosse capitato, bello e sicuro, rapido e invisibile, mordi e fuggi, sei tutti noi, siamo tutti con te. Ti picchiano, ma ogni volta ti rialzi più forte di prima, come te non c’è nessuno, sfonda la porta dei tedeschi, apri la porta del paradiso» (Mura 2013, p. 370). E Rossi quella sera non delude: al 57’, su cross di Gentile, colpisce la palla di testa e la manda in rete, aprendo così le marcature. L’azione, avviata con astuzia da Tardelli, che batte velocemente un calcio di punizione sulla trequarti, è rapidissima, eppure in quell’attimo – mentre il pallone rotola verso la porta avversaria – resta sospesa, come in un sospiro collettivo, l’esistenza di Paolo Rossi e dei suoi compagni, di chi era allo stadio quella sera, di chi guardava la partita alla tv, di chi la ascoltava alla radio. Verranno poi i gol di Tardelli, splendido, e di Altobelli, le partite a scopone in aereo, i titoli dei giornali, il Pallone d’oro e il resto. Tutto bellissimo, tutto straordinario. Eppure quell’istante in cui Rossi colpisce la palla, prima che questa entri in porta, conserva qualcosa di magico, giacché, impresso nella nostra memoria, consente a qualunque appassionato di calcio – e non solo, direi – di ricordare nitidamente, a distanza di quasi quarant’anni, dov’era e che cosa stava facendo in quel momento.

Un’emozione indimenticabile, per cui non finiremo di ringraziare Paolino, Pablito, Paolorossi, per sempre el hombre del partido.

Riferimenti bibliografici*

Mura, Gianni, Non gioco più, me ne vado. Gregari e campioni, coppe e bidoni, Milano, Il Saggiatore, 2013.

Rossi, Paolo, e Cappelletti, Federica, Quanto dura un attimo. La mia autobiografia, Milano, Mondadori, 2019.

Trellini, Piero, La partita. Il romanzo di Italia-Brasile, Milano, Mondadori, 2021.

*Per tutti e tre i volumi, si cita il numero di pagina dell’edizione digitale.

Immagine: Rossi in maglia azzurra al mondiale argentino, mentre batte il portiere magiaro Mészáros, attraverso Wikimedia Commons