Figlio di un’insegnante e di un militare di fanteria, due figure professionali “largamente coinvolte nella formazione dell’individuo e della collettività” (Golino 2013:1), Pasolini si trova, sin da giovane, negli anni della crisi morale e bellica, investito del ruolo di maestro.
Pur avendo dedicato solo alcuni anni all’insegnamento, dimostrò per tutta la vita l’attaccamento a questa funzione civile, espletandola sotto diverse forme: articoli, poesie, film, romanzi. Tutta la sua opera è pervasa da un intento pedagogico e didascalico, in quanto l’uomo dal multiforme ingegno qual era Pasolini interpretò in chiave educativa il suo intero percorso professionale permeandolo con la passione.
Questo atteggiamento maturò nella diretta esperienza di insegnante a Versuta, a Valvasone (sezione staccata delle scuole medie di Pordenone) e infine, nel 1950, nella scuola media "Francesco Petrarca” di Ciampino, alle porte di Roma.
Della sua giovanile esperienza didattica e dell’ideale pedagogico, Pasolini parla in quattro articoli giovanili usciti su “Il Mattino del Popolo” tra il 1947 e il 1948: Scolari e libri di testo, Scuola senza feticci, Dal diario di un insegnante, Poesia nella scuola.
È il 1944 quando viene chiamato per la prima volta “maestro”. Sono i mesi in cui i bombardamenti cercano di distruggere la linea ferroviaria che passa da Casarsa. Pasolini, la madre e il fratello Guido sono costretti a fuggire per rifugiarsi a pochi chilometri da lì, a Versuta, in una stanza del casolare della famiglia Bazzana.
Il sedici del mese io e mia mamma facemmo il nostro ingresso a Versuta, con tutto il nostro linguaggio famigliare, il nostro orgoglio ancora senza incrinature: un orgoglio che aveva tradizioni di affetti, di estreme e incomunicabili confidenze, di generosità del tutto laiche ma non per questo meno sacre per noi. (Pasolini in Siti-De Laude 1988:146-147)
La scuola di Versuta
Questa situazione portò gli studenti universitari all’impossibilità di raggiungere le città di Udine e di Pordenone, così Pasolini, con l’aiuto di Cesare Bortotto, di Giovanna Bemporad e altri amici, diede vita a una piccola scuola privata che venne però chiusa per motivi burocratici dopo pochi mesi (Naldini 2001:61).
Pasolini però non si diede per vinto, continuò a dare lezioni private ad alcuni quindicenni ginnasiali, finché non decise, insieme alla madre Susanna, di improvvisare una scuola per i ragazzi di Versuta, i quali non potevano recarsi a lezione nei paesi di San Giovanni e di S. Vito durante gli anni della guerra.
Gli allievi erano una decina, figli di contadini del villaggio, la scuola cominciava ogni giorno all’una, subito dopo pranzo. Pier Paolo usò come aula per i più grandi la stanzetta dove si svolgeva la quotidiana vita domestica, mentre ai più piccoli toccò la cantina al pianterreno:
Non credo di essermi mai comportato con tanta dedizione come con quei fanciulli, che del resto mi erano assai grati per questo; li introdussi ad una specie di gergo, di clan, fatto di rivelazioni poetiche e di suggerimenti morali – forse un po’ troppo spregiudicati: finii col divertirmi sommamente perfino durante le lezioni di grammatica. Non parlo poi del reciproco entusiasmo alle letture di poesia; mi arrischiai a insegnare loro, e le capirono benissimo, liriche di Ungaretti, di Montale, di Betocchi… (Pasolini in Siti-De Laude 1988:24-25)
Per coniugare la curiosità con il gioco, nel suo Poesia nella scuola, Pasolini suggeriva di cominciare con i poeti viventi, con coloro “che usano una lingua viva non solo come lessico ma proprio come concezione dell’uso espressivo e come scelta dei sentimenti da esprimersi”. Era necessario farli entrare nel laboratorio poetico, appassionarli all’operazione poetica per condurli all’invenzione, suscitare la loro passione e farli partecipare attivamente. La poesia doveva essere “il più alto mezzo di comunicazione in una società e come il più certo modo di chiarificazione” (Pasolini in Naldini 2001:281).
