Che Pier Paolo Pasolini fosse un muckraker, uno ‘spala-sterco’ – definizione della tradizione giornalistica statunitense ottocentesca che qualifica professionisti della cronaca e della critica capaci di narrare l’immoralità e la corruzione dei leader politici e spirituali, assumendosi cocenti rischi ed enormi responsabilità –, si capisce il 9 ottobre 1958, giorno dell’esequie papali riservate a Eugenio Pacelli, Papa Pio XII, nel quale l’intellettuale di Casarsa scrive la lirica A un Papa, immersa all’interno della raccolta La religione del mio tempo: «Quanto bene tu potevi fare! E non lo hai fatto: Non c'è stato peccatore più grande di te» (PASOLINI 1958, p. 110). Il poeta mette davanti agli occhi spenti del Santo Padre gli aut aut sociali nascosti sotto il velo arabescato della ricostruzione nel Boom Economico: miseria-ricchezza, impegno-indifferenza, bene-male. Al culmine dei versi si contrappone la beffarda fine di un barbone di borgata, Zucchetto – investito da un tram ai mercati del Monte Gelsomino, ridotto a brandelli in mezzo al menefreghismo generale – alle dorate celebrazioni della morte del Papa, colpevole, per l’autore, di non aver mosso un dito a favore degli ultimi di Roma.
Lingua e disintegrazione dell’umile Italia
La società dei consumi, impostasi celermente negli anni Sessanta, allarma l’intellettuale-mondo, che osserva come la trasformazione della lingua scritta e parlata sia il sintomo di una disintegrazione dei valori dell’umile Italia, quella dei contadini e del sottoproletariato urbano, sbattuta fuori dalla sacca storia. Il “nuovo volgare” – il dialetto –, che pulsa nel sottobosco, ai margini delle città futuriste, può rappresentare l’arma ideologica intrisa d’originalità da contrapporre all’espansione industriale neocapitalista, che perpetua «la liquidazione dei dialetti» (MARTELLINI 2006, p. 150) con l’obiettivo di omologare velocemente il popolo italiano attraverso un progresso tecnologico in disequilibrio con lo sviluppo socioeconomico e culturale. Su organi d’informazione come «Il Giorno» e «L’Espresso», Pasolini espone un’autorevole coscienza filologica, maturata grazie agli studi dello strutturalismo di alcuni dei maggiori linguisti e semiologi dell’Ottocento e del Novecento: Roman Jakobson, Ferdinand de Saussure e Roland Barthes.
«Mentre il «nuovo italiano nazionale» vagisce nelle aziende del Nord, l'italiano medio, la koinè dialettizzata, e la valanga dei gerghi, da quello letterario a quello della malavita, continuano, per inerzia il loro sviluppo. E la storia della crescita dell'italiano nazionale che io ho indicato, è la storia del rapporto tra nuova stratificazione tecnologica, – quale principio unificante e modificante dell'italiano – con tutte queste stratificazioni precedenti e tutti questi tipi di linguaggi ancora viventi» (PASOLINI 1965, p. 37).
Il cuore del Palazzo e i capelloni
Negli anni Settanta, gli obiettivi di PPP, da trafiggere con pezzi di denuncia sul giornale più altisonante dell’epoca, il «Corriere della sera», sono i simboli della nuova religione, il consumismo, a ogni piè sospinta dal tamburo tribale del commercio globalizzante, pronto a guidare la contro-rivoluzione interiore ed esteriore per l’individuo: il conformismo totale. E non solo: l’obiettivo più urgente da mettere nel mirino della sua Olivetti è il cuore del Palazzo, responsabile, secondo l’autore, di una mala-evoluzione antropologica che punta alla cancellazione del proletariato, nascondendo dietro il codice del politichese la piaga più dolorosa dello Stato italiano: la corruzione della classe dirigente tra le bombe del terrorismo di matrice politica.
