28 febbraio 2022

Scritti corsari e scritti pubblicitari. La lezione di Pasolini

 

Rileggere Pasolini con gli occhi del pubblicitario è un atto di masochismo estremo. Ma se un libro casca dalla libreria senza che alcun sommovimento tellurico venga a dichiararsi parte in causa, e raccogliendolo da terra, impolverato e vecchio, leggi sul retro, non senza tenerezza, prezzo 2.200 lire e, voltandolo: Scritti corsari e ancora, come non bastasse, se per una non si sa quale retroattiva coartazione sinaptica hai in testa dalla mattina Che cosa sono le nuvole – la canzone musicata da Modugno e scritta da Pasolini per il cortometraggio omonimo (qui) – ecco: ti viene da pensare che il libro te lo stia chiedendo lui di essere letto. Ti sembra cioè, che sia PPP in persona, a supplicarti di riprendere in mano le sue parole, quasi che, querulo, e da una posizione scomoda e di estrema debolezza qual è quella cui lo costringe la pietra tombale, ti sussurrasse: non credi che adesso dovrei dire la mia?

È solo un fruscìo, quello prodotto dalle pagine ingiallite e sfarinate sui bordi, ma la suggestione lo fa assomigliare a un flatus vocis, a una sospirante richiesta di considerazione, la quale, provenendo da chi, da vivo, non aveva paura di dare del conformista a Umberto Eco o a Italo Calvino… insomma, fa una certa impressione. In breve, non possiamo esimerci.

 

Pasolini e la pubblicità

E allora lasciamogliela dire, la sua. Almeno su ciò che ci riguarda più da vicino: la pubblicità. Saranno parole ancora attuali? Valide, cioè, anche per questi tempi di tracciamento dei gusti e delle abitudini, e di elaborazioni massive di big data, e di progetti transumanisti entusiastici e in corso d’opera?

L’11 luglio 1974, in un’intervista contenuta proprio nel libro che abbiamo per le mani, il Nostro diceva: «è in Carosello, onnipotente, che esplode in tutto il suo nitore, la sua assolutezza, la sua perentorietà, il nuovo tipo di vita che gli italiani devono vivere».

Carosello, per i pochi super giovani che non lo sapessero, era il contenitore preserale delle réclame televisive, quando ancora l’unica rete autorizzata a trasmettere sulle frequenze italiche era quella di Stato, la Rai (per vedere qualche esempio, qui).

Quanto erano ingenue quelle campagne. Eppure, anche così ingenue, Pasolini le sferzava: «Il bombardamento ideologico televisivo non è esplicito: esso è tutto nelle cose, tutto indiretto» diceva (sempre nell’intervista di cui sopra). E poi: «Mai un ‘modello di vita’ ha potuto essere propagandato con tanta efficacia che attraverso la televisione. Il tipo d’uomo o di donna che conta, che è moderno, che è da imitare e da realizzare, non è descritto o decantato: è rappresentato! (…) Il linguaggio della televisione è per sua natura il linguaggio fisico-mimico, il linguaggio del comportamento. Che viene dunque mimato di sana pianta, senza mediazioni, nel linguaggio fisico-mimico e nel linguaggio del comportamento nella realtà. Gli eroi della propaganda televisiva – giovani su motociclette, ragazze accanto a dentifrici – proliferano in milioni di eroi analoghi nella realtà».

Ce n’è abbastanza per mettere in dubbio, se non frantumare del tutto, la sovradimensionata convinzione che il pubblicitario contemporaneo ha di guidare il mondo, insieme a intellettuali e artisti, verso l’emancipazione e il progresso.

 

Il fascismo dei consumi

Il fatto è che Pasolini non lo puoi annacquare. Lo prendi così com’è, o lo rifiuti. Non ci vieni a patti. Chi ci provò – vari dirigenti del PCI, più quasi tutti gli intellettuali, tra cui l’amico Moravia – ne uscì con le ossa rotte.