Drammatizzare l’insegnamento
L’importanza della fisicità è il primo degli insegnamenti che Pasolini restituisce alla pedagogia odierna, tanto che Gianfranco Contini parlerà di “eros pedagogico” (De Laude 2020:8). Per Pasolini dare vita al discorso di tipo educativo significa mettere in scena un dialogo tra alunno e insegnante, dare origine a un atto creativo attraverso un codice comunicativo ma anche pedagogico. Eppure tutta la prima parte del suo insegnamento come “scuola attiva” montessoriana è una ricerca spontanea. Pasolini amava “drammatizzare” l’insegnamento (Lavagnini 2009:46). “C’era una volta un mostro che si chiamava Userum”, così comincia una delle tante favole inventate dall’autore a scopo didascalico, in questo caso per insegnare gli aggettivi della seconda declinazione latina.
L’educazione data a un ragazzo dagli oggetti, dalle cose, dalla realtà fisica […] rende quel ragazzo corporeamente quello che è e quello che sarà per tutta la vita. A essere educata è la sua carne come forma del suo spirito. La condizione sociale si riconosce nella carne di un individuo perché egli è stato fisicamente plasmato dall’educazione appunto fisica della materia di cui è fatto il suo mondo. (Pasolini 1976:48)
Dopo la spiegazione delle poesie, Pasolini le recitava in modo che per i ragazzi “avessero valore il corsivo, il tondo e gli spazi bianchi, tramutandosi, come in un gioco di prestigio, nelle inflessioni della dizione e nel vibrare della voce” (Pasolini in Naldini 2001:69).
Questa fisicità si sarebbe ben presto riflessa nel teatro pasoliniano. Lo riconosce già Elda Schierano, collega di Pasolini a Valvasone, la quale sottolinea la centralità della vocazione teatrale nell’esperienza giovanile del 5 P (così era definito da tutti: Professore, Poeta, Pier Paolo Pasolini). Fu “regista” di rappresentazioni e di cori popolari, allestitore tuttofare e interprete con i suoi allievi di Versuta della favola I fanciulli e gli elfi (1945) e pionieristico scopritore e promotore del potenziale didattico della drammatizzazione. Essere “mezzo, non già fine, d’amore”, questa è la sostanza che lo scrittore coglie nell’atto educativo (Pasolini in Naldini 2001:337).
Ricordo le prime ore di scuola, così soffuse di un acre e quasi languido senso di verginità, in cui io già incominciavo a manovrare con astuzia il mio candido entusiasmo, facendo della «emozione» qualcosa come una figura retorica di nuova specie, con cui minare il mio discorso di pause, di riverenze, di esclamativi segreti. (Pasolini in Naldini 2001:173)
Il cenacolo dell’Academiuta
L’animus pedagogico si mostra in quegli anni anche nello studio della lingua friulana, nella scoperta di un mondo linguistico contenitore di menti e corpi. Nasce l’Academiuta di lenga furlana, un cenacolo-cardine fondato per dare lustro alla lingua e alla letteratura friulane, volto a valorizzare l’idioma locale nel panorama letterario, attraverso il quale ogni domenica pomeriggio risuonavano la poesia e la musica nelle campagne di Versuta. Quindi non una scuola in senso stretto ma un luogo di condivisione in cui i giovani, tra i quali numerosi intellettuali amici di Pasolini, partecipano attivamente alle lezioni, diventano essi stessi protagonisti dell’esperienza educativa.
Da questi incontri nasce anche la rivista dello “Stroligut di cà da l’aga” (Lunario di qua dall’acqua), poi “Stroligut” (Lunario), il quale contesta la rivista ufficiale della Filologica Furlana di Udine, “Il Strolic” (L’astrologo).
