«Vexilla regis prodeunt inferni

verso di noi: però dinanzi mira»,

disse ’l maestro mio, «se tu ’l discerni».                        3

Come quando una grossa nebbia spira,

o quando l’emisperio nostro annotta,

par di lungi un molin che vento gira,                             6

veder mi parve un tal dificio allotta;

poi per lo vento mi ristrinsi retro

al duca mio, ché non li era altra grotta.                          9

Già era (e con paura il metto in metro)

là dove l’ombre tutte eran coperte,

e trasparìen come festuca in vetro.                                12

Altre sono a giacere, altre stanno erte,

quella col capo e quella con le piante;

altra, com’arco, il volto a’ piè rinverte.                         15

Quando noi fummo fatti tanto avante,

ch’al mio maestro piacque di mostrarmi

la creatura ch’ebbe il bel sembiante,                             18

d’inanzi mi si tolse e fe’ restarmi,

«Ecco Dite», dicendo, «et ecco il loco

ov’e’ convien che di fortezza t’armi».                           21

Com’io divenni alor gelato e fioco,

nol dimandar, lettor, ch’io non lo scrivo,

però ch’ogni parlar sarebbe poco.                                 24

Io non mori’, e non rimasi vivo:

pensa oggimai per te, s’ài fior d’ingegno,

qual io divenni, e d’uno e d’altro privo.                        27

Lo ’mperador del doloroso regno

da mezzo il petto uscia fuor de la ghiaccia;

e più con un gigante io mi convegno,                           30

che i giganti non fan con le sue braccia:

vedi oggimai quant’esser dee quel tutto

ch’a così fatta parte si confaccia.                                  33

S’el fu sì bel com’egli è ora brutto,

e contra ’l suo fattore alzò le ciglia,

ben dee da lui procedere ogne lutto.                             36

O‹h› quanto parve a me gran maraviglia

quand’i’ vidi tre facce a la sua testa!

L’una dinanzi, e quella era vermiglia;                          39

l’altre eran due che s’aggiugnìeno a questa

sovresso il mezzo di ciascuna spalla,

e sé giugnìeno al luogo de la cresta;                             42

e la destra parea tra bianca e gialla,

e la sinistra era a veder tal quali

vegnon di là onde ’l Nilo s’avvalla.                             45

Sotto ciascuna uscivan due grand’ali,

quanto si convenia a tanto uccello:

vele di mar non vid’i’ mai cotali.                                48

Non avean penne, ma di vispistrello

era lor modo; e quelle svolazzava,

sì che tre venti si movean da ello:                               51

quindi Cocito tutto s’aggelava.

Con sei occhi piangea, e per tre menti

gocciava il pianto e sanguinosa bava:                         54

da ogne bocca dirompea co’ denti

un peccatore, a guisa di maciulla,

sì che tre ne facea così dolenti;                                   57

a quel dinanzi il mordere era nulla

verso il graffiar, che talvolta la schiena

rimanea de la pelle tutta brulla.                                  60

«Quell’anima là sù ch’à maggior pena»,

disse ’l maestro, «è Giuda Scarïotto,

che ’l capo à dentro e fuor le gambe mena.                63

Degli altri due, ch’ànno il capo di sotto,

quel che pende dal nero ceffo è Bruto:

vedi com’e’ si storce e non fa motto!;                        66

e l’altro è Cassio, che par sì membruto.

Ma la notte risurge, et oramai

è da partir, ché tutto avem veduto».                           69

Come a lui piacque, il collo li avinghiai;

ed el prese di tempo e loco poste,

e quando l’ali fuoro aperte assai,                               72

appigliò sé a le vellute coste;

di vello in vello giù discese poscia,

tra ’l folto pelo e le gelate croste.                               75

Quando noi fummo là dove la coscia

si volge, a punto in sul grosso de l’anche,

lo duca, con fatica e con angoscia,                             78

volse la testa ov’egli avea le zanche,

et aggrappossi al pel com’uom che sale,

sì che ’n inferno i’ credea tornar anche.                     81

«Attienti ben, ché per cotali scale»,

disse ’l maestro, ansando com’uom lasso,

«conviensi dipartir da tanto male».                             84

Poi uscì fuor per lo fóro d’un sasso

e pose me in su l’orlo a sedere;

appresso porse a me l’accorto passo.                          87

Io levai gli occhi, e credetti vedere

Lucifero com’io l’avea lassato,

e vidili le gambe in sù tenere;                                     90

e s’io divenni allora travagliato,

la gente grossa il pensi, che non vede

qual è quel punto ch’io avea passato.                         93

«Lèvati sù», disse ’l maestro, «in piede:

la via è lunga, e ’l cammino è malvagio,

e già il sole a mezza terza riede».                               96

Non era camminata di palagio

là ’v’eravam, ma natural burella

ch’avea mal suolo e di lume disagio.                            99

«Prima ch’io de l’abisso mi divella,

maestro mio», diss’io quando fu’ dritto,

«a trarmi d’erro un poco mi favella:                            102

ov’è la ghiaccia? e questi com’è fitto

sì sottosopra? e come, in sì poc’ora,

da sera a mane à fatto il sol tragitto?».                         105

Et egli a me: «Tu imagini ancora

d’esser di là dal centro, ov’io mi presi

al pel del vermo reo che ’l mondo fóra.                       108

Di là fosti cotanto quant’io scesi;

quand’io mi volsi, tu passasti ’l punto

al qual si traggon d’ogne parte i pesi.                           111

E sè or sotto l’emisperio giunto

ch’è opposito a quel che la gran secca

coverchia e sotto il cui colmo consunto                       114

fu l’uom che nacque e visse sanza pecca;

tu ài i piedi in su picciola spera

che l’altra faccia fa de la Giudecca.                             117

Qui è da man quando di là è sera;

e questi, che ne fe’ scala col pelo,

fitto è ancora sì come prim’era.                                   120

Da questa parte cadde giù dal cielo;

e la terra, che pria di qua si sporse,

per paura di lui fe’ del mar velo,                                 123

e venne a l’emisperio nostro; e forse

per fuggir lui lasciò qui luogo vòto

quella ch’appar di qua, e sù ricorse».                          126

Luogo è là giù da Belzebù remoto

tanto quanto la tomba si distende,

che non per vista, ma per suono è noto                       129

d’un ruscelletto che quivi discende

per la buca d’un sasso ch’egli à roso

col corso ch’egli avolge, e poco pende.                      132

Lo duca et io per quel cammino ascoso

intrammo a ritornar nel chiaro mondo;

e sanza cura aver d’alcun riposo,                                135

salimmo sù, ei primo et io secondo,

tanto ch’i’ vidi de le cose belle

che porta il ciel, per un pertugio tondo.

