La storia delle lingue

Le lingue cambiano nel tempo, inesorabilmente. Dante scriveva vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole (Inf., iii, 95-96), ma oggi diremmo si vuole così là dove si può ciò che si vuole. Vediamo cosa è cambiato: il pronome impersonale clitico si non è più ammesso dopo il verbo di forma finita; colà è un’espressione deittica quasi del tutto sostituita da ; puote è diventato può.

Lo studio del cambiamento linguistico nel tempo (diacronia) spiega le mutazioni interne di una lingua. Il cambiamento avviene su tre livelli: quello fonetico, che riguarda i suoni di una lingua (le vocali, le consonanti, le sillabe), quello grammaticale, che coinvolge la forma delle parole o il modo in cui le parole sono messe insieme (rispettivamente, morfologia e sintassi) e infine quello semantico, che modifica il significato delle parole.

Il motivo e il momento precisi che avviano il cambiamento linguistico non sono chiari, ma una cosa è certa: una volta iniziato, il cambiamento è sistematico e ha una ricaduta uniforme su tutti gli elementi della grammatica coinvolti nella mutazione. Facciamo un piccolo esempio: a un certo punto la vocale breve del latino ŏ si trasforma nel dittongo uo dell’italiano. Questo non colpisce a caso una singola parola, ma coinvolge tutte quelle che contengono la vocale in questione. Quindi, nŏvum diventa nuovo, bŏnum diventa buono, ecc.

Il carattere sistematico e regolare del cambiamento nel tempo è molto importante, perché ci permette di spiegare cosa è successo a una parola anche quando non abbiamo la testimonianza diretta dei documenti antichi – e sono molte le lingue che non hanno sviluppato una forma di scrittura!

Migrazioni di persone e di lingue

È proprio osservando queste corrispondenze sistematiche che è stato possibile ricostruire la lingua madre di quasi tutte le lingue europee e di molte lingue mediorientali fino all’India: l’indoeuropeo. Senza spaventarci per la grafia un po’ inconsueta, proviamo a leggere queste parole: sanscrito pitár, greco patḗr, latino pater, gotico fadar, inglese father, francese père, italiano padre. La somiglianza tra queste parole è lampante e possiamo quindi ipotizzare con un buon grado di certezza che le lingue in questione siano figlie di una stessa madre. Si tratta cioè di lingue ‘sorelle’, che con il tempo, attraverso lo spostamento delle popolazioni, si sono diversificate. Ebbene sì, i flussi migratori di persone (e di parole!) sono fenomeni naturali che cominciano già in età remote. L’indoeuropeo si propaga dall’India fino alla Scozia e al Portogallo, entrando in contatto con le lingue locali (per esempio, in Italia con l’etrusco) e differenziandosi a poco a poco in altri sottogruppi. Ma l’origine è comune.

E così, restringendo il percorso alla nostra penisola, dall’indoeuropeo discende il latino, e dal latino deriva il romanzo, e all’interno del romanzo si sviluppano le varietà italo-romanze, come il toscano di Dante, su cui si modella l’italiano. Contemporaneamente, si formano anche il piemontese, il veneto, l’abruzzese, il pugliese, il siciliano, per citare le lingue studiate dal progetto Microcontact, e altre lingue. E le abbiamo chiamate ‘lingue’ (anche se nell’uso generale si dice ‘dialetti’) proprio perché non si tratta di varietà dell’italiano, ma di vere e proprie grammatiche che hanno avuto uno sviluppo storico indipendente a partire dal latino, tanto per dare a Cesare quel che è di Cesare...

La linguistica storica e Microcontact

Il progetto Microcontact studia il cambiamento nei dialetti parlati dagli emigrati italiani in condizioni di contatto con altre lingue. Tuttavia, anche la storia di questi dialetti è molto importante. Infatti, la conoscenza dell’evoluzione dei dialetti serve a capire se il cambiamento sia avvenuto in modo spontaneo (cioè internamente al sistema linguistico) o se sia avvenuto per effetto del contatto. Inoltre, l’origine comune dei dialetti italiani e delle lingue dei paesi di arrivo (francese, spagnolo, portoghese) è un fattore che favorisce il passaggio di elementi grammaticali da una lingua all’altra, perché la base comune, in questo caso il latino, ha lasciato un’eredità linguistica che è, per così dire, ‘familiare’ ai dialettofoni italiani in contatto con altre lingue romanze.