Certo, se la sua critica si fosse limitata alla comunicazione commerciale – un po’ al modo superficiale di Vance Packard, che nel ’57 aveva scritto I persuasori occulti, o al modo più attuale ma non meno superficiale di Frédéric Beigbeder – probabilmente avrebbe trovato sodàli e compagni di viaggio in più gran numero. Chi mai viene osteggiato se attacca quella ignominia del capitale che è la pubblicità, crogiuolo di tutti i mali? Ma Pasolini ce l’aveva con ciò di cui era espressione la pubblicità. Oggetto della sua critica era un fenomeno dalle dimensioni epocali, di cui la pubblicità non era che un aspetto secondario. Per il grande intellettuale e artista nel giro di pochi decenni si era consumato un mutamento antropologico dai contorni minacciosi e inquietanti, che chiamava il ‘fascismo dei consumi’. In questo contesto allargato (ma è deduzione nostra), la pubblicità sembra qualificarsi quale effetto del passaggio storico avvertito, piuttosto che come causa prima. In sintesi: se in altri autori essa è il capro espiatorio dei mali della modernità, in Pasolini appare più come epifenomeno. Ciò non le faceva guadagnare nulla in termini di innocenza – la sua funzione era pur sempre collaborazionista, organica al sistema, e Pasolini non la amava – ma almeno non c’erano persuasori occulti da scoprire. Era tutto lì, alla luce del sole.

Si trattava di questo: la cultura popolare, che per 14.000 anni aveva nutrito le genti di tutto il pianeta, con i suoi particolarismi e proprio in virtù di ciò con la sua unitarietà di fondo, era stata spazzata via dalla cultura di massa. E l’uomo, povero fuori ma libero dentro, mutava senza avvedersene in uomo ricco fuori – ricco nel senso che poteva permettersi un frigorifero e un’automobile – ma schiavo dentro, nello spirito.

Fatale chiasmo della modernità. Così lampante che bastava avere la forza morale di guardarlo; ma quella forza, agli intellettuali di sinistra omologati, oggetto dei suoi strali, difettava.

«Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi» scrive Pasolini il 9 dicembre 1973 sul «Corriere della sera»: «Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava a ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è compiuta. Si può dunque affermare che la ‘tolleranza’ della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana. (…) Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un ‘uomo che consuma’, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. (…) Il fascismo non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto, la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre…».

 

Apocalisse o progresso?

È chiaro che Pasolini vede l’apocalisse dove altri vedono un radioso avvenire. In questo ricorda il Leopardi della Ginestra, che a certo ottimismo stolido riservò punte di indimenticabile sarcasmo: «Dipinte in queste rive / son dell’umana gente / le magnifiche sorti e progressive». E anche il Baudelaire di Mon cœur mis à nu: «Moriremo per ciò di cui abbiamo creduto vivere. La meccanica ci avrà talmente americanizzati, il progresso avrà atrofizzato così bene in noi tutta la parte spirituale, che niente, tra le fantasticherie sanguinarie, sacrileghe, o antinaturali degli utopisti, potrà essere paragonato ai suoi risultati positivi».

Questa posizione culturale in genere viene derubricata al rango di nostalgia irrazionale per qualcosa di indefinito e idealizzato. A polverizzarne l’inconsistenza si dedicano, con solerzia da depositari della verità, gli irrinunciabili e razionalissimi vantaggi del progresso. Affrancarsi dal lavoro della terra, accedere a qualche comodità, lasciarsi alle spalle una certa religiosità naturale, diventare più istruiti (ma meno colti, per Pasolini), credere ciecamente nella scienza e nella tecnica, non sono forse aspetti positivi della modernità?

Ancora dal «Corriere», è il primo marzo del ’75: «Il consumismo altro non è che una nuova forma totalitaria. (…) La sua permissività è falsa: è la maschera della peggiore repressione mai esercitata dal potere sulle masse dei cittadini. (…) Il nuovo potere consumistico e permissivo si è valso proprio delle nostre conquiste mentali di laici, di illuministi, di razionalisti, per costruire la propria impalcatura di falso laicismo, di falso illuminismo, di falsa razionalità. Si è valso delle nostre sconsacrazioni per liberarsi di un passato che, con tutte le sue atroci e idiote consacrazioni, non gli serviva più. In compenso però tale nuovo potere ha portato al limite massimo la sua unica possibile sacralità: la sacralità del consumo come rito, e, naturalmente, della merce come feticcio. (…) Come polli d’allevamento, gli italiani hanno subito assorbito la nuova ideologia irreligiosa e antisentimentale del potere: tale è la forza di attrazione e di convinzione della nuova qualità di vita che il potere promette, e tale è, insieme, la forza degli strumenti di comunicazione di cui il potere dispone».