E quindi uscimmo a riveder le stelle.                        139

3 [mio] Pal [In Rb mancano i vv. 3-139]  6 dalungi Ham – chel u. La Ham Urb Mad [V P]   8 a retro Ham Laur, arretro Pal   9 no gli era La, no(n) ueraltra Ham, no(n) giera Mad   11 eran tucte Ham   12 tralucean Ham – festuche Urb Mad   13 sono erte Urb Mad Pal   14 [e] quella Ham   15 il capo Ham – apiedi i(n)uerte Lar Mad (ai), co(n)uerte Laur   20 (et) eccho La   21 doue Triv   22 Come deueni Mad   25 ne no(n) Ham   26 omai La (rev. agg. -gi-) Mad – [per te] se tu ai Ham   27 rimasi Pal   29 dal meçço Laur – usci Mad   30 piu che co(n) g. Laur   31 Chei no(n) facea co(n) ambe le sue b. Ham – no(n) fanno cole b. Laur, non fan co(n) le b. Pal (sue agg. a marg.)   32 pensa Triv – oramai Laur   34 Se (leggi S’e’) Ham Laur – bello Triv La (rev. bel) Mad Pal – comelli era La (rev. comello e ora), come lie ora Mad, come hora Pal   35 encontra il Ham, e contro al Pal   38 quandio Triv La Mad Laur [V P], quando Mart* Ham Urb Pal   40 s’aggiungeno Mart* – sagiugnean co(n) q(ue)sta Laur   41 souresso meçço La, di sopra il m. Ham – catuna Laur   42 se giungeno Mart, sagiungeano Ham, sagiungieno Urb, soggiugnieno Pal – al colmo de la testa Ham   43 E a La (rev. Et la)   44 la sinistra a ueder era Lar Urb (-re) Mad [V P], laltrera uerde a ueder Laur – tra le q. Laur   45 oue lo Mad, ouel Laur   47 quante Ham   48 uid’io Mart* [V P], uidio La Mad, uidi io Ham Urb   49 hauen Mart*   50 q(ue)ste Laur – su alçaua La (rev. suolaçaua), sollaççaua Ham, in su lanciaua Urb, i(n) su lançaua Mad, sollaccaua Laur   51 che du gran uenti Ham   53 p(er) sei Laur – da tre Ham, con tre Mad   54 gocciaua sangue Laur (rev. agg. al petto a marg.)   58 A quel di meggio Urb   61 la giu Mad   63 cal capo dentro Urb (il) Laur   65 dal ceffo nero Laur   66 comel Mad – si torce Laur   67 Quel autro Ham   71 et ei Urb, ed e Laur (leggi ed e’) – il luogo Ham, el luogo Laur – e poste La (rev. esp. e) Ham Urb Laur   75 le uellute choste Ham, le gelate coste Laur   77 si uoglie Laur – [in] Urb   79 [avea] Laur   80 agropposi Ham, agroppossi Urb Laur, agropossi Mad   82 che si fatte scale Laur   83 chome l. Ham   84 co(n)uienti Ham   85 un foro Urb   90 (et) io il uidi Ham   91 Sio Ham Mad   93 auie lasciato Laur   94 Leuati disse il mio maestro Urb – suso Mad   98 [la] oue Ham Laur (ou-) Pal, doue Urb   99 [ch’] Laur   100 Pria Ham Laur – che de Urb Laur Pal – disuella Laur   101 cominciai io a dir Urb   102 a trarmi dietro Ham   103 Doue Ham (leggi Dov’è)   105 el suo tragitto Laur   106 Et quelli a me tu timagini Ham   107 ondio La (rev. ouio)   108 del mo(n)do reo Laur   109 quanto s. Ham Urb   110 quando mi Ham Urb   113 che e ex che La, che ee Mad – contraposto Mart* Triv Ham Urb Laur [V P], opposto La (rev. apposto), oposito Mad   114 [e] Ham – e consunto Laur   115 uinse Ham   117 laltra parte Urb   118 doman Ham, diman Urb – di la e da seira Mad   119 fa La (rev. fe)   120 si chome q(ui) era Ham, come p(ri)ma sera Laur – in prima era Urb   122 si porse Laur   124 uostro Mad – [e] forse Ham   125 lascio quel luogho Ham   126 di la Mad Pal   128 si discende Ham (leggi )   131 boccha Ham, bocha Mad Laur   132 al chorso Ham – auogle Laur – [e] Ham   133 nascoso Laur   136 suso Urb Pal – el primo Mart Triv La Ham [V P], eli primo Mad, e primo Laur (leggi e’)

