Questo Speciale, curato da Maria Antonietta Epifani, è dedicato all’arte e al linguaggio della musica e dell’uomo Ennio Morricone, spentosi a Roma – città in cui era nato nel 1928 –, due anni fa, il 6 luglio del 2020. La fortuna del grande artista viene innanzi tutto raccontata da Marcello Aprile attraverso i deonimici ricavati dal cognome Morricone, a testimonianza della celebrità e popolarità della musica e del personaggio: “morriconiano” (aggettivo di relazione che viene collegato perfino un “trip-hop morriconiano” e un “#Milan morriconiano”) e “morriconismo”, entrambi con riscontri in altre grandi lingue di cultura: “morriconien”, “morriconiste”, “morriconisme” in francese; “morriconiano” (spagnolo); “morriconian” e “morriconism” (inglese); fino all’inaspettato “Morriconist” in estone. Dai derivati morriconiani alle parole morriconiane: Erika Santese affronta la “conversazione” scritta da Morricone a quattro mani con il regista Giuseppe Tornatore e individua i fondamenti della retorica argomentativa di Morricone, imperniata sulla ripetizione e la variazione, quest’ultima perseguita anche attraverso notevoli, studiati salti di registro (dal tecnico-musicale molto formalizzato all’informale parlato anche becero): ripetizione e variazione che caratterizzano, ma sul pentagramma, tutta la produzione dell’autore di colonne musicali memorabili, sempre intente ad accompagnare e svelare (in armonia o per contrappunto contrastivo) il personaggio, il momento culminante, l’atmosfera. L’incontro tra Morricone e Pasolini, raccontato da Maria Antonietta Epifani e Vincenzo Bianco, sembra contenere, nella tenzone dialettica e produttiva che si accende tra i due “titani”, tutte le possibilità teoriche e semiotiche sperimentate dalla versatilissima cultura musicale morriconiana: dalla canzonetta (per Domenico Modugno) all’inserzione mascherata di brani mozartiani e bachiani, dalla ricreazione di motivi popolari scozzesi ai fraseggi del Novecento supercolto e dodecafonico. Una tastiera così ricca è ricondotta da Luca Bandirali, nella sua analisi del densissimo documentario-biopic “Ennio” di Tornatore, alla scissione/compresenza novecentesca tra Arte (con la “a” maiuscola) e mercato teorizzata in larga parte del Novecento: Morricone ha esperito l’intera tradizione musicale, passata e presente, soffrendo per il mancato riconoscimento di artista “puro” per molto tempo sancito dall’accademia (cui, per studio e maestri, apparteneva lui stesso) nei suoi confronti, essendo ai suoi occhi insufficiente, come compensazione, il canto sotto la doccia da parte di milioni di persone dei tanti motivi e motivetti presenti nei film che della grandezza di Morricone si erano nutriti per il successo italiano e spesso planetario. Come scrive Andrea Martina, raccontando il rapporto tra il cinema e Morricone, quest’ultimo era acutamente sensibile nel cogliere quale «impronta sonora» fosse desiderata dal regista per cui lavorava di volta in volta. Ecco perché, come spiega Maria Antonietta Epifani nel suo intervento, dalla prima colonna musicale (“Il federale” di Luciano Salce, 1961) all’ultima, premiata con Oscar e Golden Globe (“Hateful Eight” di Quentin Tarantino, 2016) – pubblico risarcimento e riconoscimento definitivo dell’arte senza aggettivi di Morricone –, dai western all’italiana ai gialli di Dario Argento, dalle serie televisive come “La piovra” ai capolavori filmici come “C’era una volta in America” e “Mission”, Ennio Morricone, restando sempre sé stesso, è riuscito a imprimere segni irrinunciabili di individualità e universalità in tante opere diverse.