Dopo la guerra, l’esperienza dell’Academiuta viene trasferita nella casa dei Colussi di Casarsa. Il programma pian piano assume un carattere filologico sempre più profondo. È riconosciuta alla poesia la sua funzione di “coscienza linguistica”, in quanto, in maniera biunivoca, ad ogni approfondimento sentimentale corrisponde una scoperta linguistica.
Per questo l’Academiuta è stata anche scuola, in quanto al centro vi è l’esperienza poetica e di analisi nella propria lingua naturale, il dialetto, che vede come manovratore dei fili il burattinaio Pasolini, riconosciuto come maestro dai suoi compagni.
"Maestro mirabile" a Valvasone
Egli sosteneva che l’educatore dovesse suscitare la curiosità degli studenti rivolgendosi alla loro intelligenza, alla loro voglia di conoscere il mondo ignoto, anche con proposte impegnative, difficili.
L’educatore ha lo scopo di liberare, di depurare lo studente dalla cristallizzazione dell’autorità, dalla sua natura seconda, la tettonica esteriore, come Pasolini la chiamava, costituita dai pregiudizi appresi e dalle anticipazioni trasmesse culturalmente (Naldini 2001:277). Anche la religione, a suo avviso, dovrebbe essere una conquista e non un acquisto.
Intanto, dopo la guerra, dall’ottobre 1947 all’autunno del 1949, Pasolini insegna presso la scuola media di Valvasone. Il Preside De Zotti vede in lui un insegnante nato e lo definisce “maestro mirabile”, “uno che sa suscitare nella classe una partecipazione mai vista, che sa aprirla allo sperimentalismo, ispirandosi alle idee di John Dewey” (Barlera-Schwartz 1995:309).
Nel 1947, in prima media, arrivò un giovane professore di lettere, fece l’appello e si presentò, si chiamava Pier Paolo Pasolini. Crediamo non fosse ricco perché ogni giorno, col buono e col cattivo tempo, si faceva, con la bici, 12 chilometri di strada bianca per venire da Casarsa a Valvasone. Quella modesta bicicletta fu la sua fedele compagna per tutti e due gli anni che passò con noi.
Nei due anni che passammo con lui fummo i più ricchi e fortunati allievi del nostro Friuli. Piano piano egli ci condusse per mano nell’immensa steppa di Anton Cechov, piena di solitudine e tristezza. Ci fece fare la conoscenza con il mondo magico della Sicilia di Verga. Con lui attraversammo l’oceano Atlantico per fermarci commossi e pensosi nel piccolo cimitero di Spoon River, scendemmo nel profondo sud per riscaldarci ai canti degli Spirituals negri. Ci fece amare Ungaretti, Saba, Montale, Sandro Penna, Cardarelli, Quasimodo e molti altri poeti che, allora, non erano né premi Nobel, né comparivano nelle antologie per le scuole. (Barlera-Schwartz 2020:310)
Anche Andrea Zanzotto lo ricorda molto attivo, intento a insegnare inventandosi favole, a disegnare cartelloni, a curare il giardino della scuola e ad allenare la squadra di calcio dei ragazzi (Bazzocchi 1998:11) in un’atmosfera imbevuta da agape, filìa, eros (Zanzotto in Betti 1978: 366-367).
Pasolini, come è noto, verrà licenziato nel 1949 a seguito di uno scandalo (gli costerà anche l’espulsione dal PCI), che lo vedeva coinvolto con alcuni minorenni in atti osceni in luogo pubblico. La condanna porterà l’autore in un grave stato di sconforto, in cui ha “sofferto il soffribile”, fino all’estrema decisione di lasciare il Friuli per Roma. Così descrive la sua condizione di poeta maledetto: «La mia vita futura non sarà certo quella di un professore universitario: ormai su di me c'è il segno di Rimbaud o di Campana o anche di Wilde, ch'io lo voglia o no, che altri lo accettino o no» (Pasolini, Lettera a Silvana Mauri, 1950).