4 quando Triv Pal] quand’ Mart*   5 emisperio Triv Pal] hemisperio Mart*   7 allotta Triv Pal] allhotta Mart*   13 sono Triv Pal] son Mart* – stanno Triv] stann’ Mart*   16 fummo Mart* Triv] fumo Pal   21 fortezza Mart* Triv] forteça Pal   22 alora Triv, alhor Pal] allhor Mart*   23 io Pal] ch’i Mart*, chi Triv   28 Lo ’mperador Mart* Triv] L imp(er)ador Pal   29 mezzo il Triv Pal] mezzo ’l Mart* – de la Mart* Pal] della Triv   31 che i Pal] Ch’e Mart*, Che Triv (leggi che ’) – con le Mart* Pal] colle Triv   32 oggimai Triv Pal] hoggimai Mart*   32 quant’esser Mart* Triv] qua(n)to ess(er) Pal – dee Mart*] de Triv, dia Pal   33 ch’a Mart* Triv] che a Pal   34 egli Mart*] elli Triv – ora Mart* Triv] hora Pal   35 suo Triv Pal] su Mart*   36 dee Mart*] dee Triv, dia Pal – procedere Pal] proceder Mart* Triv – ogne Pal] ogni Mart* Triv   39 altre Pal] altr’eran Mart*, altreran Triv – s’aggiugnìeno Pal] saggiungneno Triv   41 il Pal] l Mart* Triv   42 giugnieno Pal] giungneno Triv – de la Mart* Pal] della Triv   45 onde ’l Mart Triv] onde il Pal – avvalla Pal] aualla Mart* Triv   46 grand’ali Mart* Triv] grandi ali Pal   47 tanto Triv Pal] tant’ Mart*   50 svolazzava Mart* Triv] suolaçaua Pal   52 s’aggelava Mart* Pal] sagelaua Triv   54 gocciava il Pal] gocciaua’l Mart*, gocciaua l Triv   55 ogne Pal] ogni Mart* Triv – bocca Mart* Triv] boca Pal – co’ Mart* Pal] coi Triv   56 peccatore Triv] peccator Mart* Pal   58 mordere Triv Pal] morder Mart*   59 verso il Pal] Verso ’l Mart*, verso l Triv   60 de la Mart*] della Triv Pal   61 Quell’ Mart* Triv] Quel Pal   62 ’l Mart* Triv] il Pal – Scarïotto Mart* Triv] scarioctho Pal   64 Degli Mart*] Delli Triv Pal – il Triv Pal] ’l Mart*   67 l’altro Triv Pal] laltr’ Mart*   68 oramai Triv] horamai Mart* Pal   69 avem Pal] hauem Mart*, auen Triv   70 Come a Pal] Com’a Mart*, Coma Triv – gli Mart*] li Triv Pal – avinghiai Mart* Triv] auuinghiai Pal   71 ed Pal] Et Mart*, (et) Triv   73 appigliò Mart*] Apiglio Triv, Adpiglio Pal   79 egli Mart*] elli Triv Pal – avea Triv Pal] hauea Mart*   80 aggrappossi Mart* Pal] agrappossi Triv – uom] huom Mart* Pal, om Triv   81 ’n Mart* Triv] in Pal – i’ Mart* Triv] io Pal – tornar Mart* Triv] tornare Pal   83 ’l Mart* Triv] il Pal – com’ Mart* Triv] come Pal – uom] huom Mart* Pal, om Triv   88 Io Triv Pal] I Mart* – gli Mart* Pal] li Triv   89 io Triv Pal] i Mart* – avea Triv Pal] hauea Mart* – lassato Pal] lasciato Mart* Triv   91 allora Triv] allhora Mart*, alhora Pal   92 grossa il Mart* Triv] grossal Pal – avea Pal] hauea Mart*, auea Triv   95 cammino Triv Pal] camino Mart   98 Là ’v’ Mart*] laoue Triv   99 avea Triv Pal] hauea Mart*   100 abisso Mart*] abbisso Triv, abysso Pal   104 in Triv Pal] ’n Mart* – poc’ora Triv] poc’hora Mart*, poca hora Pal   104 il Triv Pal] ’l Mart*   106 egli Mart*] elli Triv Pal – imagini Mart*] ymagini Triv Pal – ancora Triv Pal] anchora Mart*   110 ’l Mart* Triv] il Pal   111 ogne Pal] ogni Mart* Triv   112 or Triv] hor Mart*, hora Pal   114 il Pal] sotto ’l Mart*, soctol Triv   115 uom Triv] huom Mart* Pal   116 ài Triv Pal] hai Mart*   117 de la Mart* Pal] della Triv   120 fitto è ancora Triv Pal] Fitt’è anchora Mart* – prim’era Mart* Triv] prima era Pal   127 remoto Mart Triv] rimoto Pal   131 egli Mart*] elli Triv Pal – à Triv Pal] ha Mart*   132 egli Mart*] elli Triv Pal   133 cammino Pal] camino Mart*, cammin Triv   135 aver Triv Pal] hauer Mart*   137 i’ Mart* Triv] io Pal – de le Mart* Pal] delle Triv   138 il Triv Pal] ’l Mart*   139 uscimmo Mart* Pal] uscimo Triv

Parafrasi

[1-15] Vexilla regis prodeunt inferni [‘Le insegne del re dell’inferno avanzano’] verso di noi: perciò guarda davanti», disse il mio maestro, «se riesci a distinguerlo». Come quando una spessa nebbia si leva, o quando si fa notte nel nostro emisfero, appare di lontano un mulino a vento, in quel momento mi sembrò di vedere un tale ordigno; poi per il vento mi ristrinsi dietro alla mia guida, perché non vi era altro riparo. Ero già (e con paura lo metto in versi) là dove le anime erano tutte coperte [dal ghiaccio], e trasparivano come una pagliuzza nel vetro. Alcune sono distese, altre stanno dritte, questa col capo e quella con le piante; altre rovesciano il volto verso i piedi, ad arco.

