Ho scritto i miei romanzi tardi perché mi sono trovato in situazioni “nuove” in cui l’ambiente era prima di tutto “romanzesco” per me. Scrivere romanzi per me è significato vivere nella scrittura la situazione romanzesca dell’agnizione dell’altrove.
Pier Paolo Pasolini
Se si considera la precoce iniziazione alla poesia, le cui origini sono da ricondursi all’infanzia, quando, all’età di sette anni, Pasolini scrisse il suo primo sonetto, la sua produzione narrativa si avviò con relativo ritardo.
I primi esperimenti sono da ricondursi al biennio 1946-1947, in cui scrisse quelle Pagine involontarie contenute in cinque quaderni conosciuti come Quaderni Rossi. Si trattava di un progetto di romanzo-confessione che raccoglieva fatti di una «vita ferocemente privata» e una inconfessabile indagine autobiografica che avrebbe poi dominato la sua produzione narrativa, con risultati differenti.
Dai Quaderni e dai loro successivi sviluppi emergono i temi, comuni alle poesie in lingua e in dialetto friulano, del desiderio e del conflitto provocati dalla tensione conoscitiva verso la propria omosessualità, il «nome del peccato» di cui Pasolini trattò nei romanzi destinati a essere pubblicati solo postumi.
La narrativa di Pasolini proruppe più tardi, nel corso del primo decennio romano. In quegli anni i materiali friulani furono rielaborati sotto la nuova luce dell’“oggettività” e, allo stesso tempo, ne furono raccolti ed elaborati di nuovi, frutti dell’incontro tra l’autore, la capitale e una ricerca tematica e stilistica che affondava le proprie radici in una personale ricezione dell’ideologia marxista e della critica gramsciana. Gramsci assegnava infatti un rinnovato valore alla “sovrastruttura” artistica e culturale che la critica marxista aveva posto in secondo piano rispetto a quella economico-politica, affermando la necessità di una nuova cultura operaia e contadina su cui basare l’ascesa sociale e politica di queste classi sociali: una linea perfettamente aderente con gli ambienti, la lingua e i personaggi narrati nei romanzi di Pasolini.
Sotto il segno di un rinnovato impegno e un rinnovato stile si inaugura, dunque, il “ciclo romano”, che va dal 1950 al 1960. Seppure pubblicato nel 1965, Alì dagli occhi azzurri raccoglie storie, immagini e figure che risalgono ai primi schizzi di quella Roma «trasteverina dai ragazzi bruni come statue incastrate nel fango» (Alì dagli occhi azzurri, p. 333 [RR]). I due fondamentali nuclei narrativi di questa produzione si rintracciano, tuttavia, nei romanzi delle borgate Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959), in cui l’uso del «dialetto di questa Roma troppo attuale, pieno dei vizi nazionali, settentrionali – l’ultimo grido della sensualità» (ib.) rivela sempre tracce di un’ideologia che va individuata – sempre in chiave gramsciana – nella coincidenza tra critica del linguaggio e critica della società.
La fuga da Casarsa
11 febbraio 1950, a Silvana Mauri:
Il distacco improvviso dal mio mondo, mi ha isolato in un altro mondo che mi sembra vuoto e irreale. (Lettere, p. 400)
La fuga da Casarsa verso Roma, avvenuta alla fine del gennaio del 1950, rappresenta senza dubbio uno dei momenti più drammatici della vita di Pasolini, che, fuggendo dal paese che aveva rappresentato per lui l’unico approdo dell’infanzia, si lasciava dietro lo scandalo sessuale che segnò la sua vita personale, familiare, lavorativa, politica e sociale. Il primo periodo a Roma fu per Pasolini segnato dall’angoscia e dalle precarie condizioni economiche: muovendosi alla ricerca disperata di un lavoro, cercava di farsi spazio nell’ambiente letterario e culturale della capitale.
Ripresi i materiali friulani contenuti nei Quaderni, li rimaneggiò «[oggettivando] il fatto, cambiando i nomi dei protagonisti e dei luoghi, ricostruendo tutto con minore impegno di confessione e maggiore libertà d’invenzione» (Lettere, p. 401), delineando così la matrice dei due romanzi brevi Atti impuri e Amado mio, che narravano le vicende che da lì a poco sarebbero divenute di pubblico dominio, in circostanze ben diverse da quelle letterarie, con i “fatti di Ramuscello” del ’49. I romanzi restarono inediti fino al 1982.
