22 marzo 2022

Le parole dell’odio

Abbiamo la tendenza a pensare che la funzione principale, se non unica, del linguaggio sia quella di rappresentare la realtà e gli oggetti che ne fanno parte. Anche per quel che riguarda il mondo sociale, il linguaggio si limiterebbe a fornirne un’immagine, un catalogo degli individui e dei gruppi che lo popolano, una descrizione delle loro relazioni, dei conflitti e delle ingiustizie che perpetrano o subiscono. Questa immagine del ruolo del linguaggio è stata da tempo messa in discussione, da un lato dalla pragmatica contemporanea e, dall’altro, dalla filosofia femminista e dai Gender, Queer e Critical Race Studies: in questi campi disciplinari si esaminano criticamente le asimmetrie di potere basate su privilegi di genere, etnia, orientamento sessuale, condizione economica, e il linguaggio viene concepito come strumento di gestione di dinamiche sociali e come dispositivo di oppressione. Accanto alla dimensione descrittiva del linguaggio ne viene allora sottolineata la dimensione performativa: con le parole gli individui agiscono nella realtà sociale e la modificano, ne gestiscono la complessità e le dinamiche di potere. Come suggeriva un filosofo del linguaggio del secolo scorso, John Austin, «facciamo cose con le parole»: con le parole parliamo della realtà, ma anche la plasmiamo, ci sposiamo e dichiariamo guerra, condanniamo a morte e ci promettiamo amore eterno, tessiamo legami e spezziamo legami, conferiamo poteri o li revochiamo, concediamo diritti o li circoscriviamo, limitando la stessa possibilità di agire degli altri.

 

Fare del male con le parole

E a volte con le parole facciamo del male. Il linguaggio d’odio (o “hate speech”) racchiude tutti quegli usi discorsivi ostili, offensivi e denigratori volti a colpire un gruppo sociale, e un individuo solo perché appartiene a quel gruppo sociale. Si è cioè oggetto di linguaggio d’odio non in virtù di qualcosa che si è fatto, quanto piuttosto in virtù di qualcosa che si è – in virtù di tratti sociali che possediamo o che ci vengono attribuiti: razza, etnia o nazionalità, religione, genere o orientamento sessuale, qualche forma di disabilità. All’interno della sfera sociale, il ricorso al linguaggio d’odio fa cose in due sensi diversi. Le espressioni di odio sono certamente modi per attaccare, deridere, ferire, umiliare individui, gruppi, comportamenti o affetti considerati estranei e minacciosi – sono quindi forme di aggressione. Allo stesso tempo, però, sono anche strumenti per mettere gli altri in ruoli e posizioni di inferiorità e mettere noi stessi e il gruppo cui apparteniamo in ruoli e posizioni di dominio, sono modi per schierarsi ideologicamente e invitare gli altri a condividere una certa prospettiva sulla realtà sociale: in questo senso il linguaggio d’odio deve essere visto come una forma di propaganda. Le parole d’odio sono dispositivi con cui credenze, atteggiamenti e comportamenti discriminatori vengono presentati come giustificati, diffusi e “normali”; individui e gruppi vengono posizionati su una ingiusta scala sociale, e i loro comportamenti o affetti stigmatizzati e a volte de-umanizzati.

 

Parole che valutano

La doppia valenza del linguaggio è tanto più emblematica per gli epiteti denigratori (termini come negro, puttana o frocio), in cui la dimensione descrittiva e quella performativa sono strettamente connesse. Con un epiteto come frocio, infatti, non solo cataloghiamo o descriviamo un individuo come omosessuale, ma insieme lo valutiamo come degno di disprezzo in quanto omosessuale, e così facendo legittimiamo atteggiamenti e comportamenti discriminatori nei suoi confronti e nei confronti di tutto il gruppo di appartenenza. Negli epiteti sembra essersi codificato e cristallizzato l’odio verso un intero gruppo sociale, presentato come l’altro da sé, costruito come se condividesse una presunta natura o essenza comune che ne tiene insieme tutti i componenti (tutte le donne, tutti i neri, tutte le persone omosessuali, tutte le persone con disabilità), un altro indistinto dove le differenze smettono di contare e vengono annullate.

 

Le etichette denigratorie contro le donne

L’aspetto propagandistico tipico del linguaggio d’odio si manifesta con tratti particolari, e di particolare ferocia, nei confronti delle donne. Nelle nostre lingue esiste una sterminata quantità di epiteti denigratori rivolti contro le donne – e quasi tutti rimandano alla promiscuità in campo sessuale o alla prostituzione. Questa caratteristica è un segnale dell’importanza del controllo sociale sulla sessualità delle donne, nonché della tendenziale riduzione delle donne alla loro sessualità, alla corporeità e persino all’animalità. Etichette denigratorie come troia e puttana vengono utilizzate per condannare atteggiamenti e comportamenti ritenuti inappropriati, ma anche per ricondurre simbolicamente le donne alla sola sfera loro destinata, quella privata e domestica: essi vengono infatti rivolti non solo alle donne dalla condotta sessuale considerata troppo disinibita, ma più in generale alle donne che non si conformano alle norme di genere. Non a caso tali termini vengono usati in modo massiccio per stigmatizzare la partecipazione delle donne alla sfera pubblica. Gli esempi sono noti, e annoverano, fra le altre, la ex presidente della Camera Laura Boldrini, la scrittrice Michela Murgia, la presidente di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, tutte vittime di messaggi violenti e sessualizzati, con minacce di morte e di stupro: attacchi volti non tanto a condannare le loro opinioni quanto a delegittimare la loro presenza attiva negli spazi istituzionali o pubblici.

 

Dall’odiatore isolato al branco minaccioso

Ma questa funzione propagandistica, di gestione e sanzione sociale non è circoscritta ai bersagli diretti del linguaggio d’odio: epiteti e insulti svolgono infatti un ruolo indiretto di sorveglianza anche nei confronti delle donne considerate “per bene”. Il ricorso alle parole d’odio permette infatti a individui isolati e privi di autorità di trasformarsi in branco ostile e minaccioso, che si arroga il potere di controllare e sanzionare aspetto, comportamenti, atteggiamenti, emozioni e sentimenti delle donne – sempre in bilico fra troppo e troppo poco: troppo attente al proprio aspetto, o non abbastanza; troppo emotive, o non abbastanza; troppo sicure e assertive, o non abbastanza; troppo impegnate nella vita familiare, o non abbastanza; troppo competitive, o non abbastanza. Le parole d’odio destinate a disciplinare il comportamento delle donne che violano le aspettative di genere, e usate per rimetterle “al loro posto”, rimbalzano allora sulle spettatrici non direttamente oggetto di denigrazione, e pesano su di loro come una costante minaccia, che traccia per tutte i limiti invalicabili del comportamento accettabile.

 

Riferimenti

Austin John L. 1962, How to do Things with Words, Oxford, Oxford University Press, 2a ed. a cura di J. O. Urmson e M. Sbisà, 1975, trad. it. Come fare cose con le parole, a cura di C. Penco e M. Sbisà, Genova, Marietti, 1987.

Bianchi C. (2021), Hate speech. Il lato oscuro del linguaggio, Roma-Bari, Laterza.

Langton R. (2020), Linguaggio d'odio e autorità: Lezioni milanesi per la Cattedra Rotelli, (a cura di C. Bianchi e L. Caponetto) Milano, Mimesis.

 

Immagine: Edvard Munch, The Scream, 1893, National Gallery, Oslo (1)

 

Crediti immagine: Richard Mortel from Riyadh, Saudi Arabia, CC BY 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/2.0>, attraverso Wikimedia Commons


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