[16-60] Quando ci fummo spinti tanto avanti che il mio maestro volle mostrarmi la creatura un tempo dotata di bellezza in sommo grado, mi si tolse di fronte e mi fece fermare, dicendo: «Ecco Dite, ed ecco il luogo in cui devi armarti di coraggio». Non chiedere, lettore, come allora io divenni freddo e afono, ché non lo scrivo, perché ogni parola sarebbe insufficiente. Io non morii, ma non rimasi in vita: dunque pensa da te, se hai un po’ d’ingegno, come io divenni, privo sia della morte sia della vita. L’imperatore del regno del dolore usciva fuori dal ghiaccio a mezzo busto; e sono più simile io a un gigante che i giganti alle sue braccia: dunque vedi quanto deve essere quel tutto che si convenga a una parte così grande. Se egli fu così bello come ora è brutto, e sollevò lo sguardo contro il suo creatore, è giusto che da lui proceda ogni pianto. Oh quanto mi meravigliai quando vidi tre facce sulla sua testa! L’una davanti, e quella era di un rosso acceso; le altre due si aggiungevano a questa sulla metà di ciascuna spalla, e si ricongiungevano nel punto in cui alcuni animali hanno la cresta; e la destra sembrava tra bianca e gialla, e la sinistra alla vista era identica al colore delle genti che provengono dalla regione [l’Etiopia] da cui il Nilo scende a valle. Sotto ogni faccia spuntavano due grandi ali, quanto si addiceva a un così grande uccello: io non vidi mai vele di nave di pari dimensioni. Non avevano penne, ma erano del tipo dei pipistrelli; e le svolazzava in modo da produrre tre venti: da lì Cocito tutto si congelava. Con sei occhi piangeva, e gocciolava per tre menti le lacrime e una bava intrisa di sangue: da ogni bocca triturava coi denti un peccatore, alla stregua di una gramola, così da torturarne tre; per quello davanti i morsi erano nulla rispetto ai graffi, che a volte la schiena rimaneva tutta spoglia della pelle.

[61-69] «Quell’anima lassù che più soffre», disse il maestro, «è Giuda Iscariota, che ha dentro il capo e fuori dimena le gambe. Degli altri due, che hanno il capo di sotto, quello che pende dal muso nero è Bruto: vedi come si contorce e non favella!; e l’altro è Cassio, che appare così muscoloso. Ma la notte ricomincia, e ormai bisogna partire, ché abbiamo visto tutto».

[70-99] Secondo il suo volere, gli avvinghiai il collo; ed egli aspettò tempo e luogo opportuni, e quando le ali furono abbastanza aperte, si appigliò al costato peloso; poi discese di vello in vello, tra il pelo folto e le croste ghiacciate. Quando arrivammo dove la coscia si piega, nel punto in cui le anche si ingrossano, la guida, con fatica e con affanno, volse la testa dove egli aveva le zampe, e si aggrappò al pelo come chi sale, così che credevo di ritornare all’inferno. «Tienti forte, ché per tali scale», disse il maestro, ansimando come chi è stanco, «ci si deve allontanare da un male così grande». Poi uscì fuori per il buco di una roccia e mi fece sedere sull’orlo; indi mi si avvicinò con cautela. Io alzai lo sguardo, e credetti vedere Lucifero come l’avevo lasciato, e invece gli vidi tenere le gambe all’insù; e se io allora mi angustiai, lo pensi la gente rozza, che non vede qual è quel punto che avevo oltrepassato [il centro della Terra]. «Àlzati», disse il maestro, «in piedi: la via è lunga, e il cammino è cattivo, e il sole già ritorna a metà dell’ora terza [circa le sette e mezzo antimeridiane]». Non era la sala spaziosa di un palazzo là dove eravamo, ma un sotterraneo naturale dal suolo malagevole e con poca luce.

[100-126] «Prima che mi allontani dall’abisso, maestro mio», dissi quando mi alzai, «parlami un poco per liberarmi dall’errore: dov’è la distesa ghiacciata? e questi com’è confitto così sottosopra? e come ha fatto il sole, in così poco tempo, a percorrere lo spazio dalla sera alla mattina?». Ed egli a me: «Tu ancora immagini di essere di là dal centro [della Terra], dove mi sono aggrappato al pelo del verme malvagio che perfora il mondo. Sei stato di là per il tempo della mia discesa; quando mi sono rigirato, tu hai oltrepassato il punto verso il quale da ogni parte sono attratti i pesi. E ora sei giunto sotto l’emisfero celeste che è opposto a quello che copre la grande secca [le terre emerse] e sotto il cui zenith [sul Golgota di Gerusalemme] fu ucciso l’uomo che nacque e visse senza peccato [Gesù Cristo]; tu hai i piedi su una ristretta area circolare che corrisponde all’altra parte della Giudecca. Qui è mattino quando di là è sera; e questi, che ci ha fatto scala col pelo, è ancora confitto come era prima. Da questa parte cadde giù dal cielo; e la terra, che prima di qua si era sollevata, per paura di lui si velò con il mare, e raggiunse il nostro emisfero; e forse, per fuggire da lui, la terra che appare di qua lasciò qui spazio vuoto, e risalì in fretta verso l’alto».

[127-139] Laggiù c’è un luogo tanto lontano da Belzebù quanto la sua tomba si distende, che non è noto per la vista, ma per il suono di un ruscelletto che lì discende attraverso la fenditura di una roccia che ha roso con il suo corso a spirale, e ha poca inclinazione. La mia guida e io entrammo in quel sentiero nascosto per ritornare nel mondo illuminato; e salimmo, senza badare a riposarci, lui primo e io secondo, finché non vidi alcune bellezze del cielo attraverso un pertugio rotondo. E di lì uscimmo per rivedere le stelle.

1 – All’incipit dell’inno scritto da Venanzio Fortunato per la reliquia della Santa Croce (a Poitiers, nel 568) Virgilio aggiunge il genitivo inferni, anticipando il tema del rovesciamento, che caratterizza la descrizione di Lucifero, in quanto immagine speculare della Trinità. Nella terza redazione del commento di Pietro Alighieri l’inno in questione è attribuito ad Ambrogio.

4 – Similitudine antitetica a quella di If 31.34-36, in cui si descrive il disvelamento dell’oggetto avvolto nella caligine: «Come quando la nebbia si dissipa, / lo sguardo a poco a poco raffigura / ciò che cela ’l vapor che l’aere stipa». In entrambi i casi l’esperienza terrena è richiamata nel confronto con creature di dimensioni ciclopiche, i giganti e Lucifero.