Amado mio, nota Enzo Siciliano, rappresenta in alcuni momenti «un primo disegno del piccolo affresco friulano che verrà» (p. 160), riferendosi a Il sogno di una cosa (pubblicato nel 1962, ma concepito e scritto tra il ’48 e il ’49 con il titolo I giorni del lodo De Gasperi), di cui vengono anticipati anche i personaggi-archetipo di quei “ragazzi di vita” la cui fame – da intendersi in senso sia letterale che allegorico – si scontra con l’impossibilità di un riscatto. Il romanzo si chiude, infatti, con la morte di uno dei protagonisti, Eligio, consunto dal lavoro disumano e dalla miseria, a rappresentare il primo della lunga serie dei “vinti” pasoliniani (cfr. Martellini 2006, pp. 41-42).
La scoperta delle borgate e del dialetto
Giugno 1950, a Nico Naldini:
E tu che fai? Io sto diventando romano, non so più spiccicare una parola in veneto o in friulano e dico Li mortacci tua. Faccio il bagno nel Tevere, e a proposito degli ‘episodi’ umani e poetici che mi succedono, moltiplicali per cento in confronto a quelli friulani. (Lettere, p. 429)
Grazie all'aiuto del poeta dialettale abruzzese Vittorio Clemente, Pasolini trovò un posto di insegnante in una scuola privata a Ciampino. Strinse delle amicizie e cominciò presto ad avere contatti con l’ambiente culturale della città. La sintesi dell’ispirazione narrativa pasoliniana si concentrò tuttavia in una dimensione ben diversa da quella degli ambienti letterari: un altro mondo di gioventù e vitalistica miseria, dopo quello dei contadini friulani, si presentava a Pasolini con la scoperta del sottoproletariato che abitava le borgate romane di Rebibbia e Monteverde:
Qualcosa di rivoluzionario stava accadendo in quei primi anni di Pasolini a Roma: una mutazione radicale nella popolazione della città e nel suo carattere. Dai pietrosi Abruzzi e da tutto l’entroterra del Lazio, un flusso di contadini si riversò nella capitale in cerca di lavoro. […] Gli immigranti si muovevano tutti assieme, ricreando i loro villaggi ai margini della città, prima con eternit e lamiere, poi con mattoni e un po’di cemento. Queste “borgate” si rivelarono altrettante baraccopoli che crescevano rapidamente e che nessuno sapeva come fermare o cosa farne. […] Le borgate erano accettate così com’erano; o come la natura, senza umana amministrazione, le faceva.
(Schwartz 1992, p. 360).
Così descrive efficacemente Schwartz quella Roma «cinta dal suo inferno di borgate» (Lettere, pp. 490-491), entro il quale Pasolini aveva individuato la sua guida in Sergio Citti, l’operaio che sarebbe diventato suo storico amico e collaboratore. Citti divenne il suo “lessico vivente” e gli insegnò quel parlato reale che costituirà un terreno di ricerca fondamentale nell’evoluzione della sua narrativa.
La scoperta di questo nuovo mondo, in cui si immerse completamente, lo condusse all’elaborazione dei due romanzi Ragazzi di vita e Una vita violenta.
Il primo valse a Pasolini un nuovo processo: le accuse, questa volta, erano di oscenità, a causa del «carattere pornografico» del romanzo, per via dei riferimenti alla prostituzione maschile. Si aggiungevano alle vicende giudiziarie le pesanti stroncature della critica marxista, soprattutto da parte di Salinari, che lo accusava di decadentismo culturale, posizionalismo tattico e di mancanza di prospettivismo socialista per la società futura.
L’accoglienza di Una vita violenta fu decisamente più benevola: il romanzo non mancava, questa volta, di quegli «elementi» che, usando le parole di Salinari, «sono alla base – oggi come ieri – di ogni narrativa» (Salinari 1960, p. 179), vale a dire un «asse ideologico» e un personaggio che si sviluppi insieme alla vicenda narrata. Ragazzi di vita mancava infatti sia di uno sviluppo narrativo tradizionale, sia di un personaggio principale che lo veicolasse.
