di Elena Pistolesi*

Fra le accezioni figurate della parola numero troviamo «persona priva di qualità o di doti che conferiscono importanza, notorietà, spicco, eccezionalità; persona confusa nella massa, nell'anonimato, oscura» (GDLI, § 15). Le espressioni fare numero (‘stare al mondo senza alcuna utilità o lode’) e essere un numero rinviano a una massa anonima, priva di identità e di diritti. In tal senso l’ha usata il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano parlando delle morti bianche: «In nessun luogo i lavoratori possono essere trattati come numeri» («Corriere della sera», 2/02/2008, p. 4). Scorrendo gli archivi di quotidiani, la stessa amara constatazione esprimono gli immigrati, le donne, i disoccupati, i marginali per sottolineare che il trattamento ricevuto è non-umano. In alcune lingue, come il guaymí parlato in America centrale, i referenti numerabili sono distinti con classificatori che discriminano tra forme degli oggetti (tonde, lunghe ecc.), tessuti, persone, giorni e così via (Cardona).

L'attribuzione di un numero è considerata nella società di massa una pratica funzionale ed efficace per organizzare al meglio i servizi diretti al cittadino-utente: dalle file del supermercato a quelle negli uffici postali, attesta l’ordine di arrivo e di accesso alle prestazioni. In tal caso il suo valore è effimero quanto la permanenza nello spazio pubblico. La sostituzione è poi ammessa per tutelare la privacy, come nel caso delle prestazioni sanitarie, e i dati sensibili di un individuo.

In principio fu la matricola

La matricola nacque nel Medioevo come pubblico registro nel quale erano iscritti, con numerazione progressiva, gli aderenti alle corporazioni di arti e mestieri. Già alla fine del Duecento il termine è attestato anche con il significato di ‘elenco di cittadini idonei al servizio militare’: nell’esercito moderno indica lo stato di servizio di ogni soldato, accompagnato dal numero di matricola, inciso sulla mostrina insieme ai dati personali. Come ‘studente appena entrato all’Università’ è registrato dal Tommaseo (1869).

Nel linguaggio burocratico indica il registro e, poco prima del 1930, il numero assegnato alla persona iscritta. La data merita qualche considerazione. Nel 1931 entrò in vigore il Regolamento degli Istituti di prevenzione e di pena (R.D. 18 giugno 1931, n. 787), noto come Regolamento Rocco, che all’art. 78 (“Come devono essere chiamati i detenuti”) recitava: «Gli imputati sono chiamati col loro cognome. I condannati sono chiamati col numero della loro matricola». La riduzione a numero del recluso rientrava nei meccanismi depersonalizzanti che avevano inizio con la perquisizione e con la siglatura dei dati personali ottenuta non con la firma ma con le impronte digitali. L’applicazione estrema di questo annullamento è il numero tatuato sul braccio sinistro degli internati nei lager nazisti, ridotti in tal modo a Stück, ‘pezzi’. Primo Levi scriveva in Se questo è un uomo: «Häftling: ho imparato che io sono un Häftling. Il mio nome è 174 517; siamo stati battezzati, porteremo finché vivremo il marchio tatuato sul braccio sinistro».

Oggi il diritto al nome è sancito dagli artt. 2 e 22 («Nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome») della nostra Costituzione.

L’identità di carta

Anche l’introduzione della carta d’identità risale al ventennio fascista, all’art. 159 del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza(R. D.del 6 Novembre 1926, n. 1848), compreso sotto il Titolo VI: “Disposizioni relative alle persone pericolose per la società”. Il binomio identificazione-pericolosità sociale, incoerente data l’obbigatorietà del documento, fu modificato già nel Testo Unico del 18 giugno 1931 n. 773 poiché, si osservava nel preambolo, «della carta sono tenute a munirsi anche le persone dabbene per adempiere atti che la legge di polizia vuole controllati, ad esempio: acquisto di armi e munizioni, alloggio negli alberghi, acquisti di oggetti preziosi, ecc.». La carta d’identità è obbligatoria in Italia, ma non in altri Paesi europei, come il Regno Unito e la Francia, dove fu imposta a tutti i cittadini solo nel 1940, sotto il governo di Vichy.