6 – Più difficile l’assenza dell’articolo determinativo, per cui cfr. «e cigola per vento che va via» (If 13.42), «pur come quella cui vento affatica» (If 26.87 [cui il v. Ham]), «Questo tuo grido farà come vento» (Pd 17.133 [il v. Ham, ’l v. Po]), «e sì com’al pertugio / de la sampogna vento che penètra» (Pd 20.23-24).

8 – Per l’assenza della preposizione (qui richiamata dal sintagma successivo, al duca mio) cfr. «Certo non chiese se non “Viemmi retro”» (If 19.93), «Parte sen giva, e io retro li andava» (If 29.16), «lo giovanetto che retro a lui siede» (Pg 7.116), «pregando Stazio che venisse retro» (Pg 27.47).

9 – Se l’avverbio locativo fosse tonico, avremmo dialefe, come a Pg 24.67 («così tutta la gente che lì era») e 27.59 («sonò dentro a un lume che lì era») o a Pd  18.71 («lo sfavillar de l’amor che lì era»). Petrocchi pone l’accento grafico, ma precisa in nota che «è meramente diacritico». Anche a If 23.54 va letto atono: «sovresso noi; ma non li era sospetto». Resta ancora valida l’ipotesi del passaggio dal pronome dativo all’avverbio di luogo (Ernesto Giacomo Parodi, Lingua e letteratura. Studi di Teoria linguistica e di Storia dell’italiano antico, a cura di Gianfranco Folena, I, Venezia, Neri Pozza, 1957, pp. 261-262), per cui cfr. i rimanti enclitici perderagli (Pg 13.152) e saragli (Pd 25.124), in cui -gli vale vi, nonché a questo verso le varianti di La e Mad. Andrà notato che Dante è il primo a usare in rima il sostantivo grotta/-e, che torna ben otto volte in fine di verso nel poema, soprattutto nell’accezione di ‘roccia, rupe, strapiombo’; qui però vale ‘antro, rifugio’.

12 – La similitudine reifica i dannati della Giudecca, non degni di essere paragonati ad animali, ma solo a pagliuzze nel vetro. Alla similitudine ovidiana di Met. 4.354-355 («in liquidis translucet aquis, ut eburnea siquis / signa tegat claro vel candida lilia vitro», il corpo di Ermafrodito nell’acqua, simile a una statua o a candidi gigli in un vetro) si aggiunge l’esperienza visiva di manufatti in vetro soffiato, che al loro interno imprigionano esili materiali colorati.

13 – Per l’alternanza di essere e stare nel medesimo periodo cfr. «Come talvolta stanno a riva i burchi, / che parte sono in acqua e parte in terra» (If 17.19-20).

14-15 – Si tratta di pose innaturali, che corrispondono al peccato più turpe, il tradimento dei massimi benefattori, siano essi autorità politiche o religiose.

18 – L’articolo determinativo davanti all’aggettivo ha funzione modellizzante, dunque elativa: la bellezza per eccellenza. Cfr., al contrario, con accezione più limitata (l’espressione del volto), «un bel sembiante» di VN 5.21 (Ballata, i’ vo’, v. 42). Bono Giamboni si sofferma sull’aspetto dell’angelo ribelle: «Dopo l’arbitrio dato e conceduto, Lucifero, veggendosi così bello e lucente, insuperbio, e volle porre la sua sedia allato a quella di Dio» (Il Libro de’ Vizî e delle Virtudi, cap. 38).

25 – Nella lirica d’amore è topica la coesistenza di morte e vita: cfr. la domanda «Donc mor e viu?» al v. 7 della canzone A vos, midontç di Folchetto di Marsiglia, alla quale corrisponde il v. 10 di Madonna, dir vo voglio di Giacomo da Lentini («Dunque mor’e viv’eo?»). Ma qui si negano entrambe, con un paradosso ancora più forte, che rinvia alla condizione stessa dei dannati, cui è negata sia la dissoluzione totale (fine di ogni pena) sia la vita nella grazia e nell’amore di Dio. La visione di Lucifero comunica, al massimo grado possibile, il tormento di tutte le anime dell’inferno.

27 – A parità di echi (rimasi al v. 25 e divenni al v. 22), si impone la coerenza tra i due imperativi: «Com’io divenni […] nol dimandar» e «pensa oggimai per te […] qual io divenni»). Di Pal va invece salvata la correlazione, tenuto anche conto della facile caduta di e in sinalefe: cfr. «e d’una parte e d’altra» (If 7.26), «e d’una e d’altra parte» (Pg 10.8).

28 – La cantica si apre e si chiude con la metafora dell’imperatore ultraterreno: a 1.124 è Dio («quello imperador che là su regna»), qui è Satana.

34 – La scriptio plena dell’aggettivo determina ipermetria (vd. Triv), risolta con l’omissione del pronome egli/elli (vd. Pal) o di ora (vd. La). Per il sintagma sì bel (ma in funzione avverbiale) cfr. R 7.16: «sì bel, ch’Amor li viene a stare all’ombra».

35 – Gesto di superbia, ma anche di animo fiero, come in Farinata: «ond’ei levò le ciglia un poco in suso» (If 10.45). Nel Liber de doctrina dicendi et tacendi di Albertano da Brescia si legge: «Observandum est ut recta sit facies, ne labia detorqueantur nec immodicus hiatus nec supinus vultus nec eiecti in terra oculi nec inclinata cervix nec elevata aut depressa supercilia, quia nichil potest placere quod non deceat» (a cura di Paola Navone, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 1998, p. 34). Cfr. il volgarizzamento dugentesco: «Et è da observare che quando dici la faccia sia diricta, le labbra non si torcano isconvenevilemente, né non facci grandi movimenti di persona, né -l volto sia chinato, né lli occhi gictati in terra, né -l capo chinato, né lle ciglia siano soperchio chinate né soperchio levate in su tanto che non si convegna» (Francesca Faleri, Il volgarizzamento dei trattati morali di Albertano da Brescia secondo il ‘codice Bargiacchi’ (BNCF II.III.272), «Bollettino dell’Opera del Vocabolario Italiano», XIV, 2009, p. 211).