Le precedenti critiche avevano certamente influenzato in qualche misura questo cambio di direzione, ma, più che una ricerca di rivalsa agli occhi della critica, attraverso l’aderenza a quel «criterio d’ingabbiamento ideologico dell’ispirazione poetica che anche al sottoproletariato riusciva a mettere la camicia di forza del prudente spirito edificatorio di partito» ascrittogli da Asor Rosa (1965, § 16), il passaggio dalla coralità del primo romanzo alla vicenda narrativa del secondo rappresenta piuttosto un ulteriore sviluppo del percorso esplorativo che Pasolini aveva compiuto nel mondo delle borgate: il romanzo, che si valeva dell’esperienza de Le ceneri di Gramsci, faceva i conti con la storia strutturandosi in una storia.
Negli anni precedenti all’uscita del primo romanzo, Pasolini aveva anche raccolto i materiali confluiti nelle antologie di Poesia dialettale del Novecento (1952) e Canzoniere italiano. Antologia della poesia popolare (1955), testimonianza dello stesso scrupolo documentario che lo spinse ad accompagnare due glossari alle edizioni garzantiane di Ragazzi di Vita e Una vita violenta, inserendosi così nella tradizione romanesca in cui si collocano grandi letterati come Peresio, Berneri, Micheli, Belli, Chiappini, Zanazzo, Pascarella, anch’essi glossatori dei loro testi (cfr. Costa 1995, p. 148).
Sulla lingua dei romanzi romani, sul suo rapporto tra attendibilità, tradizione, innovazione e tradimento è stato detto molto (si rimanda, almeno, alla bibliografia finale). Ci limitiamo in questa sede al rilevamento di alcuni dei fenomeni più evidenti.
Le parole dei ‘pischelli’
Le parole tipiche del romanesco sono rintracciabili principalmente nelle parti dialogate, mentre nella narrazione convivono vari livelli di contaminazione linguistica, che non si traduce mai, tuttavia, in italiano regionale. Nota, a questo proposito, Giovanardi «una polarità piuttosto netta lingua/dialetto, e ciò avrà probabilmente favorito la persistenza di tratti morfologici che, viceversa, nell’italiano regionale romano e, a cascata, nel dialetto, tendevano ormai a dissolversi in favore dei corrispettivi italiani» (2017, p. 85).
Da un esame compiuto sulle 475 voci che compaiono nei due glossari (132 in Ragazzi di vita, 401 in Una vita violenta, di cui 58 voci condivise), vediamo che 95 sono prive di riscontri nei lessici e nelle inchieste personali di Costa (1995) (che riesamina il rapporto tra i repertori pasoliniani e la tradizione lessicografica romanesca, da cui sono ricavati i dati che seguono).
Marginale risulta l’incidenza della lingua letteraria: solo il 9,2% delle voci è documentato nei lessici antecedenti gli anni ’50 (Id., p. 191). La maggior parte delle parole è rintracciabile invece in quelle fonti scritte e orali che riguardano una competenza a lui successiva o contemporanea: 144 trovano conferme dai dizionari novecenteschi che, seppure successivi al ’50, documentano un romanesco conservativo. Un piccolo gruppo di 17 voci è registrato già nei vocabolari dell’uso degli anni ’50; altre 34 entreranno nei vocabolari dell’uso senza essere segnalate come gergali o dialettali, a testimonianza del fatto che dovevano essere, già al tempo, ben radicate nella cultura linguistica non solo romana (Id., p. 190).
Ragazzi di vita presenta, in generale, un tasso di conservatività dialettale superiore a Una vita violenta e alle successive sceneggiature dei film romani. Dal testo emerge un quadro linguisticamente stratificato, risultato di una minuziosa opera di raccolta di Pasolini, che, riproponendo una efficace immagine di Asor Rosa, «taccuino in tasca, va di borgata in borgata, di strada in strada, alla ricerca dei ragazzi di vita, dei loro padri e delle loro madri, colloquia, scherza, ride con loro, e nel frattempo accuratamente li studia» (1962, p. 138).