In effetti, che ce ne facciamo del sacro, se possiamo avere le nuovissime scarpe della Nike? Il sacro però riemerge dove e quando meno te lo aspetti, tra le intercapedini degli eventi più bizzarri. Per esempio: correre per tutta la città alla ricerca di un Pokémon in realtà aumentata, che si manifesta solo se lo inquadriamo nello schermo del telefonino, che cos’è, in fondo, se non ancora e sempre il tentativo, reiterato nei secoli, di ‘pescare’ un invisibile che dia senso al visibile? Chissà che lettura ne avrebbe data Pasolini, fosse stato vivo nel 2016, quando 75 milioni di persone – queste le stime ufficiali – si misero a vagare per il mondo alla smaniosa ricerca di creature immaginarie giapponesi (qui). E chissà come avrebbe interpretato la prima mostra in realtà aumentata della storia, giugno 2021, Grand Palais di Parigi. Nessun oggetto concreto da vedere. Solo installazioni e animazioni virtuali da scoprire attraverso la videocamera dello smartphone (qui).

 

Pars construens

Fascismo dei consumi, schiavitù dell’uomo contemporaneo. Sono temi tremendi, ai quali il pubblicitario malvolentieri presta attenzione. Non tanto per la pochezza e l’insufficienza, o anche l’arbitrarietà, con cui li abbiamo riproposti (si consiglia vivamente di andare a leggere i testi originali, qui si è fatta sintesi e neppure troppo bene), quanto per le conseguenze che un’eventuale adesione, in toto, al pensiero pasoliniano comporterebbe. Un pubblicitario coerente dovrebbe dimettersi e cambiare mestiere (c’è chi l’ha fatto). Un pubblicitario incoerente, qual è chi scrive, sceglie una via di mezzo. Quale? Quella che decide di non sottrarsi al confronto con un pensiero così radicale, ma allo stesso tempo non vuole demonizzare la propria professione, convinto che esista sempre la possibilità di accedere a una dimensione eticamente accettabile.

Il primo passo per costruire questa dimensione, oltretutto, consiste propriamente nel non accettare lo svilimento che certo approccio primitivo e volgare alla materia ‘comunicazione’ vorrebbe imporre. Su questo Pasolini ha molto da insegnare. Se lo leggiamo non tanto con l’intento di assorbirne o rigettarne l’ideologia, quanto con quello di cogliere qualcosa di ciò che lo rendeva l’intellettuale particolarissimo e unico che era, è probabile che ne estrarremo suggerimenti utili e fecondi. Segnalo dunque tre parole che attraversano gli Scritti corsari in vario modo, ma sempre all’interno di un taglio prospettico originale, che le rigenera. E questo è un primo insegnamento. Quando le parole si rigenerano, si inizia a comunicare bene.

 

Cultura e sentimento

La prima parola è cultura. L’idea di cultura di Pasolini è quanto di più lontano dall’elitarismo che si respira negli ambienti della comunicazione. Scrive il Nostro sul «Tempo», il 12 luglio del ’74: «Credono che il popolo non abbia cultura perché non ha cultura borghese. Che il popolo dunque viva in una specie di sogno pre-culturale, cioè pre-morale e pre-ideologico. (…) Attraverso una nozione così estremamente classista, per non dire aristocratica, di ‘cultura’, il popolo viene dunque considerato come una specie di riserva, ai cui appartenenti la cosidetta democrazia parlamentare consente la possibilità di contribuire alla ‘cultura’ del Paese solo a patto che essi siano capaci di ottenere una ‘promozione’ sociale. Cioè di accettare e far propria la ‘cultura’ della classe dominante».

Capire che cultura non vuol dire necessariamente istruzione borghese, e che una visione del mondo può essere più lucida nella mente di una massaia che in quella di un laureato alla Bocconi, è molto importante per chi fa pubblicità. Gli ricorderà con quanta umiltà e rispetto dovrebbe rivolgersi, con il suo lavoro, a chiunque si stia rivolgendo.