38 – I tre volti sono l’antitesi della Trinità, con colori che rappresentano il contrario delle virtù divine, amore (il rosso acceso dell’odio o dell’ira), potenza (il giallastro dell’impotenza), sapienza (il nero dell’ignoranza), menzionate nella scritta della porta infernale (If 3.5-6). Per le probabili fonti iconografiche basti citare il Giudizio di Coppo di Marcovaldo (attivo fino al 1276), nel Battistero di Firenze, con due serpenti che fuoriescono sotto le corna di Satana, ingoiando due dannati con la testa di fuori, mentre la bocca principale mastica il capo e il busto di un’anima (vd. Laura Pasquini, La rappresentazione di Lucifero in Dante e nell’iconografia medievale, in «Il mondo errante». Dante fra letteratura, eresia e storia. Atti del Convegno internazionale di studio. Bertinoro, 13-16 settembre 2010, a cura di Marco Veglia, Lorenzo Paolini e Riccardo Parmeggiani, Spoleto, Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo, 2013, pp. 283-285).

44 – Facile la caduta della congiunzione iniziale, che crea una triplice anafora, seppure debole; avrà contribuito anche l’infinito scritto senza apocope. Dirimente la valutazione sulla parola in cesura: sinistra merita più enfasi di vedere.

46 – Dell’ordine dei Serafini Lucifero mantiene le sei ali (cfr. Pd 9.76-78), ma simili a quelle del pipistrello.

52 – Verosimilmente l’immagine virgiliana («Cocyti stagna alta» [Aen. 6.323]) ha contribuito a trasformare il fiume mitologico in una distesa d’acqua ferma, come si evince da If 14.119-120 («e qual sia quello stagno / tu lo vedrai»), dopo la menzione dei tre fiumi infernali (Acheronte, Stige e Flegetonte) da cui si forma Cocito. Il gelo che spira da Lucifero è l’esatto opposto dell’ardore di carità che anima le intelligenze celesti. Interessante anche la suggestione della Visio Tnugdali (XI secolo): «Tnugdalo vide anche un altro demone con due piedi e due code, naso lungo, becco e artigli di ferro; questa bestia sedeva su uno stagno ghiacciato e divorava tutte le anime che riusciva ad afferrare; le anime macerate nel ventre del mostro venivano poi espulse sul ghiaccio, rivivevano e andavano incontro a nuovi tormenti» (Pasquini, La rappresentazione di Lucifero, cit., p. 275). Da ultimo, si consideri l’espressione metaforica dell’epistola di san Girolamo ad Eustochio: «et devorato Juda, ad cribrandos Apostolos expetit potestatem» (Ep. 22), mantenuta nel volgarizzamento di Domenico Cavalca: «Ed avendo [il diavolo] divorato Giuda, anche procurò di tentare e far cadere gli altri apostoli» (cap. 2).

54 – Il verbo sarà transitivo, con lo stesso soggetto di piangea e dirompea: cfr. «d’una fessura che lagrime goccia» (If 14.113).

62 – A proposito del Giudizio del Battistero fiorentino, Laura Pasquini (cit., p. 284) osserva: «Si tratta, è ben vero, a Firenze, di comuni dannati senza nome [quelli maciullati da Lucifero], ma Giuda è pur presente nel mosaico, impiccato e con il nome inscritto a fianco, nella porzione destra della scena». La forma Scariotto è già nel volgarizzamento del Tresor di Brunetto Latini, ad opera di Bono Giamboni: «Giuda Scariotto traditore» (l. 2, cap. 23).

66 – In Bruto il tormento si accompagna a una stoica sopportazione, secondo il ritratto di Lucano: «At non magnanimi percussit pectora Bruti / terror et in tanta pavidi formidine motus / pars populi lugentis erat» (Phars. 2.234-236 [“Ma il timore non percosse il petto del magnanimo Bruto, né egli era fra il popolo che piangeva, in così grande timori di moti, pauroso”, trad. di Libera Carelli]).

67 – «Nel poema l’attributo ricorre due volte con rif., in entrambi i casi, a personaggi storici. La connotazione di uomo dotato di prestanza fisica con cui il poeta allude a Pietro III d’Aragona a Purg. 7.112 appare in linea con l’iconografia trad. del personaggio trasmessa dalle fonti storico-letterarie antiche» (VD, s. v., a cura di Barbara Fanini). Al contrario, l’immagine di un Cassio membruto risulta meno coerente con la caratterizzazione del tirannicida nella storiografia latina. Tuttavia Saverio Bellomo (D. A., Inferno, Torino, Einaudi, 2013) ha addotto, in nota al verso, un passo di Velleio Patercolo: «Fuit autem dux Cassius melior quanto vir Brutus: e quibus Brutum amicum habere malles, inimicum magis timeres Cassium; in altero maior vis, in altero virtus» (Historiae Romanae 2.72 [“Cassio era tanto migliore come condottiero di quanto lo fosse Bruto come uomo: avresti scelto per amico Bruto, avresti temuto più Cassio come nemico; nell’uno più forza, nell’altro più virtù”, trad. mia]). Oltre a questo brano, che non sappiamo se fosse noto a Dante, avrà pesato la volontà di sottolineare la complessione fisica in relazione al tirannicidio: «Et compliti doi anni e mieso ne lo palazo de Pompeio, nanti la statoa de Pompeio, Obruto e Cassio con molte ferute occisero Cesare in presentia de li senatori» (Storia de Troia e de Roma, cod. Laurenziano, p. 259).