L’archetipo del conformista secondo l’intellettuale eclettico è il capellone, effige della Contestazione Giovanile del 1968. Nell’articolo Contro i capelli lunghi, l’autore traccia il futuro del sessantottino, interpretando i suoi costumi, il suo linguaggio, suoi ideali, la sua rivoluzione, che rompe con la generazione dei propri padri e di conseguenza con un intero patrimonio storico:
«Il loro parlare coincideva con il loro essere. L'ineffabilità era l'ars retorica della loro protesta […] Venne il 1968. I capelloni furono assorbiti dal Movimento Studentesco; sventolarono con le bandiere rosse […] Il ciclo si è compiuto. La sottocultura al potere ha assorbito la sottocultura all'opposizione e l’ha fatta propria: con diabolica abilità ne ha fatto parzialmente una moda, che, se non si può proprio dire fascista nel senso classico della parola, è però di una “estrema destra” reale […] Essi sono in realtà andati più indietro dei loro padri, risuscitando nella loro anima terrori e conformismi, e, nel loro aspetto fisico, convenzionalità e miserie che parevano superate per sempre. Ora così i capelli lunghi dicono, nel loro inarticolato e ossesso linguaggio di segni non verbali, nella loro teppistica iconicità, le “cose” della televisione o delle réclames dei prodotti, dove è ormai assolutamente inconcepibile prevedere un giovane che non abbia i capelli lunghi: fatto che, oggi, sarebbe scandaloso per il potere» (PASOLINI 1973, pp. 10-16).
Il medium glaciale
Un articolo che spiazza pubblico e critica. I capelloni, che protestano nelle piazze, nelle scuole, contro i padroni e i baroni ai vertici delle caste, sono per Pasolini servi del potere stesso, testimonial di un cambiamento culturale apparente, gattopardesco, elitario, privo di fondamenti ideologici e intellettuali. Conseguenza dell’errore più grave che la generazione di Woodstock avrebbe compiuto: non dialogare in maniera edificante coi loro padri, facendo tabula rasa del passato, sostituendosi nei ruoli di comando ad essi, ed evidenziando, secondo il suo j’accuse, tra gli echi del maggio francese, di essere pensatori privi di un’adeguata base artistica, sociologica e filosofica. La sentenza dell’intellettuale corsaro è durissima: i capelloni sono schiavi della società dei consumi, della coercizione edonistica del marketing, dominati dalla modernità del codice televisivo, medium glaciale, secondo Marshall McLuhan, che li affascinava, li stordiva, con il suo linguaggio innovativo. I professionisti della TV vivono grazie al messaggio pubblicitario insinuante e nel Dopoguerra brevettano una strategia infallibile per conquistare il telespettatore: lo slogan stereotipato. Il consumatore insegue, quasi fosse un’estensione del proprio corpo, il bene di consumo. Nell’articolo Il folle slogan dei jeans, Pasolini analizza il caso dei Jeans Jesus, esempio lampante della potenza della lingua del marketing sulla percezione del consumatore:
«C’è un solo caso di espressività – ma di espressività aberrante – nel linguaggio puramente comunicativo dell'industria: è il caso dello slogan. Lo slogan infatti deve essere espressivo, per impressionare e convincere. Ma la sua espressività è mostruosa perché diviene immediatamente stereotipa, e si fissa in una rigidità che è proprio il contrario dell'espressività, che è eternamente cangiante, si offre a un’interpretazione infinita. La finta espressività dello slogan è così la punta massima della nuova lingua tecnica che sostituisce la lingua umanistica. Essa è il simbolo della vita linguistica del futuro, cioè di un mondo inespressivo, senza particolarismi e diversità di culture, perfettamente omologato e acculturato […] Sembra folle, ma un recente slogan, quello divenuto fulmineamente celebre, dei «jeans Jesus»: «Non avrai altri jeans all'infuori di me», si pone come fatto nuovo, una eccezione nel canone fisso dello slogan, rivelandone una possibilità espressiva imprevista, e indicandone una evoluzione diversa da quella che la convenzionalità – subito adottata dai disperati che vogliono sentire il futuro come morte – faceva troppo ragionevolmente prevedere» (PASOLINI 1973, pp. 17-18).
L’intellettuale friulano osserva come la principale criticità dell’omologazione culturale fosse l’impoverimento dell’espressività linguistica a favore di una comunicazione iconografica al servizio dell’azienda e dei suoi messaggi subliminali. Il consumismo allontana dal mondo reale, dai valori del popolo contadino e artigiano che ha combattuto le due Guerre Mondiali. Per l’autore, la purezza dei giovani può rappresentare l’elemento in grado di sovvertire la scala gerarchica della società consumistica attraverso la solidarietà, la creatività, la giustizia sociale. Pasolini invoca i figli del sottoproletariato, quelli che non scendono a patti con la borghesia, pervasi di coraggio, pronti a difendersi per non farsi assorbire dall’ideologia edonistica. Ma la purezza del giovane del futuro è minata dal medium televisivo e da una classe dirigente protagonista di un «nuovo fascismo», attuato attraverso due rivoluzioni: quella delle infrastrutture – narrata con le peripezie di Riccetto in Ragazzi di vita (1955) e filmata con l’urlo di Anna Magnani in Mamma Roma (1962) – e quella capillare del sistema d’informazioni, descritta, combattuta dall’autore con la sua attività giornalistica. L’articolo Sfida ai dirigenti della televisione rappresenta l’emblema di tale battaglia:
«Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l'adesione ai modelli imposti dal Centro, è totale e incondizionata. I modelli culturali ideali sono rinnegati. L’abiura è compiuta. Si può dunque affermare che la «tolleranza» della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana. Come si è potuta esercitare tale repressione? Attraverso due rivoluzioni, interne all'organizzazione borghese: la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema d'informazioni» (PASOLINI 1973, pp. 31-32).