La seconda parola è sentimento. In risposta alle critiche di un sociologo, il 26 luglio del ’74, sul «Corriere», Pasolini risponde: «Io vivo nelle cose, e invento come posso il modo di nominarle. Certo se io cerco di ‘descrivere’ l’aspetto terribile di un’intera nuova generazione, che ha subito tutti gli squilibri dovuti a uno sviluppo stupido e atroce, e cerco di ‘descriverlo’ in ‘questo’ giovane, in ‘questo’ operaio, non sono capito: perché al sociologo e al politico di professione non importa personalmente nulla di ‘questo’ giovane, di ‘questo’ operaio. Invece a me personalmente è la sola cosa che importa».

E ancora, nel famoso articolo delle lucciole, sul «Corriere» del primo febbraio ’75: «Ma, naturalmente, per capire i cambiamenti della gente, bisogna amarla. Io, purtroppo, questa gente italiana, l’avevo amata: sia al di fuori degli schemi del potere (anzi, in opposizione disperata ad essi), sia al di fuori degli schemi populistici e umanitari. Si trattava di un amore reale, radicato nel mio modo di essere».

Anche quando prenderà posizione contro l’aborto, inimicandosi compagni di partito e intellettuali, Pasolini lo farà non per una visione astratta e ideologica, ma per non tradire il suo sentire, il suo sentimento: «Per quanto riguarda una discussione diretta, limitata all’aborto, vorrei ribadire a Calvino che io non ho mai parlato di una vita in generale, ma ho parlato sempre di questa vita, di questa madre, di questa pancia, di questo nascituro. (…) Dire che la vita non è sacra, e che il sentimento è stupido, è fare un immenso favore ai produttori» («Corriere della sera», 1° marzo 1975).

Forse, per paura di cadere in quella sua parodia caricaturale che è il sentimentalismo di certi programmi TV, abbiamo accantonato troppo in fretta la parola sentimento. Quanta pubblicità migliore si farebbe, con un po’ di affetto in più per le persone cui ci rivolgiamo? E quanto giornalismo migliore? E quanta comicità sarebbe meno avvilente se…

«Ma non è particolarmente attraverso istituzioni politiche che si manifesterà la rovina universale, o il progresso universale; poiché il nome poco mi importa: Sarà attraverso l’avvilimento dei cuori» dice ancora Baudelaire, nell’opera già citata.

 

La lingua splendida

La terza parola, naturalmente, è lingua. La lingua degli Scritti corsari è una lingua piana, chiara, splendida. Fresca e rigogliosa come una fonte d’acqua, anche a quarant’anni dalla prima lettura, dove non si cede mai né al luogo comune né all’inutile complicazione. Lingua avvertita e colta, certo, che però non insegue l’effetto, il fuoco d’artificio, la voglia di stupire, e i pavoneggiamenti tipici di chi sa mettere in fila parole. Le cose complesse le dice in modo semplice. E si presenta senza infingimenti. Non allude. Non usa giri di parole. Non persegue secondi fini. Se deve scegliere tra due termini, sceglie quello più in uso. Perché Pasolini ama le parole che diamo per scontate, come sentimento, cuore, mamma, felicità, pane, onestà, religione, lucciole, mondo, vita… le parole del popolo. Egli attinge alla loro ricchezza insospettata e profonda. Nella sua penna o nella sua voce lemmi che altri usano per sola utilità pratica – senza affezione, o addirittura come armi per dileggiare e ferire – si rivestono, invece, di luce.

Siamo appena nel ’74 e lui già scrive sul «Corriere» che viviamo «in un momento storico in cui il linguaggio verbale è tutto convenzionale e sterilizzato». Che direbbe di come ci parliamo oggi?

E sulla lingua dei suoi detrattori, che per attaccarlo alludono goliardicamente alla sua omosessualità (tra questi Bocca, Eco, Ginzburg) dice: «La volgarità linguistica è diretto prodotto della cattiva coscienza, che è prodotta a sua volta dal ricorso ai luoghi comuni».