La letteratura delle borgate ha senza dubbio contribuito, insieme alla sua derivazione filmica, a diffondere parole ed espressioni gergali o colloquiali che oggi sono ormai sedimentate nella cultura di massa: si pensi a all’esclamazione di stupore o ammirazione ammazza!, ai termini battona ‘prostituta’, coatto ‘giovane sottoproletario urbano di modi volgari e spesso violenti; poi, per estensione, ‘persona rozza, volgare’, manfrina ‘tergiversazione, lungaggine interminabile’, pipinara ‘gruppo di bambini o ragazzini chiassosi e vivaci’, sgamare ‘cogliere sul fatto, beccare’, ecc. (definizioni ricavate dal GRADIT).
Non mancano, d’altro canto, spie della non autoctonia dell’autore rispetto all’ambiente linguistico che raffigura, come l’uso di tenere per avere, che non riguarda Roma, ma l’area più meridionale della penisola, o l’infinito irsene per andarsene, per citare solo alcuni casi rilevati da Serianni in un importante saggio sulla prosa di Pasolini (1996), che valuta il romanesco dello scrittore friulano, nonostante le sviste, attendibile sul piano diatopico, ma limitato dal punto di vista diastratico e diafasico al quadro sociolinguistico dei ragazzi delle borgate.
Ulteriori aspetti linguistici
Oltre che nel lessico, la lingua di Roma permea trasversalmente tutti i piani linguistici del testo. Il raddoppiamento grafico indica il rafforzamento fonetico sia all’interno della parola che della frase: «vie’ cqua a incollà li chiodi» (RV, p. 524), «chi ce sta oggi a ffa’ e pulizzie?» (UV, p. 823).
È presente talvolta la rappresentazione della spirantizzazione dell’affricata postalveolare sorda in posizione intervocalica: «aveva pestato un froscio, per rubargli un par di mila lire» (RV, p. 553). Il vocalismo restituisce tratti oscillanti (cfr. Giovanardi, pp. 81-83), le cui realizzazioni più conservative si riscontrano con maggiore sistematicità nelle desinenze verbali. L’uso delle desinenze della prima persona plurale del presente indicativo -amo, -emo, -imo è pressoché sistematico (annamo, aspettamo, avemo, divertimo, famo, nisconnemo, perdemo, semo, smontamo, stamo, tornamo, uscimo, vincemo, vestimo ecc.), mentre i pochi casi in cui si registra la desinenza italiana -iamo riguardano verbi che presentano la -i- tematica (rimediamo), oppure se ne limita l’uso alla lingua di personaggi specifici, come il napoletano di Ragazzi di vita: «“Noi siamo in cinque”, fece, “uno fa la cartina e gli altri se mettono intorno facendo finta di essere dei passanti. Io, mettiamo, sono quello che fa la cartina e comincio il gioco”» (pp. 548-549).
La morfologia dell’articolo è riconoscibilmente romana: il determinativo maschile è er al singolare (con conseguenze visibili anche nelle preposizioni articolate ner, cor), li al plurale; il femminile perde talvolta la laterale (‘a comunione;‘e bbarche) gli indeterminativi uno e una perdono quasi sempre la vocale iniziale (‘na gita; ‘no scudo), come anche un, davanti a vocale. Le preposizioni articolate di separano in de lo, de la, de li, co lo, co la ecc.
Generalizzato nei discorsi diretti dei due testi è uno dei tratti più caratteristici del romanesco: l’infinito apocopato (beve, fà, incollà, rubbà, sapè, tirà, venì). Si registra anche la singolare sopravvivenza dell’infinito epitetico in -ne («nun t’avveline» ‘non ti avvilire’) in Una Vita Violenta (p. 1012), tratto da ricondurre al romanesco della fase preunitaria (cfr. Trifone 2008, p. 29).