Una pura illusione
PPP cerca d’istaurare un dialogo con il popolo italiano, come accaduto nel documentario Comizi d’amore nel 1965, sondandone le pulsioni, le aspirazioni, le nuove prospettive date dal consumismo, capaci di mettere in discussione il retaggio d’appartenenza. Dopo un’istruttoria cesellata da due decenni di prodotti culturali trasversali tra i libri, il cinema e il teatro, l’intellettuale corsaro processa i suoi connazionali assieme alle reti culturali ed economiche protagoniste di un decadimento etico e morale, travestito da spettacolare Rinascimento. Ma il nuovo umanesimo è una pura illusione. La seduta inaugurale del processo avviene il 10 giugno 1974, nella sede intellegibile delle pagine del Corsera con l’articolo Gli italiani non sono più quelli:
«I «ceti medi» sono radicalmente – direi antropologicamente – cambiati: i loro valori positivi non sono più i valori sanfedisti e clericali ma sono i valori (ancora vissuti solo esistenzialmente e non «nominati») dell’ideologia edonistica del consumo e della conseguente tolleranza modernistica di tipo americano. È stato lo stesso Potere – attraverso lo «sviluppo» della produzione di beni superflui, l’impostazione della smania del consumo, la moda, l'informazione (soprattutto, in maniera imponente, la televisione) – a creare tali valori, gettando a mare cinicamente i valori tradizionali e la Chiesa stessa, che ne era il simbolo. […] l’Italia contadina e paleoindustriale è crollata, si è disfatta, non c'è più, e al suo posto c'è un vuoto che aspetta probabilmente di essere colmato da una completa borghesizzazione, del tipo che ho accennato qui sopra (modernizzante, falsamente tollerante, americaneggiante ecc.)» (PASOLINI 1974, pp. 51-52).
L’accusa di Pasolini agli italiani è di essersi abbandonati senza opporre resistenza all’incontrovertibile volere delle multinazionali: diventare borghesi non solo materialmente, ma come filosofia d’esistenza. L'Italia contadina e paleoindustriale rimane una polaroid sbiadita: più vivido che mai è uno stile di vita ‘americano’ da imitare, abbinando ad esso un consumo da eseguire come undicesimo comandamento. La televisione fa il resto: unisce linguisticamente il Paese, crea valori edonistici, funzionali al blocco capitalistico, soppianta i vecchi cardini educativi come la chiesa e la scuola, ma non disdegna l’istituzione famiglia, fonte principale di consumo.
L’intento dell’opera giornalistica di PPP è ambizioso e affascinante: aggirare la strumentalizzazione culturale borghese per riflettere apertamente assieme a tutti gli uomini-oggetto sull’esistenza di un «potere senza volto», che promette la chimera del benessere seguendo le massime dell’ingranaggio omologante. A livello politico, l’autore è nauseato dalle mistificazioni dei partiti di governo, che negli anni della ricostruzione hanno generato disservizi per la smania dell’affermazione personale e del proprio clan o lobby, ampliando la forbice socioeconomica del divario tra Nord e Sud. Nell’ultimo articolo della sua brillante carriera da muckraker, Perché il processo, pubblicato trentasei giorni prima della sua orrenda morte, l’autore spiega le motivazioni che lo spingono a mettere alla sbarra forze politiche, società civile e burattinai. Con il canto del cigno l’intellettuale degli ultimi raccoglie il testimone di uno dei suoi modelli giovanili, Antonio Gramsci, delineando i punti angolari di un nuovo meridionalismo:
«Perché in questi dieci anni di cosiddetta tolleranza si è fatta ancora più profonda la divisione tra Italia Settentrionale e Italia Meridionale, rendendo sempre più, i Meridionali, cittadini di seconda qualità. […] Perché in questi dieci anni di cosiddetta civiltà tecnologica si siano compiuti così selvaggi disastri edilizi, urbanistici, paesaggistici, ecologici […]. Perché in questi dieci anni di cosiddetto progresso la «massa» dal punto di vista umano si sia così depauperata e degradata. […] Perché in questi dieci anni di cosiddetta democratizzazione […] i decentramenti siano serviti unicamente come cinica copertura alle manovre di un vecchio sottogoverno clerico-fascista divenuto meramente mafioso. Ho detto e ripetuto la stessa parola «perché»: gli italiani non vogliono infatti consapevolmente sapere che questi fenomeni oggettivamente esistono, e quali siano gli eventuali rimedi: ma vogliono sapere appunto, e prima di tutto, perché esistono» (PASOLINI 1975, p. 192).