La ricerca di Microcontact controlla quattro aree della grammatica dei dialetti degli emigrati: l’uso degli ausiliari, i soggetti clitici, il comportamento dell’oggetto in casi particolari (cioè la marcatura con l’accusativo preposizionale) e la deissi. Vediamo solo brevemente questi quattro aspetti in prospettiva storica (o diacronica).

Partiamo dalla formazione degli ausiliari. In latino non esistevano i tempi composti. Per esempio, il passato del verbo ‘scrivere’ è scrīpsī, scrīpsístī, scrīpsit, ecc., ma la resa in italiano ammette due forme: da un lato, scrissi, scrivesti, scrisse, ecc. e dall’altro ho / hai / ha scritto, ecc. Da dove salta fuori l’ausiliare avere? Spogliando i testi antichi, a un certo punto troviamo nel latino (tardo) l’uso di espressioni come la seguente:

(1) habeo litteram scriptam

Originariamente, la frase in (1) significava ‘ho / sono in possesso di una lettera che è stata scritta (cioè è pronta)’. Il participio scriptam si riferiva solo alla lettera in questione e ne indicava una precisa caratteristica, cioè quella, appunto, di essere in forma scritta. Col tempo si è perso il valore compiuto di scriptam, che si è esteso all’intera azione di ‘scrivere’, assumendo così il significato di ho scritto una lettera. E si può infatti notare che il participio scritto, maschile/‘neutro’, non si riferisce più esclusivamente a lettera, femminile.

Per quanto riguarda i clitici soggetto, cosa sappiamo della storia di queste particelle pronominali? In latino non esistevano e la loro comparsa nelle varietà italo-romanze settentrionali è piuttosto tarda. Infatti, cominciamo a trovarli solo a partire dal XVI secolo. L’esame di testi di questo periodo permetterà di avvalorare l’ipotesi corrente sull’origine dei soggetti clitici: si tratterebbe infatti di pronomi che nel tempo si sono indeboliti e ridotti.

Passando alla marcatura dell’oggetto (accusativo preposizionale), sappiamo che questa si sviluppa nel latino tardo, dove la preposizione ad (che nell’italo-romanzo diventa la tipica a di vedo a Maria), comincia a marcare gli oggetti animati.

Infine, la deissi, in particolare quella spaziale, ha uno sviluppo molto diversificato nelle lingue romanze. In latino, i pronomi dimostrativi erano tre: hic, haec, hoc, questo/a, in riferimento a un oggetto vicino a chi parla; iste, ista, istud, codesto/a, per indicare un elemento vicino a chi ascolta; ille, illa, illud, quello/a, in rapporto alla lontananza sia da chi parla sia da chi ascolta. La traduzione dei dimostrativi latini riflette la funzione che questi avrebbero in italiano, ma non corrisponde all’etimo. Per esempio, questo deriva eccu(m) + istu(m), e non da hic, di cui però ha la stessa funzione, cioè la vicinanza a chi parla. Ebbene sì, sembra un po’ complicato, ma la sfasatura di etimo e funzione che abbiamo appena messo in luce la dice lunga su come la dessi sia cambiata nel corso del tempo.

Bibliografia

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*Francesco Maria Ciconte (Torino, 1975) si è laureato in Lettere Classiche presso l’Università di Torino. Ha poi intrapreso gli studi in Linguistica, conseguendo il master e il dottorato presso l’Università di Manchester. Qui ha anche svolto ricerca postdoc sulle varietà italo-romanze. Attualmente in sabbatico dalla cattedra di Linguistica Italiana dell’Università di Porto Rico, è assegnista di ricerca presso l’Università di Napoli “Federico II” e collabora al progetto ERC Microcontact dell’Università di Utrecht. È autore di numerosi articoli di linguistica italiana e dialettologia in prospettiva diacronica, e di una monografia intitolata Existentials and Locatives in Romance dialects of Italy_, scritta in collaborazione con Silvio Cruschina e Delia Bentley e pubblicata da Oxford University Press_.