Già con la Laudato si’ del 2015, la prima enciclica a lui esclusivamente attribuibile (la Lumen Fidei del 2013 portava infatti a compimento un lavoro in gran parte frutto del pensiero e della penna di Benedetto XVI), papa Francesco aveva manifestato una delle molte novità che stanno caratterizzando il suo pontificato: il titolo del documento non è in lingua latina. Certo non si tratta solo di una scelta stilistica, ma è la conseguenza di un dato più oggettivo: è infatti prassi che il titolo delle encicliche papali corrisponda alle prime parole della versione latina di tali testi, e in questo caso l’incipit è appunto rappresentato da una citazione di san Francesco. È però un aspetto rilevante e specifico, che si aggiunge con chiara e presumibilmente deliberata coerenza alla scelta di intitolare con l’espressione spagnola Querida Amazonia (e qui non si è di fronte ad una citazione) anche l’esortazione apostolica postsinodale del 2 febbraio 2020.

Se da un lato va ricordato che anche nel secolo scorso altri pontefici si sono mossi nella medesima direzione, bisogna però sottolineare che si è trattato di rarae aves e che quelle encicliche non si rivolgevano «a tutti i fratelli e le sorelle» dell’orbe terraqueo com’è nel caso di papa Francesco, ma a destinatari nazionali specifici e a proposito di eventi circoscritti: così è stato, ad esempio, per la Fin dal principio di Leone XIII (1902) relativa al clero italiano, per la Une fois encore di Pio X (1907) incentrata sulla legislazione francese dell’epoca giudicata troppo laicista, per la Non abbiamo bisogno di Pio XI (1931) che intendeva difendere l’Azione cattolica italiana dalla repressione fascista, per la Mit brennender Sorge dello stesso papa (1937) nella quale si esprimevano le preoccupazioni per il dilagare pervasivo dell’ideologia nazista anche in ambito religioso, per la Le pèlerinage de Lourdes di Pio XII (1957) sul centenario delle apparizioni mariane nella cittadina francese; nulla di simile, invece, da Giovanni XXIII in avanti, da quando cioè le lettere encicliche hanno avuto solo portata universale.

Verso una «lingua del popolo»

Non sarà allora un caso se proprio dell’enciclica Fratelli tutti e delle ultime esortazioni apostoliche di papa Francesco non siano ancora state pubblicate sul sito vaticano anche le versioni latine, ma siano presenti on line solo quelle nelle principali lingue vive dell’uso. Si tratta del resto di un indirizzo conforme a quanto l’attuale pontefice aveva dichiarato all’inizio del suo ministero petrino: «Come a tutti noi piace che ci si parli nella nostra lingua materna, così anche nella fede, ci piace che ci si parli in chiave di “cultura materna”, in chiave di dialetto materno (cfr. 2 Mac 7,21.27), e il cuore si dispone ad ascoltare meglio. Questa lingua è una tonalità che trasmette coraggio, respiro, forza, impulso» (Evangelii Gaudium, 139); un concetto ribadito poco dopo nel medesimo documento anche attraverso le parole di Paolo VI, secondo la prospettiva di una comunicazione biunivoca: «Il predicatore deve anche porsi in ascolto del popolo, per scoprire quello che i fedeli hanno bisogno di sentirsi dire. Un predicatore è un contemplativo della Parola ed anche un contemplativo del popolo […], prestando attenzione al “popolo concreto al quale si rivolge, se non utilizza la sua lingua, i suoi segni e simboli, se non risponde ai problemi da esso posti”» (ivi, 154).

A ben vedere è esattamente ciò che fece san Francesco quando decise di servirsi del volgare del suo tempo e della sua terra per la propria attività di evangelizzazione: quel volgare che intrattiene uno stretto legame con la nostra lingua italiana e che è stato fatto proprio dal papa attuale. A scanso di equivoci e di fraintendimenti merita però di essere evidenziato fin d’ora (lo approfondiremo meglio più avanti) come ciò non abbia nulla a che vedere con una presunta «lingua del popolo» sbandierata e promossa da certi leader attuali (non solo politici): certo anche in questo caso si scade spesso nel “volgare”, ma in tutt’altro senso… Al contrario, tanto san Francesco quanto il pontefice che ne ha assunto il nome si sono serviti del registro e della varietà dei propri interlocutori per nobilitarli, per conferire alle loro parole perfino una veste letteraria e per diffondere tramite questo linguaggio dei messaggi edificanti.

Le parole, il dialogo, l’azione

Ad ogni modo anche la versione italiana della Fratelli tutti ha subìto un processo di mediazione linguistica, giacché – com’è prassi – è quasi certo che papa Francesco abbia inizialmente pensato e scritto questa enciclica nella sua lingua materna, ovvero lo spagnolo. Ma i testi principali che ne stanno alla base sono da un lato l’italiano di molti interventi e documenti precedenti, dall’altro il Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune firmato ad Abu Dhabi il 4 febbraio 2019 unitamente al Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb; e a questo proposito è significativo rilevare che durante l’incontro interreligioso svoltosi durante quel viaggio apostolico e durante la celebrazione eucaristica del giorno successivo papa Francesco tenne il suo discorso e la sua omelia in italiano, la lingua da lui spesso privilegiata anche in occasione di altri viaggi ed eventi internazionali.

L’attuale pontefice non è per altro ignaro del fatto che il suo modo di comunicare, e dunque anche il codice verbale da lui impiegato, rappresenta un tratto caratteristico della sua persona e del suo agire pastorale: ecco che allora nell’introduzione della sua nuova enciclica papa Francesco precisa che ha fatto tesoro di suggerimenti e scritti altrui declinandoli però «con il mio linguaggio» (Fratelli tutti, 5). Ed è esplicita la sua volontà di mettersi, anche tramite tale atteggiamento, in «dialogo con tutte le persone di buona volontà» (ivi, 6), affinché grazie a questo documento possano scaturire idee e azioni comuni che mirino alla costruzione di una società che di fronte all’egoismo e all’indifferenza sappia «reagire con un nuovo sogno di fraternità e di amicizia sociale che non si limiti alle parole» (ibidem). Parole che meritano di essere analizzate più da vicino per comprendere meglio il pensiero e lo stile linguistico di papa Francesco.

I significanti e i significati

È lo stesso pontefice a legittimare, e forse perfino ad incoraggiare, un’accurata lettura semantica e più genericamente linguistica della sua enciclica, perché non sempre le espressioni e i concetti ad esse sottesi vengono interpretati in modo univoco e disinteressato: «Un modo efficace di dissolvere la coscienza storica, il pensiero critico, l’impegno per la giustizia e i percorsi di integrazione è quello di svuotare di senso o alterare le grandi parole. Che cosa significano oggi alcune espressioni come democrazia, libertà, giustizia, unità? Sono state manipolate e deformate per utilizzarle come strumenti di dominio, come titoli vuoti di contenuto che possono servire per giustificare qualsiasi azione» (ivi, 14). Ed è quindi papa Francesco medesimo a preoccuparsi di fare chiarezza in proposito, spiegando e presentando senza ambiguità alcune di queste «grandi parole», che vedono nella «fraternità» e nell’«amicizia sociale» (ivi, 5) il loro fulcro.

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Immagine: Papa Francesco in papamobile saluta i fedeli in piazza San Pietro

Crediti immagine: Alfredo Borba, CC BY-SA 4.0 https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0, via Wikimedia Commons