La nuova Carta d’Identità Elettronica (CIE) è dotata di chip e di banda magnetica, cioè di un doppio sistema di memorizzazione. Ha un CIP (Codice di Identificazione Personale), un PIN (Personal Identification Number) e un PUK (Personal Unblocking Key), così come la CSE (Carta Sanitaria Elettronica). La proliferazione di codici è parallela a quella delle sigle, altra garanzia di tecnologica efficienza.

L’identità digitale

L’identità digitale è l’insieme delle informazioni riguardanti una persona fisica, che includono sia i dati anagrafici sia i codici identificativi per l’accesso a servizi di varia natura. Scrive Stefano Rodotà: «“Pezzi” di ciascuno di noi sono conservati nelle numerosissime banche dati dove la nostra identità è sezionata e scomposta, dove compariamo ora come consumatori, ora come elettori, debitori, lavoratori, utenti della strada e così via». Tutti i movimenti dell’individuo digitale sono archiviati in memorie che ne aggiornano il profilo ogni volta che inserisce username e password per acquisti, prestazioni, accesso a un social network. L’elenco di autenticazioni numeriche o alfanumeriche da digitare è tanto più ampio quanto più intensa è la partecipazione alla vita socio-economica. Per ridurre le disperse membra dell’identità digitale è nata in Giappone Juki-Net, la rete informatica che assegna a ogni cittadino un codice identificativo di 11 cifre. Lanciata nel 2002, fu duramente contestata con lo slogan «non siamo numeri» e, con riferimento al controllo del bestiame dopo lo scandalo della “mucca pazza”, «Dieci cifre per le mucche, undici cifre per la gente» («L’Unità», 13 agosto 2002, p. 10).

Il codice a barre

L’evoluzione del numero di serie o di matricola è rappresentato oggi dal codice a barre: il codice EAN (European Article Number) in Europa, l’UPC (Universal Product Code) nei paesi anglosassoni. L’ultima novità è data dal codice a barre bidimensionale detto QR (Quick Response), già adottato da molte pubblicazioni periodiche in Italia per l’accesso alle informazioni on-line. Nel codice a barre le cifre non hanno più un significato numerico ma sono solo uno strumento di rappresentazione generale, il contrassegno astratto di un “pezzo”.

«Non sono un numero, sono un uomo libero!» gridava il protagonista della serie televisiva degli anni Sessanta The Prisoner: per aggiornare la nostra rassegna dovremmo rivendicare oggi di «non essere un codice a barre».

Riferimenti bibliografici

Giorgio Raimondo Cardona, I sei lati del mondo. Linguaggio ed esperienza. Roma-Bari, Laterza, 1985 (p. 113).

GDLI = Grande Dizionario della lingua italiana, a cura di Salvatore Battaglia, Torino, UTET, 1961-2002.

Erving Goffman, Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell'esclusione e della violenza, Torino, Einaudi, 1968 (ed. orig. 1961).

Primo Levi, Se questo è un uomo, Torino, Einaudi, 1989 (p. 23).

John S. Pettersson, La notazione numerica e l’astrazione concettuale, in: Origini della scrittura. Genealogie di un’invenzione, a cura di Gianluca Bocchi e Mauro Cerruti, Milano, Bruno Mondadori, 2002, pp. 235-245.

Aldo Ricci e Giulio Salierno, Il carcere in Italia. Inchiesta sui carcerati, i carcerieri e l’ideologia carceraria, Torino, Einaudi, 1971.

Stefano Rodotà, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto. Milano, Feltrinelli, 2006 (p. 81).

Massimo Squillacciotti (a cura di), Antropologia del numero. Categorie cognitive e forme sociali, Brescia, Grafo edizioni, 1996.

*Elena Pistolesi è ricercatrice di Linguistica italiana presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Modena. I suoi interessi di ricerca attuali riguardano le dimensioni sociolinguistiche dell’italiano contemporaneo, in particolare il rapporto tra scrittura e nuovi media, e i meccanismi linguistici di costruzione dell’identità. Tra le sue pubblicazioni in questi ambiti si ricordano: Il parlar spedito. L’italiano di chat, e-mail e SMS (Padova, 2004); ha curato i volumi: (con S. Schwarze) Vicini/lontani. Identità e alterità nella/della lingua (Frankfurt a. M., 2007), e Lingua scuola e società. I nuovi bisogni comunicativi nelle classi multiculturali (Trieste, 2008).

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