La mattina del 2 novembre 1975 il corpo senza vita di Pier Paolo Pasolini venne ritrovato nei pressi di via dell'Idroscalo a Ostia, in uno sterrato circondato da baracche e cassonetti, che i ragazzi avevano trasformato in un campo da calcio*.

Quel campetto improvvisato non esiste più: in quel luogo, divenuto oggi il Parco letterario “Pier Paolo Pasolini”, è stato eretto un monumento in memoria del poeta realizzato da Mario Rosati. Eppure, in qualche modo, quel campetto continua a esistere nella memoria collettiva, non solo perché la sua immagine venne catturata per sempre da Nanni Moretti in Caro diario (1993), poco prima che la zona venisse coinvolta nella costruzione del porto turistico di Roma, ma soprattutto perché quello sterrato non era tanto diverso dai campetti di altre periferie romane dove Pasolini andava a giocare assieme ai “ragazzi di borgata”, come testimoniano alcune fotografie di Federico Garolla che lo immortalano mentre in giacca e cravatta insegue un pallone tra i palazzi di Centocelle.

A Bologna, sui Prati di Caprara

Pasolini amava il calcio, se ne era innamorato, quasi improvvisamente, quando tornò a Bologna per frequentare il liceo, e continuò a praticarlo negli anni dell’università, tanto da divenire il capitano della squadra di Lettere:

«Io sono tifoso del Bologna. Non tanto perché sono nato a Bologna, quanto perché a Bologna (dopo lunghi soggiorni, epici o epico-lirici, nella valle padana) sono ritornato a quattordici anni, e ho cominciato a giocare a pallone dopo aver tanto disprezzato tale gioco – io che amavo giocare solo alla guerra. I pomeriggi che ho passato a giocare sui Prati di Caprara (giocavo anche sei, sette ore di seguito ininterrottamente come ala destra. Allora i miei amici qualche anno dopo mi avrebbero chiamato lo “Stukas”: ricordo dolce bieco). I pomeriggi passati ai campi di Caprara sono stati indubbiamente i più belli della mia vita. Mi viene quasi un nodo alla gola se ci penso» (nella rubrica «Il caos» curata dallo stesso Pasolini per il settimanale Tempo, 4 gennaio 1969, cit. in Piccioni 1996, p. 26; il soprannome dello scrittore richiama un aereo militare tedesco, lo Junkers Ju 87, detto Stuka, da Sturzkampfflugzeug, lett. ‘aereo da combattimento in picchiata’).

Un amore che Pasolini non abbandonerà mai, come narratore – tanti i riferimenti in Ragazzi di vita (due esempi: «Cercò di fare una finezza colpendo il pallone di tacco, ma fece un liscio», Pasolini 1998, p. 529; «[…] dei ragazzini che ci facevano ancora una partita a pallone colla palla di stracci», id., p. 730) e in Una vita violenta, che si apre proprio con una partitella «nella spianata ch’era la piazza centrale della borgata» (id., p. 823) –, come poeta – «Al Trullo il sole, come dieci anni fa. / “Fèrmete, a Pa’, da du’ carci co’ nnoi!” / […] La partitella, nel cuore della borgata, / tra i lotti che oltre al sole, e a qualche figura / di sorella, di madre, coi golf dei giorni di lavoro, / non hanno nulla da offrire alla nuova primavera...», Pietro II, in Poesia in forma di rosa) –, come cineasta – dalle panoramiche sui campetti sterrati in cui giocano i ragazzi di borgata in Mamma Roma (1962) alle interviste ad alcuni calciatori del Bologna nel film documentario Comizi d’amore (1965) –, come studioso – nell’articolo Il calcio «è» un linguaggio con i suoi poeti e prosatori (Il giorno, 3 gennaio 1971) lo scrittore propone un’interpretazione semiotica e linguistica del calcio («Il football è un sistema di segni, cioè un linguaggio. Esso ha tutte le caratteristiche fondamentali del linguaggio per eccellenza, quello che noi ci poniamo subito come termine di confronto, ossia il linguaggio scritto-parlato»), in cui suddivide i giocatori in prosatori e poeti («Ci può essere un calcio come linguaggio fondamentalmente prosastico e un calcio come linguaggio fondamentalmente poetico. […] Ci sono nel calcio dei momenti esclusivamente poetici: si tratta dei momenti del “goal”. Ogni goal è sempre un’invenzione, è sempre una sovversione del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità. Proprio come la parola poetica» (cfr. Piccioni 1996, pp. 119-22, e Betti/Raboni/Sanvitale 1985, pp. 179- 181, qui con il titolo Una semiologia per il goal).