71 – La locuzione prendere poste di ‘aspettare appostati’, priva di altre attestazioni, risentirà del significato venatorio di posta, per cui cfr. If 13.113: Virgilio studia i movimenti della bestia infernale per sfruttarli a suo vantaggio.

79 – Zanca è sostantivo di etimo incerto, fortemente connotato rispetto a gamba. A If 19.45 il papa simoniaco Niccolò III è definito «quel che si piangeva con la zanca».

89 – Per il sicilianismo lassato cfr. «e voi, donne, à lassate» (VN 20.10_, Li occhi dolenti_, v. 17).

95 – «La durata del viaggio dei due poeti dal centro della terra all’isola del purgatorio è di ventuna ore, dalla mattina del 10 aprile (cfr. v. 96) all’alba del giorno seguente […] essi impiegano dunque a risalire dal centro quasi lo stesso tempo ch’era bisognato a discendere» (Casini-Barbi). Virgilio lascia presupporre che la natural burella (una sorta di lungo cunicolo) si distenda per vari chilometri, lungo un terreno accidentato, senza sufficiente visibilità («mal suolo e di lume disagio»).

96 – Il significato di mezza terza non si allontana da quello della liturgia delle ore, anche alla luce del seguente passo del Convivio: «Intorno alle parti del giorno è brievemente da sapere che […] la Chiesa usa, nella distinzione delle ore del die temporali, che sono in ciascuno die dodici, o grandi o picciole secondo la quantitade del sole; e però che la sesta ora, cioè lo mezzo die, è la più nobile di tutto lo die e la più virtuosa, li suoi officii appressa quivi da ogni parte, cioè da prima e di poi, quanto puote. E però l’officio della prima parte del die, cioè la terza, si dice in fine di quella; e quello della terza parte e della quarta si dice nelli principii. E però si dice “mezza terza” prima che suoni per quella parte; e “mezza nona” poi che per quella parte è sonato; e così “mezzo vespero”» (4.23.15-16). Dunque mezza terza indica, all’incirca, le ore sette e trenta antimeridiane.

98 – Dalla descrizione di 127-139 si desume che il ruscelletto grazie al quale Dante e Virgilio raggiungono la superficie si trova in un posto «da Belzebù remoto / tanto quanto la tomba si distende»; la maggior parte dei commentatori identifica la tomba nella natural burella del v. 98, generatasi per effetto della caduta di Lucifero stesso.

113 – Petrocchi, pur ammettendo che opposito è termine «del linguaggio scientifico (cfr. Inf. vii 32; Purg. ii 4; viii 32; xv 17, e vedi nella Questio soprattutto xvi 36)», sceglie contraposto perché privo di altre attestazioni dantesche e facilmente sostituibile per ragioni paleografiche (9posto > oposto). Tuttavia il verbo contra(p)porre è già attestato nel 1268 (vd. TLIO, s. v.); inoltre la dialefe (cfr. è Opizzo [If 12.111]) e la sincope dell’atona (ch’è opposto, cui Vat rimedia con ched è) potrebbero aver spinto alcuni copisti a preferire un prefisso con consonante iniziale. La lezione di Mad e Pal dà rilievo al dimostrativo (a quel || che la gran secca), come in diversi passi della prima cantica: cfr. 6.99 («udirà quel || ch’in etterno rimbomba»), 10.98 («dinanzi quel || che ’l tempo seco adduce), 16.3 («simile a quel || che l’arnie fanno rombo»), 20.46 («Aronta è quel || ch’al ventre li s’atterga»), 21.12 («le coste a quel || che più vïaggi fece»), 21.26 («di veder quel || che li convien fuggire»), 25.151 («l’altr’era quel || che tu, Gaville, piagni»); cfr. anche Pg 6.144, 10.119, 11.27, 13.148, Pd 2.58, 17.75, 17.116.

117 – Il toponimo discende dall’antigiudaismo medievale, che in Dante trapela anche dal poliptoto di Pd 5.81 («sì che ’l Giudeo di voi tra voi non rida»). Il ghetto degli ebrei era chiamato Iudaica o Iudeca, come a Venezia all’inizio del XIV secolo. «Questa voce Giudeca, usata nel settentrione e nel mezzogiorno d’Italia, non poteva essere ignota a Dante. Il quale, sostituito nel suo spirito il primitivo Giudeca con Giuda, non esitò a servirsi del derivato già pronto per dare un nome alla creazione della sua fantasia» (Carlo Salvioni, Giudecca, «Bullettino della Società Dantesca Italiana», n.s., VII [1899-1900], pp. 258-259). Va altresì ricordato che «il termine concreto “giudeo” è dotato di risonanze più ampie e a volte equivoche. Infatti vi sono usi linguistici in cui la parola “giudeo” è impiegata come equivalente di “ebreo” senza alcuna sfumatura differenziante (ciò vale, ad esempio, per l’inglese jew), mentre in altri casi essa è contraddistinta da un senso dispregiativo. In ambito cristiano tale esito va, in buona misura, ascritto agli influssi, diretti o remoti, imputabili alla scelta di alcuni testi del Nuovo Testamento, in particolare del vangelo di Giovanni, di ricorrere a tale parola per riferirsi agli increduli e agli avversari di Gesù. Inoltre, a livello popolare, quest’associazione è stata favorita dall’assonanza tra la parola “giudeo” e Giuda Iscariota, il traditore di Gesù» (Piero Stefani, L’antigiudaismo. Storia di un’idea, Roma-Bari, Laterza, 2004, cap. 1, § 1). Nel poemetto Il mare amoroso l’ingratitudine della donna amata trova un termine di paragone proprio negli ebrei: «Il vostro nome, ch’è chiamato dea, / saria mai sempre chiamato Giudea, / a simiglianza di Giuda giudeo / che tradì Gesù Cristo per un bascio» (vv. 319-322).