La "Scuola Bolotta" di Ciampino
A Roma il poeta dialettale abruzzese Vittorio Clemente riuscì a fargli avere il posto di lavoro come insegnante nell’unica scuola media (parificata) di Ciampino, la “Petrarca”, conosciuta da tutti anche come “Scuola Bolotta”, dal nome della sua attivissima preside, Annunziata Bolotta, e di suo marito Gennaro Bolotta.
La scuola aveva sede in un bel villino a due piani, con un grande glicine e duemila metri di vigna tutt’intorno. Era semplicemente una “casa”, usata come scuola, una “povera scuola, perduta in altra periferia”. Le camere erano divenute aule. La vigna era il luogo dove fare educazione fisica e le interminabili partitelle di pallone, alle quali Pasolini partecipava, accalorandosi, assieme ai ragazzi (Lavagnini 2009:20).
In realtà i primi anni romani sono difficili per lo scrittore, il quale si ritrova in una realtà sconosciuta, costretto a continui spostamenti (ponte Mammolo e poi Monteverde), affaticato dal far combaciare l’attività letteraria con quella di insegnante: «Mi alzo alle sette, vado a Ciampino (dove ho finalmente un posto di insegnante, a 20.000 lire al mese), lavoro come un cane (ho la mania della pedagogia), torno alle 15, mangio e poi ho l’Antologia per Guanda». Mentre in una lettera del 1954 a Biagio Marin scrive: «Andare su e già a Ciampino per 25.000 lire al mese, come faccio, è una cosa insopportabile. Eppure la sopporto…».
Ne La religione del mio tempo ricorda quando abitava a Ponte Mammolo e andava a lavorare a Ciampino: “poeta, è vero” ma su un treno “carico tristemente di impiegati”. La descrizione del suo percorso si concentra sugli individui neorealisti che incontrava sull’autobus, con un punto di vista che ritornerà in Terra di Lavoro (1956):
Ah, il vecchio autobus delle sette, fermo
al capolinea di Rebibbia, tra due
baracche, un piccolo grattacielo, solo
nel sapore del gelo o dell’afa…
Quelle facce dei passeggeri
quotidiani, come in libera uscita
da tristi caserme,
dignitosi e seri
nella finta vivacità di borghesi
che mascherava la dura, l’antica
loro paura di poveri onesti.
A Ciampino insegnerà fino al termine dell’anno scolastico 1954-1955, con qualche assenza nell’ultimo anno, in cui verrà sostituito da Nico Naldini (cugino e allievo di Pasolini in Friuli; poi suo biografo), perché impegnato a dare alle stampe Ragazzi di vita.
Nonostante ciò Pasolini continuò a vedere i suoi ragazzi fino agli anni Sessanta, dispensando lezioni e consigli per lo studio.
Una sceneggiatura, due modeste proposte
Lo scrittore tornerà altre volte sull’argomento dell’insegnamento. Ne è un esempio la sceneggiatura mai portata sullo schermo de Il padre selvaggio. Il protagonista è Davidson, un ragazzo che frequenta il liceo nella capitale di uno stato africano liberato da poco, il quale incontra un professore laico e progressista il quale cerca di dare ai suoi ragazzi un insegnamento anticonvenzionale e anticolonialista. I ragazzi però sono abituati a tutt’altro: un insegnamento meccanico, conservatore, rigido della scuola e faticano a seguire l’insegnante. In estate una crisi politica che vede uno scontro tra fazioni, mercenari e caschi blu, coinvolge anche Davidson, il quale torna traumatizzato dal suo villaggio preda alla violenza. Lo salveranno la scuola, l’insegnante e soprattutto la poesia.