Dialetto e gergo come mezzi di scardinamento sociale
E dire che la letteratura italiana (non fiorentina) era cominciata proprio sotto il segno del “pastiche”. Il pastiche gaddiano proprio: letterario di origine, non metafisico (quello del gran modulo realistico ch’è la Divina Commedia). […] Il lettore non si atterrisca alla congerie: e si aggrappi tranquillamente allo schema. E vedrà come giunti alle soglie della nostra epoca, la grande costante petrarchesca appaia incrinata ed esausta: come il mondo sociale e politico in cui aveva potuto esistere. Mentre l’altra corrente, la dantesca, appare potenzialmente vivificata e possibilitata a nuovi sviluppi. (Passione e ideologia [in SLA], p. 1050)
È evidente, in questo intervento su Gadda pubblicato nel ’54 (Gadda. Le novelle dal Ducato in fiamme) quanto decisivo sia stato nella ricerca linguistica di Pasolini il modulo stilistico continiano, che nel saggio Preliminari sulla lingua del Petrarca del 1955 individuava la contrapposizione, nella letteratura italiana, tra le due correnti del monolinguismo della linea Petrarca-Leopardi e il plurilinguismo della linea Dante-Gadda, al quale la tensione sperimentale di Pasolini non poteva che aderire.
Stabilita l’interdipendenza espressionistica tra mondo sociale e mondo linguistico, Pasolini sceglie di adottare quel gergo che nasce «in centri ben determinati di artigiani o di ladri» (Il gergo a Roma, p. 696) e che si diffonde trasversalmente fra i parlanti. Il romanesco parlato nelle borgate, testimonianza di «un gusto linguistico estremamente inventivo, attraente, divertente, ironico, infido, insolente, beato» (ib.), diviene unico mezzo per la restituzione di quel mondo in chiave mimetico-realistica (cfr. Ferretti 1964, p. 219) e rappresenta, nella narrativa romana ancora più che nella poesia friulana, strumento di espressione e lucida formulazione di una neo-storia antiborghese che si opponeva a «questo nuovo fascismo che è l'accentramento, che è l'accentramento linguistico e culturale del consumismo» (Volgar eloquio, p. 79).
Bibliografia citata
P.P. Pasolini
Lettere = Lettere 1940-1954, a cura di N. Naldini, Torino, Einaudi, 1986.
Volgar Eloquio, prefazione e cura di G. C. Ferretti, Roma, Editori Riuniti, 1987.
RR = Romanzi e racconti, a cura di W. Siti e S. De Laude, 2 voll. Milano, Mondadori, 1998 [Amado mio: I, pp.197-248; Ragazzi di vita: I, pp. 523-813; Una vita violenta: I, pp. 823-1187; Il sogno di una cosa: pp. 5-113; Alì dagli occhi azzurri: II, pp. 329-889].
SLA = Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, Mondadori, 1998 [Il gergo a Roma: pp. 695-698; Passione e ideologia: pp. 709-1239].
A. Asor Rosa, Scrittori e popolo, Roma, Samonà e Savelli, 1962.
G. Contini, Preliminari sulla lingua del Petrarca, in ID., Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino, Einaudi, 1955.
C. Costa, Ancora sui glossari romaneschi dei romanzi di Pier Paolo Pasolini, in M. Teodonio (a cura di), Pasolini tra friulano e romanesco, Atti del convegno “Pasolini tra friulano e romanesco” (Roma, 15 dicembre 1995), 1997.
G. C. Ferretti, Letteratura e ideologia, Roma, Editori riuniti, 1964.
C. Giovanardi, Il romanesco di Pasolini fra tradizione e innovazione, in F. Tomassini e M. Venturini (a cura di), “L’ora è confusa e noi come perduti la viviamo”. Leggere Pier Paolo Pasolini quarant’anni dopo, Roma, Roma Tre-press, 2017, pp. 73-86.
GRADIT = T. De Mauro, Grande dizionario italiano della lingua dell’uso, 2ª edizione, 8 voll., Utet, Torino, 2007.
L. Martellini, Ritratto di Pasolini, Roma-Bari, Laterza, 2006.
C. Salinari, La questione del realismo. Poeti e narratori del Novecento, Firenze, Parenti, 1960.
B. D. Schwartz, Pasolini Requiem, Venezia, Marsilio, 1992.
E. Siciliano, Vita di Pasolini, Rizzoli, Mondadori, Milano, 2005 (1ª ed. Milano, 1978).
P. Trifone, Storia linguistica di Roma, Roma, Carocci, 2008.
Immagine: Screenshot dal film Mamma Roma (1962)