«Dopo le partite, si ammusoniva di nuovo»

Con il saggio sul calcio Pasolini intendeva precisare quanto detto in una precedente intervista rilasciata a Guido Gerosa (L’Europeo, 31 dicembre 1970), in cui aveva definito il calcio «l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo» («È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci», cit. in Piccioni 1996, p. 118).

Ciò nonostante, dai Prati di Caprara a Bologna ai soggiorni estivi a Casarsa (dove «[s]i giocava a pallone nel campo sportivo dietro i depositi della stazione ferroviaria», come ricorda il cugino Nico Naldini 1980, p. 18), dai campetti delle periferie romane ai grandi stadi italiani, in cui si esibì come capitano della squadra “Attori e Cantanti”, Pasolini continuerà ad amare il calcio soprattutto in qualità di sportivo, come provano le parole di Ninetto Davoli: «Spesso, se capitava di incappare in una partitella di ragazzi su un campo improvvisato, chiedeva di tirare due calci ed era felice come un bambino. Il giorno della partita con la nazionale attori annullava qualsiasi impegno, dalle conferenze alle riprese di un film» (link). Non è un caso, d’altra parte, che alla domanda di Enzo Biagi «[s]enza cinema, senza scrivere, che cosa le sarebbe piaciuto diventare?», Pasolini rispondesse sicuro: «Un bravo calciatore. Dopo la letteratura e l’Eros, per me il football è uno dei grandi piaceri» (La Stampa, 4 gennaio 1973, p. 3).

Fuori dal campo, però, osservava Franco Citti, quegli attimi di febbrile euforia svanivano repentinamente: «dopo le partite, si ammusoniva di nuovo. Era come se all’improvviso cadesse un velo su tutto. Finiva l’esaltazione, il momento magico che lo faceva ritornare come un ragazzino a sorridere e a ridere. Finita la tensione del gioco, rientrava nella sua bolla di vetro, nei suoi silenzi […]. Grondanti di sudore e sporchi di terra e fango, ci infilavamo sotto le docce e lui ritornava ad essere solo, immediatamente si ritrovava ad annegare nei pensieri e nei problemi che non raccontava mai a nessuno» (Citti/Valentini 1992, p. 120, poi in Piccioni 1996, p. 135).

D'Annunzio e il «delicato gioco che iersera tanto mi piacque»

Muovendosi tra le pagine memoriali degli scrittori italiani, dalla fine dell’Ottocento ai nostri giorni, raramente è dato imbattersi in ricordi legati alla pratica del calcio. D’altra parte, il tentativo di ricostruire tali passi non potrà che essere, in questa sede, programmaticamente frammentario e fatalmente lacunoso.

Il 14 dicembre 1888, Gabriele D’Annunzio scrisse una lettera all’amica Barbarella (Barbara Leoni), mettendola a parte di «un’orribile disgrazia»: «Ho perduto i due denti d’avanti! Me li son rotti giocando a palla» (D’Annunzio 2008, p. 208). Certo, la palla citata potrebbe essere quella «di ottimo cuoio, con camera d’aria inglese», peraltro costosissima, acquistata in Inghilterra dall’amico Fausto Tosti e da questi donata al poeta, ma l'episodio, evocato innumerevoli volte in libri e siti internet dedicati al calcio, sembra trascendere il dato storico sconfinando nella leggenda, e potrebbe perciò non riferirsi davvero al gioco del calcio. Del resto, in un biglietto datato 4 febbraio 1902 (e oggi custodito presso il Museo del Genoa), D’Annunzio sembra aver scoperto da poco il «nuovo» sport, per quanto, rivolgendosi ad Antonio Gianello, titolare dell’Hotel Unione di Genova, desideri ugualmente sfidare James Spensley, uno dei pionieri del gioco del calcio in Italia, allora capitano del Genoa: «Io spero di venire prossimamente nella sua sala e di mostrarmi espertissimo nel vivace e delicato gioco che iersera tanto mi piacque. Oscurerò la gloria del dottore Spensley!».

