Esattamente quattro anni fa pubblicai un libro dedicato alla lingua di Dante, Petrarca e Boccaccio, tradizionalmente indicati, come è ben noto, come “le Tre Corone”. Il titolo del libro del 2015 coincideva, nel primo dei due segmenti che lo componevano, col titolo di questo del 2019: La grande bellezza dell’italiano. Nel periodo intercorso fra l’uscita di questo e l’uscita di quel volume ne ho scritto un terzo dedicato al solo Pietro Bembo, che ho intitolato La Quarta corona, individuando proprio in lui quella che segue le prime tre. I vocabolari spiegano che, in architettura, la chiave di volta è la pietra che, incuneandosi tra i due lati inclinati di un arco, li tiene insieme. Proprio questo direi del Pietro di cui sto parlando; e il densissimo contributo che in questo speciale gli ha dedicato Elisa Curti mi consente di farlo con maggior sicurezza. L’opera più importante di Bembo, le Prose nelle quali si ragiona della volgar lingua, è la pietra che tiene insieme l’arco di tutto quanto l’italiano: se questo nuovo libro comincia da lui, è perché il precedente finiva implicitamente con lui. Nel sequel (i lettori mi perdoneranno l’inserimento di questo anglismo: la colpa è di Ludovico Ariosto, il più grande creatore di sequel di una possibile storia mondiale della narrazione), al racconto della lingua, della linguistica e dello stile di Bembo tengono dietro quelli della lingua, della linguistica e dello stile di due suoi grandi contemporanei: Ludovico Ariosto e Niccolò Machiavelli. Perché la scelta è caduta proprio su di loro? Nel caso di Ariosto, per ragioni di contiguità; nel caso di Machiavelli, per ragioni di opposizione.

Ariosto alleato di Bembo

Quanto al primo, importa però precisare che contiguità non significa né identità né omologazione. Certo, Ludovico considerava il padre della grammatica italiana un’autorità in fatto di lingua; ma non applicò passivamente e sistematicamente alla terza edizione del suo Furioso (1532) le indicazioni grammaticali contenute nelle Prose di Bembo, di cui fu, come ebbe a dire Cesare Segre, un alleato più che un seguace. D’altra parte, proprio come Ariosto praticò, già nelle edizioni del 1516 e del 1521 – dunque prima della pubblicazione delle Prose – quel cammino verso il fiorentino letterario trecentesco che Bembo avrebbe indicato nella sua elegantissima grammatica, allo stesso modo Bembo saggiò nelle Stanze, grosso modo nello stesso tempo in cui Ariosto andava componendo le prime ottave del Furioso, la possibilità di realizzare un’ottava che, come molte di quelle del poema di Orlando, sintetizzasse narratività e liricità.

Una tale ipotesi è stata bene argomentata, in tempi recenti, da Amalia Juri, e tanto basta a giustificare quanto sia stata felice la scelta di affidare a lei la parte di questo speciale dedicata ad Ariosto.

Machiavelli lontano da Bembo

Quanto a Machiavelli, importa ricordare che la rivendicazione di originalità formale che campeggia nella Dedica del Principe (a) e che ci porta molto lontani da Bembo è stata avvicinata da Giorgio Inglese alla formidabile presa di distanza teorica e storica dalla trattatistica politica precedente formulata nel XV capitolo dello stesso trattato (b):

(a) La qual opera io non ho ornata né ripiena di clausule ample [= formule di chiusura di periodo ampie e complicate] o di parole ampullose e magnifiche [= enfatiche e magniloquenti] o di qualunque altro lenocinio et ornamento extrinseco [= abbellimento stilistico, puramente formale], con li quali molti sogliono le loro cose descrivere et ornare, perché io ho voluto o che veruna cosa la onori o che solamente la varietà della materia e la gravità del subietto la facci grata [la rendano gradita l’originalità e la serietà dell’argomento trattato].

(b) E perché io so che molti di questo hanno scripto, dubito, scrivendone ancora io, non essere tenuto prosumptuoso, partendomi maxime, nel disputare questa materia, dalli ordini delli altri. Ma sendo l’intenzione mia stata scrivere cosa che sia utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di epsa. E molti si sono immaginati republiche e principati che non si sono mai visti né conosciuti in vero essere.**

L’associazione è pertinente. Inglese ha persuasivamente contrapposto l’ideologia stilistica che sostiene il Principe, fondata sulla rivendicazione della «varietà della materia» e della «gravità del subietto», a quella silenziosamente esemplificata undici anni prima ed esplicitamente teorizzata dodici anni dopo la composizione del Principe da Pietro Bembo, rispettivamente negli Asolani e nelle Prose nelle quali si ragiona della volgar lingua. Negli Asolani le «clausule ample» e le «parole ampullose e magnifiche» si sprecano; nelle Prose si afferma che non solo la gravità ma anche la piacevolezza è necessaria a far bella ogni scrittura.

Machiavelli, dunque, sceglie di non scrivere come Bembo. Ma saprebbe scrivere come Bembo?

La risposta è «Sì», anzi: la risposta è «Sì, forse anche meglio di Bembo». Lo dimostra mirabilmente Giovanna Frosini nella terza parte di questo speciale, dedicata alla lettera che Niccolò indirizzò a Giovanni Vettori il 10 dicembre 1513, una lettera che, come ebbe a scrivermi proprio Giovanna in un rapido carteggio telematico, «contiene tutto il mondo». La fugacità del mezzo a cui la studiosa affidò quel giudizio non ha impedito il suo imprimersi in modo definitivo nella mia mente.

**I brani antologizzati sono tratti da Niccolò Machiavelli, De principatibus. Testo critico a cura di Giorgio Inglese, Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 1994, pp. 182 e 253.

Giuseppe Patota presenta La grande bellezza dell’italiano. Il Rinascimento (video)