Abbandonato l’ambiente scolastico, ormai noto intellettuale, scrittore e regista, tornerà a scrivere di scuola nell’ottobre del 1975, poche settimane prima della sua morte, quando, sul Corriere della Sera, avanza due “modeste proposte” per eliminare la criminalità:
1) abolire immediatamente la scuola media dell’obbligo
2) abolire immediatamente la televisione
Che cosa ne è stato del Pasolini maestro amante della pedagogia? L’intellettuale maturo aggredisce il sistema scuola, gli insegnanti (che “semplicemente possono essere messi sotto cassa integrazione”) e avverte la minaccia della trasformazione sociale causata dalla televisione, che intontisce le menti e rende “i giovani nevrotici, infelici e appunto criminali”. Si scaglia contro di essa, affermando che gli esempi trasmessi portano i ragazzi a essere “o aggressivi fino alla delinquenza o passivi fino alla infelicità (che non è una colpa minore)”.
Pasolini non attacca mai i suoi amati discenti ma la società che li plasma a proprio piacimento. Illudere l’alunno di un avanzamento “che è una degradazione è delittuoso” perché lo rende: “primo, presuntuoso (a causa di quelle due miserabili cose che ha imparato); secondo (e spesso contemporaneamente), angosciatamente frustrato, perché quelle due cose che ha imparato altro non gli procurano che la coscienza della propria ignoranza». La scuola per l’intellettuale friulano è diventata il luogo di iniziazione alla qualità di vita piccolo borghese, in cui si insegnano “cose inutili, stupide, false, moralistiche”. Per questi motivi Pasolini non riconosce più il suo locus amoenus e propone un gesto estremo: abolirla in attesa di tempi migliori: cioè di un altro sviluppo.
Probabilmente la sua passione pedagogica, in quel momento storico, non avrebbe avuto il senso che egli aveva rintracciato in passato. L’insegnamento doveva essere un veicolo impersonale, lo aveva già affermato negli scritti giovanili, l’insegnante doveva essere mezzo, non già fine, d’amore.
Pasolini si sentiva fuori posto nel contesto sociale degli ultimi mesi della sua vita, ce lo dimostrano gli ultimi articoli polemici, eppure non ha mai dimenticato il luogo in cui si è formato come professionista e come uomo. Tra i tanti oggetti trovati nell’auto la notte in cui venne ucciso, e catalogati dalla polizia come reperti, vi era Sull’avvenire delle nostre scuole, di Friedrich Nietzsche, un testo, appunto, sulla scuola, testimonianza del suo infinito amore per un’istituzione fondamentale per ognuno di noi.
Può educare solo chi sa cosa significa amare (PPP)
Bibliografia
P. Barlera-B. D. Schwartz, Pasolini requiem, Milano, La Nave di Teseo, 2020.
L. Betti (a cura di), Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione e morte, Milano, Garzanti, 1978.
E. Golino, Pasolini. Il sogno di una cosa. Pedagogia, eros, letteratura dal mito del popolo alla società di massa, Milano, Tascabili Bompiani, 2013.
E. Lavagnini, Pasolini, Roma, Sovera Edizioni, 2009.
G. Meacci, Improvviso il Novecento. Pasolini professore, Roma, Minimum Fax, 2015.
N. Naldini, Un paese di temporali e di primule, Parma, Guanda, 2001.
P.P. Pasolini, Lettere luterane, Milano, Aldo Garzanti Editore, 1976.
P.P. Pasolini, Quaderni rossi, Appendice a Atti impuri, in Romanzi e racconti, a cura di W. Siti e S. De Laude, I, Milano, Meridiani Mondadori, 1988.
P.P. Pasolini, Attraverso le lettere, a cura di N. Naldini, Torino, Einaudi,1994.
P.P. Pasolini, Tutte le poesie, a cura di W. Siti, I, “Meridiani” Mondadori, Milano 2003.
E. Redaelli (a cura di), La lezione di Pasolini, Milano, Mimesis Edizioni, 2020.
Sitografia
http://www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it/
https://www.cittapasolini.com/
Immagine: Pasolini, via Wikimedia Commons