Da Bacchelli a Cerami

Del campo ai Prati di Caprara, dove nacque la passione di Pasolini per il calcio, e che costituì il primo terreno di gioco del Bologna F.C. (fondato nel 1909), parla invece Riccardo Bacchelli (1973, pp. 151-52), precisando un’affermazione del pittore Giorgio Morandi: «[…] l’amico Morandi rammenta di essere stato condotto a vedere una partita di calcio da me. Può darsi, anzi è così certamente, benché io non me ne ricordi ed è più che probabile che a condurlo a vedere il calcio non sia stato io solo. Infatti, mio fratello Mario, pittore, e un caro e ottimo amico comune, Bonvicini, laureando in veterinaria erano giuocatori del “Bologna” nei primissimi tempi della società cittadina. […] E ricordo che andavano ai Prati di Caprara, e che segnavano i limiti del campo e delle porte coi cappotti posati sul prato, e poi con dei paletti di fortuna».

Quel terreno di gioco non doveva essere molto diverso da ’u campu ’i Maccioni (‘il campo di Maccione’) descritto da Gesualdo Bufalino (1982, p. 50): «Qui avvennero le prime partite di calcio, con una palla di pezza, con un barattolo vuoto. Fu conquista da non credere, quando lo acquistammo o rubammo, un pallone vero, di cuoio, sul terreno di periferia, invaso di prepotenza a dispetto del dissenziente padrone. Le porte erano distinte da pile di giacche ammucchiate, gli scontri furono all’ultimo sangue, come in una gesta di paladini».

Non so dire come fossero, invece, i campi di Torino, dove «sui prati o a Piazza d’Armi» Carlo Levi (1979, p. 82) giocava senza «scarpette da foot-ball»: «Del resto, in quegli anni, pochi le avevano, in genere ragazzi più grandi, che non si conoscevano, e venivano a chiedere di giocare con noi, in quelle squadre che potevano essere di due giocatori come di venti per parte: in partite che potevano durare all’infinito, un intero pomeriggio, e ancora, ancora, al crepuscolo, ai primi lumi, al richiamo dei tram, al passare delle biciclette, molti, moltissimi, pochi, con capi e capitani improvvisati e mutevoli, con chi passava, per equilibrare le forze, da un campo all’altro, pochi più grandi contro molti piccoli e ostinati, taluno in maglietta, i più coi vestiti di scuola (en civil)».

Altrettanto estenuanti erano probabilmente le partite giocate dai ragazzi di Firenze al “Campo di Marte”, come testimonia Vasco Pratolini, in un articolo in cui chiarisce il nome dell’omonima rivista: «Il “Campo di Marte” per noi fiorentini fu un gran prato alla periferia dove si alzavano i vecchi Caproni e dove, da adolescenti, nel dopoguerra, giocavamo interminabili partite di calcio» (a. I, n. 1 [1° agosto 1938], Calendario, p. 1).

Alla Piacenza di fine anni Trenta, ci riporta, invece, Giovanni Arpino (1990, p. 253), capomanipolo di un gruppo di balilla: «accompagnavo, nemmeno intruppati, i miei balilla in un prato oltre le mura e giocavamo a calcio. Io ero più esperto, grande e grosso, quando i capitani tiravano a sorte per scegliere i componenti della squadra, per avere me davano all’altro due, anche tre dei loro».

A quegli stessi anni risale una fotografia che ritrae Beppe Fenoglio mentre, in tenuta da calcio, è impegnato in una partita «sul campo sportivo Michele Coppino di Alba» (cfr. Negri Scaglione 2006, p. 120); l’immagine trova conferma nelle parole di Giorgio Bocca, che incontrò lo scrittore proprio sul terreno di gioco, ad Alba: «Il mio ricordo di Beppe Fenoglio è del ’37 o del ’38. Giocavo al calcio in una squadra di Cuneo. […] Finalmente una palla buona, un dribbling liberatore, un tiro elegante che lambisce un palo e nel silenzio un “bravo Giorgio”, deciso e altero, da amico che ti si mette al fianco contro i molti. Un attimo per voltarmi e riconoscere in quel ragazzo alto e magro uno di quelli su cui misuri la tua vita, un provinciale del tuo destino» («Il Bandolo», aprile 1964, cit. in Fenoglio 2012, p. XXXV).