Profezie e corsari-patrioti
Pasolini muore il 2 novembre 1975, in circostanze nebulose, mai pienamente chiarite. Attraverso i suoi articoli, intendeva imprimersi nell’immaginario del lettore come la pagliuzza di Adorno sulle determinanti questioni sociali. Presa consapevolezza di essere vittima intellettuale di un fascismo edonistico e di non riuscire a vincerlo, accettando la deriva della società della quale faceva attivamente parte, decise di perdere ogni freno inibitorio e di immolarsi per la causa, parlando direttamente alle menti del Duemila con visione profetica. Dopo le bombe giornalistiche pubblicate sul «Corriere della Sera», PPP regala al mondo una lucida e graffiante allegoria sulla falsariga dei gironi dell’Inferno dantesco, in grado di raccontare le vessazioni dei poteri temporali subite dai giovani della contemporaneità: la pellicola Salò o le 120 giornate di Sodoma. Sulla stessa linea dei pezzi di denuncia, racchiusi in una raccolta pubblicata da Garzanti nel 1975 e titolata Scritti Corsari, è l’ultimo romanzo della sua vita, incompiuto, Petrolio, omaggio a un corsaro-patriota, incompreso come lui, scomparso tragicamente poiché amava la sua Italia, il suo popolo: Enrico Mattei.
Bibliografia in ordine di apparizione nel testo
P. P. PASOLINI, Poesie, Garzanti, Milano, 2016;
L. MARTELLINI, Ritratto di Pasolini, Editori Laterza, Bari, 2006;
P. P. PASOLINI, Articolo da «Il Giorno», marzo 1965, in Empirismo eretico, P. P. PASOLINI, Garzanti, Milano, 1972.
P. P. PASOLINI, Contro i capelli lunghi, dal «Corriere della sera» del 7 gennaio 1973, in Scritti corsari, P. P. PASOLINI, Garzanti, Milano, 1975.
P. P. PASOLINI, Il folle slogan dei jeans, dal «Corriere della sera» del 17 maggio 1973, in Scritti corsari, P. P. PASOLINI, Garzanti, Milano, 1975.
P. P. PASOLINI, Sfida ai dirigenti della televisione, dal «Corriere della sera» del 9 dicembre 1973, in Scritti corsari, P. P. PASOLINI, Garzanti, Milano, 1975.
P. P. PASOLINI, Gli italiani non sono più quelli, dal «Corriere della sera» del 10 giugno 1974, in Scritti corsari, P. P. PASOLINI, Garzanti, Milano, 1975.
P. P. PASOLINI, Perché il Processo, dal «Corriere della sera» del 28 settembre 1975, in Scritti corsari, P. P. PASOLINI, Garzanti, Milano, 1975.
Altri testi consultati:
A. GAGLIANI, Impegno e disincanto in Pasolini, De André, Gaber e R. Gaetano, IQdB Edizioni, Lecce, 2018.
FONDO PIER PAOLO PASOLINI, Pier Paolo Pasolini – Le regole di un’illusione, Editori Riuniti, Roma, 1996.
J. DUFLOT, Pier Paolo Pasolini – Il sogno del centauro, Editori Riuniti, Roma, 1993
P. P. PASOLINI, Passione e ideologia, Einaudi, Torino, 1985.
P. P. PASOLINI, Trasumanar e organizzar, Garzanti, Milano, 1971.
P. P. PASOLINI, Volgar’Eloquio, Edizioni FAP, Roma, 2015.
Sito consultato
www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it
Immagine: Screenshot dal film Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975)