127 – Nel De scriptura nigra di Bonvesin da la Riva si legge: «Denanz dal Belzebub,   il pozo profundao, / lo qual è nostro prencepo» (vv. 213-214), con allusione evangelica («quoniam Belzebub habet et quia in principe daemonum eicit daemonia» [Mc 3.22]). Giustamente Matteo Leonardi (curatore dell’edizione commentata del Libro delle Tre Scritture [Longo Editore, Ravenna, 2014]) ricorda il «pozzo assai largo e profondo» di If 18.5.

136 – Cfr. «ei lieve e io sospinto» (If 24.32).

139 – Non a caso la cantica si chiude recuperando una delle prime rime della poesia delle Origini: «Laudato si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle: / in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle» (S. Francesco, Laudes creaturarum, vv. 10-11).

Sintesi critica

Protagonista indiscusso del canto è il principe degli angeli ribelli, nominato tre volte, secondo l’uso pagano (Dite [20], ovvero Ade o Plutone, il dio degli inferi dei Romani), cristiano (Lucifero [89], dalla Vulgata di Girolamo [Isaia 14.12]) ed ebraico (Belzebù [127], ‘signore delle mosche’). Anche il diavolo subisce la pena del contrappasso: voleva farsi Dio, ed eccolo precipitato al centro della Terra, in fondo all’imbuto infernale, confitto nel Cocito che lui stesso congela, con tre volti diversi (vermiglio, nero, giallastro), quasi grottesca deformazione del modello trinitario. Non ha diritto di parola, come le anime ghiacciate sparse intorno, considerato il fatto che hanno tutti raggiunto il punto più basso della bestialità umana, rinnegando Dio e l’Impero. Nella comparazione relativa alle dimensioni di Satana, la gradazione ascendente (Dante-giganti-Lucifero) parrebbe sottendere un crescendo di superbia, vizio tanto più pericoloso quanto migliori sono le doti innate della creatura («S’el fu sì bel com’egli è ora brutto»). Beatrice dirà lo stesso di Dante: «questi fu tal ne la sua vita nova / virtüalmente, ch’ogne abito destro / fatto averebbe in lui mirabil prova. // Ma tanto più maligno e più silvestro / si fa ’l terren col mal seme e non cólto, / quant’elli ha più di buon vigor terrestro» (Pg 30.115-120). Le ottime potenzialità del poeta, favorite dal segno zodiacale dei Gemelli, lo espongono al peccato più grave, all’aperta ribellione intellettuale; nella fattispecie, due sono le tentazioni per Dante: la prima, a livello più o meno inconscio, è la negazione dell’immortalità dell’anima, sulla scorta dell’averroismo di Guido Cavalcanti, il cui padre crede che Dante possa visitare l’oltretomba «per altezza d’ingegno» (If 10.59); la seconda, del tutto consapevole, intimamente connessa alla perdita della fede e centrale nell’episodio succitato del Purgatorio, è il tradimento di «quella viva Beatrice beata» (Cv 2.8.7), negletta da Dante, dopo la sua morte, per altri pensieri («o pargoletta, / o altra novità con sì breve uso» [Pg 31.59-60]).

La seconda parte del canto (70-139), pur potendo apparire vincolata a mere esigenze narrative (la risalita in superficie), nondimeno si fonda anch’essa sulla figura dell’angelo ribelle, la cui caduta è causa dell’emersione sia delle terre nel nostro emisfero sia della montagna purgatoriale nell’altro. Questione dibattuta anche nella Questio de situ et forma aque et terre, trattatello in cui Dante fornisce una spiegazione del problema delle terre emerse puramente naturale, attribuendo il fenomeno all’influsso del cielo delle stelle fisse, «sive elevet per modum attractionis, ut magnes attrahit ferrum, sive per modum pulsionis, generando vapores pellentes, ut in particularibus montuositatibus» (Q 73 [“sia che elevi per modo di attrazione, come il magnete attrae il ferro, sia per modo di pulsione, col generare vapori che esercitano pressione, come avviene in particolari montuosità”, trad. di Manlio Pastore Stocchi]). Degna di nota la lunga digressione seguente, con un’invettiva simile a quella di Virgilio nel terzo del Purgatorio («State contenti, umana gente, al quia» [37]): «Desinant ergo, desinant homines querere que supra eos sunt, et querant usque quo possunt, ut trahant se ad inmortalia et divina pro posse, ac maiora se relinquant» (Q 77 [“Finiscano dunque, finiscano gli uomini di far domande su ciò che è al di sopra di loro, e cerchino fin dove è concesso, per innalzarsi come possono alle cose immortali e divine, e lascino stare le cose più grandi di loro”). Il mito narrato nell’ultimo dell’Inferno, non suffragato dal testo biblico, pone al centro del cosmo e della storia la questione dell’obbedienza a Dio. La distanza tra l’uomo e il suo Fattore, ridotta al minimo nel poema, ritorna incolmabile per l’ultimo Dante, che fa quasi ammenda della propria presunzione: tale infatti è il sostituirsi a Dio per imporre verità non dimostrabili né con la ragione né sulla base delle Scritture.

Tuttavia non deve sfuggire al lettore il modo in cui i due viaggiatori superano il centro della Terra: è lo stesso Lucifero a fungere da passivo traghettatore, ormai destituito di ogni terribile sacralità, venuta meno anche la paura paralizzante descritta ai vv. 22-27. In sostanza, per giungere sulla spiaggia del purgatorio, il poeta deve vincere anche la paura del diavolo, tappa necessaria in un percorso di progressiva emancipazione morale, che culminerà nella frase di Virgilio «per ch’io te sovra te corono e mitrio» (Pg 27.142).

L’ultima parola della cantica (stelle), che chiuderà anche le altre due, qui si presenta come esito naturale di un lungo ragionamento cosmologico sulla conformazione della Terra e sugli emisferi celesti, ma anche come omaggio alla sincera lauda francescana.

Immagine: Lucifero, mosaici della cupola del battistero di Firenze

Crediti immagine: Coppo di Marcovaldo, Public domain, via Wikimedia Commons

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