Da ultimo, vorrei ricordare un aneddoto di Vincenzo Cerami, che rimanda ai tempi in cui lo scrittore frequentava la scuola media a Ciampino, e che consente, con un movimento a ritroso, di tornare al principio: «L’unica cosa un po’ simpatica era la ricreazione, che però durava un quarto d’ora. Si scendeva e si giocava a pallone nel giardinetto. E nel giardinetto c’era un professorino giovane che insegnava alla terza media, che giocava a pallone e tirava bene, era molto bravo» (Guccini/Cerami 2012). Quel “professorino” era Pier Paolo Pasolini.

Ringrazio per i preziosi suggerimenti gli amici Gualberto Alvino, Fabrizio Malavasi, Francesco Bianco e Ronald Giammò.

Bibliografia

Arpino 1990 = Giovanni Arpino, Storie dell'Italia minore, introduzione di Giovanni Tesi, Milano, Mondadori.

Bacchelli 1973 = Riccardo Bacchelli, Confessioni letterarie, Milano, Mondadori (1a ed. La cultura, 1932).

Betti/Raboni/Sanvitale 1985 = Laura Betti, Giovanni Raboni, Francesca Sanvitale, Pier Paolo Pasolini. Una vita futura, [Cernusco], Associazione Fondo Pasolini / Garzanti.

Bufalino 1982 = Gesualdo Bufalino, Museo d’ombre, Palermo, Sellerio.

Citti/Valentini 1992 = Franco Citti, Claudio Valentini, Vita di un ragazzo di vita, Carnago, SugarCo.

D’Annunzio 2008 = Gabriele D’Annunzio, Lettere a Barbara Leoni. 1887-1892, a cura di Vito Salierno, Lanciano, R. Carabba.

Fenoglio 2012 = Beppe Fenoglio, Tutti i romanzi, a cura di G. Pedullà, Torino, Einaudi.

Guccini/Cerami 2012 = Francesco Guccini, Vincenzo Cerami, Storia di altre storie. Il gioco della memoria, Milano, Piemme (nuova ed.).

Levi 1979 = Carlo Levi, Quaderno a cancelli, Torino, Einaudi.

Naldini 1980 = Nico Naldini, P. P. Pasolini, “Et m'è rimasa nel pensier la luce”, in Poesie e pagine ritrovate, a cura di Nico Naldini e Andrea Zanzotto, Roma, Lato Side, pp.7-72.

Negri Scaglione 2006 = Piero Negri Scaglione, Questioni private. Vita incompiuta di Beppe Fenoglio, Torino, Einaudi.

Pasolini 1998 = Pier Paolo Pasolini, Romanzi e racconti, a cura di W. Siti e S. De Laude, 2 voll., Milano, Mondadori, vol. I, 1946-1961 (Ragazzi di vita, 1a ed. Garzanti, 1955; Una vita violenta, 1a ed. Garzanti, 1959).

Piccioni 1996 = Valerio Piccioni, Quando giocava Pasolini. Calci, corse e parole di un poeta, Arezzo, Limina.

Per una più ampia disamina dei rapporti tra Pasolini e il calcio, si rimanda inoltre al recente volume Il calcio secondo Pasolini di Valerio Curcio (prefazione di Antonio Padellaro, con un’intervista a Dacia Maraini, Correggio, Aliberti, 2018).

*Il presente articolo era già stato pubblicato il 20 novembre 2019 in Lingua italiana-Treccani.it, in apertura del ciclo Un treno di parole verso gli Europei di calcio 2020, curato dallo stesso Rocco Luigi Nichil. L’articolo integrale, con il cappello introduttivo, è leggibile cliccando qui

Immagine: Pier Paolo Pasolini nella borgata del Quarticciolo a Roma, via Wikimedia Commons

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