I luoghi comuni, già. Fa sorridere pensare che una personalità così attenta, in grado di cogliere nella parola aspetti di epifania e ontologia dell’essere umano, sia poi divenuta oggetto, quasi per contrappasso, dei più vuoti cliché linguistici: ‘testimone provocatorio’, ‘intellettuale controverso’, ‘coscienza scomoda’, ‘osservatore inquieto’, ‘voce fuori dal coro’ e via banalizzando… ma si sa, i cliché sono esorcismi.

Per Pasolini la lingua racconta, anticipandoli, i cambiamenti in atto nel mondo: «Tutta l’Italia centro-meridionale aveva proprie tradizioni regionali, o cittadine, di una lingua viva, di un dialetto che era rigenerato da continue invenzioni, e all’interno di questo dialetto, di gerghi ricchi di invenzioni quasi poetiche: a cui contribuivano tutti, giorno per giorno, ogni serata nasceva una battuta nuova, una spiritosaggine, una parola imprevista; c’era una meravigliosa vitalità linguistica. Il modello messo ora lì dalla classe dominante li ha bloccati linguisticamente: a Roma, per esempio, non si è più capaci di inventare, si è caduti in una specie di nevrosi afasica; o si parla una lingua finta, che non conosce difficoltà e resistenze, come se tutto fosse facilmente parlabile – ci si esprime come nei libri stampati – oppure si arriva addirittura alla vera e propria afasia nel senso clinico della parola; si è incapaci di inventare metafore e movimenti linguistici reali, quasi si mugola, o ci si danno spintoni, o si sghignazza senza saper dire altro» (Intervento alla Festa dell’Unità di Milano, estate ’74).

Per il pubblicitario di allora, portatore della nuova lingua dei consumi, non deve essere stato facile metabolizzare l’attacco diretto di Pasolini a quello che viene considerato uno dei capolavori della storia dell’advertising italiano. 1972, il famoso titolo di Emanuele Pirella per i jeans Jesus dice: «Non avrai altro jeans all’infuori di me» (qui). Pasolini ribatte: «C’è un solo caso di espressività – ma di espressività aberrante – nel linguaggio puramente comunicativo dell’industria: è il caso dello slogan. Lo slogan infatti deve essere espressivo, per impressionare e convincere. Ma la sua espressività è mostruosa perché diviene immediatamente stereotipa, e si fissa in una rigidità che è proprio il contrario dell’espressività, che è eternamente cangiante, si offre a un’interpretazione infinita. La finta espressività dello slogan è così la punta massima della nuova lingua tecnica che sostituisce la lingua umanistica. Essa è il simbolo della vita linguistica del futuro, cioè di un mondo inespressivo, senza particolarismi e diversità di culture, perfettamente omologato e acculturato. Di un mondo che a noi, ultimi depositari di una visione molteplice, magmatica, religiosa e razionale della vita, appare come un mondo di morte» (Il folle slogan dei jeans Jesus, 17 maggio 1973, sul «Corriere della sera»).

A leggere queste parole, si chiarisce perché non era esagerato quanto scrivevo in testa a queste note, e cioè che affrontare Pasolini con gli occhi del pubblicitario è un atto di masochismo estremo. Eppure, proprio da questa condanna senza appello si può trarre un insegnamento significativo e fecondo; quello che suggerisce di abbandonare gli stereotipi in favore di un’espressività “eternamente cangiante”, che “si offre a un’interpretazione infinita” e che abbandoni ogni “rigidità”.

Non siamo ingenui. Siamo consapevoli che i più scuoteranno la testa in segno di disapprovazione e altri sorrideranno malcelando lo scherno e subito dopo gli uni e gli altri si riuniranno per cantare tutti in coro l’inno degli uffici marketing: vendere! vendere! vendere! Qui si cerca di forzare il linguaggio pubblicitario verso l’alto, verso l’arte. Utopia?

 

Riferimenti bibliografici

Charles Baudelaire, Il mio cuore messo a nudo, Mondadori, 2004

Frédéric Beigbeder, Lire 26.900, Feltrinelli, 2001

Giacomo Leopardi, Canti, Rizzoli, 1979

Vance Packard, I persuasori occulti, Einaudi, 1958

Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, 1975

 

Immagine: Screenshot da https://www.youtube.com/watch?v=pjlTcL8gNnM

 

 


© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata