In un recente articolo uscito sul Portale Treccani ho messo in discussione i presupposti del cosiddetto “italiano inclusivo”, rifacendomi al concetto di “grammatica ragionata” e “ragionevole”, che merita un approfondimento. Il riferimento è a una tradizione che risale alla pubblicazione della Grammaire de Port-Royal (1660), frutto della collaborazione tra il grammatico Claude Lancelot e il filosofo Antoine Arnauld, considerata il punto di partenza delle moderne scienze del linguaggio. Come scrivevano nella Prefazione i due autori, l’intento dell’opera non era quello di descrivere il buon uso di una lingua ma quello di sforzarsi di «penetrarne le ragioni e di fare secondo scienza ciò che gli altri fanno solo per abitudine». Questo filone di grammatica filosofica ha conosciuto un grande sviluppo nelle grammatiche pedagogiche del XIX secolo, che si ponevano l’obiettivo di «far riflettere l’alunno su ciò che sa anziché insegnargli la propria lingua» – come scriveva Carlo Antonio Vanzon, autore di una Grammatica ragionata della lingua italiana (1828). Pratiche simili di emancipazione intellettuale, opposte alla pedagogia tradizionale basata sulla spiegazione del maestro, furono sperimentate anche nella didattica del francese come lingua seconda dal rivoluzionario Joseph Jacotot, il “maestro ignorante” cui è dedicato il volume omonimo del filosofo Jacques Rancière (2008).
Quando si parla di “emancipazione grammaticale”, ci si rifà a questa tradizione nella consapevolezza che una conoscenza approfondita e non dogmatica della grammatica della nostra lingua possa favorire pratiche di emancipazione intellettuale in grado di guidare a un uso della lingua non eversivo, ma consapevole e responsabile.
Per avventurarsi su questa strada non basta una conoscenza della grammatica di tipo “scolastico”: che si limiti cioè a mettere in relazione una serie di fenomeni con una lista di etichette, pretendendo di catalogare in modo univoco le diverse forme, come se a ciascuna di esse corrispondesse sempre un’unica funzione. Occorre una conoscenza scientifica della grammatica, basata sulla linguistica moderna, che ci consenta di liberarci di molti stereotipi grammaticali tramandati dalla scuola e di affrontare in modo non superficiale problemi complessi, che intrecciano più livelli della descrizione linguistica (fonologia, morfologia, sintassi, testualità) come accade per il genere grammaticale, del quale qui si discute.
L’innesto della speculazione filosofica nella riflessione grammaticale – nella tradizione della “grammatica filosofica” praticata da Otto Jespersen e Ludwig Wittgenstein – ci consente poi di affrontare in modo più fine il tema dei rapporti tra lingua, pensiero e realtà, che pure si pone quando si parla di una categoria formale come il genere grammaticale.
Un altro utile riferimento per comprendere l’orizzonte nel quale ci muoviamo è rappresentato dalle riflessioni di Antonio Gramsci, che non solo ci aiutano a cogliere la portata di ogni nuova questione linguistica che si impone nella società, ma ci permettono di sfumare la nostra idea di norma grammaticale, suggerendo la via per «una normatività di carattere diverso, più elastico, più “da ragionevole a ragionevole”» (Postille alla Grammatica di Panzini, cit. in Martinelli 1989). Sulla differenza tra una norma prescrittiva e una norma descrittiva mi permetto di rimandare a Prandi e De Santis (2019: cap. II).
Parlare di generi a scuola
In questo intervento approfondirò alcune questioni grammaticali inerenti la marcatura del genere in italiano scegliendo il punto di vista di una particolare “agenzia della norma linguistica”: la scuola, istituzione che – per vocazione e tradizione – ha il compito non solo di insegnare la lingua italiana, ma di educare alla riflessione grammaticale e, più in generale, di formare uno spirito critico che dovrebbe essere applicato anche ai fatti di lingua.
Ho già insistito sull’importanza, per ogni insegnante, di aggiornare le proprie conoscenze intorno al concetto di “genere”: sia per distinguere il genere (inteso come categoria socio-culturale) dal sesso biologico, sia per evitare la sovrapposizione automatica tra il genere in un’accezione extralinguistica (cui si fa riferimento quando si parla di “identità di genere”) e il genere grammaticale (categoria linguistica che in italiano oppone Maschile e Femminile in modi complessi, non riducibili all’opposizione ‘del maschio’ / ‘della femmina’).
Proverò qui a mostrare l’utilità, per l’insegnante, di approfondire le conoscenze sul genere grammaticale alla luce della linguistica moderna: scopriremo così che il genere, in italiano, è una caratteristica intrinseca del nome, che si manifesta anche in altre parti del discorso attraverso forme varie (che non si limitano all’opposizione di desinenze del tipo -o/-a) e non agisce solo sulla forma delle singole parole, ma incide sulla costruzione delle frasi e dei testi.
Ancora sul genere grammaticale
Il genere, in effetti, si presenta come un tipico fenomeno di “interfaccia”, che riguarda a un tempo: la morfologia flessiva (la flessione del nome e dei pronomi personali) e la morfologia derivazionale (sia per la presenza di suffissi specializzati per esprimere il femminile/maschile, come -tore/-trice, sia per la possibilità di formare un femminile dal maschile, capa da capo, e viceversa, divo da diva – tecnicamente si parla di “mozione”, Thornton 2004); la sintassi della frase (per la regola dell’accordo, che impone il genere del nome ai suoi determinanti, tipicamente gli articoli, e modificatori aggettivali; la marca di genere si manifesta inoltre in alcune forme verbali accordate al soggetto, anche a distanza); la testualità (attraverso l’uso dei pronomi di ripresa); la fonetica sintattica (il fenomeno della selezione di varianti eufoniche e l’elisione o troncamento di articoli e aggettivi è regolato anche dal genere del nome). Ridurre il genere grammaticale a una mera questione ortografica che possa essere “risolta” inserendo un simbolo non alfabetico (o un simbolo fonetico) nella nostra grafia mostra quanto ci sia da fare per promuovere uno studio ragionato e aggiornato della grammatica.
Per non cadere in aporie e nelle semplificazioni tipiche del populismo linguistico, dobbiamo imparare (e insegnare) a muoverci nella grammatica dell’italiano con strumenti adeguati allo studio di una lingua moderna e viva, utilizzando spiegazioni scientificamente fondate dei fenomeni osservabili. (Chi volesse approfondire, può rivolgersi a volumi agevoli e aggiornati come Coletti 2021 o De Santis e Prandi 2020).
Conoscere le regole per padroneggiare le scelte
La nostra lingua, come ogni lingua naturale, è un potente dispositivo simbolico che trae il suo fondamento da una singolare combinazione di regole e scelte (Prandi 2006). Se la grammatica tradizionale insisteva sulla cogenza delle regole (e delle innumerevoli eccezioni a corredo), la linguistica moderna ha rivendicato il peso delle scelte nella costruzione dei nostri testi e discorsi. Scelte che sono offerte dal sistema, prima ancora che dall’ambiente linguistico in cui siamo immersi: si tratta cioè di opzioni che si aprono a ogni parlante all’interno del territorio della grammatica, man mano che dalle strutture centrali (fonologia, morfologia, nucleo della frase) ci spostiamo verso quelle più periferiche (frase espansa, frase complessa, costruzione del testo). Una padronanza sicura delle regole unita a una altrettanto solida conoscenza del repertorio delle scelte ci mette in grado di sfruttare al meglio le risorse della lingua e di esercitare la nostra libertà di parlanti in modo responsabile e accettabile da chi si muove nello stesso spazio linguistico.
Flessione e formazione delle parole, come pure il fenomeno sintattico dell’accordo, fanno parte di quel territorio delle regole “regolanti” della nostra lingua che dobbiamo conoscere e rispettare se vogliamo che i nostri discorsi vengano accolti e compresi. Non possiamo scegliere i suoni con cui comporre le parole della nostra lingua e tantomeno decidere dall’oggi al domani di cambiarli. Le vocali dell’italiano standard sono sette: altrettanti suoni pieni che possono costituire il nucleo di una sillaba, individuare la sede dell’accento, chiudere e distinguere le parole, dando col loro timbro una fisionomia diversa a ciascuna di esse. Tolleriamo che questa gamma venga ridotta nell’uso (non è facile distinguere nella pronuncia è aperta da é chiusa e ò aperta da ó chiusa), accettiamo di accogliere occasionalmente suoni nuovi in parole che prendiamo in prestito da altre lingue, adattandoli magari alla nostra pronuncia (è il caso della u in computer, realizzata come la ü di würstel), ma non di introdurre stabilmente suoni che dovrebbero sostituire quelli che conosciamo, riorganizzandone necessariamente le relazioni (la o e la e di computer non vengono realizzate come vocali indistinte, o schwa, secondo la pronuncia inglese, ma come una qualsiasi o ed e atona). D’altra parte, se accettassimo di introdurre un suono come la vocale indistinta nel nostro sistema dovremmo fare in modo che la nuova vocale “faccia sistema”, tenuto conto delle restrizioni connaturate a un suono “senza qualità né quantità” come lo schwa o scevà, che può essere una variante di suoni vocalici atoni o funzionare come vocale d’appoggio, ma non è di per sé un suono con valore distintivo di parole.
Ancora più difficile accettare che si modifichino le regole che presiedono alla formazione e combinazione delle parole, elevando una vocale indistinta allo statuto di desinenza o morfema flessivo (arrivando ad opporre un suono singolare e uno plurale…). Decidere di agire sulla terminazione delle parole per occultare il genere non equivale infatti a intervenire su una convenzione grafica (non si tratta di cambiare la lettera finale per scegliere uno o due simboli più “neutri” per l’occhio): significa modificare in profondità le regole morfologiche di una lingua come la nostra, che affida la marcatura di genere a strategie stratificate, che comprendono il ricorso a desinenze di vario tipo, oltre che a suffissi più o meno specializzati (-tore/trice nella coppia direttore/direttrice, -ente nell’ambigenere presidente).
Ancor prima, non dobbiamo dimenticare che il parlato è la prima dimensione linguistica che ci riguardi, quella da cui si dovrebbe partire nella descrizione del funzionamento di una lingua, oltre che quella in cui entra effettivamente in gioco la dimensione performativa (il “fare cose con le parole”). Da questo punto di vista, rendere indistinta la vocale finale vorrebbe dire rendere irriconoscibili le parole che pronunciamo in un contesto comunicativo, come il parlato, che è meno pianificato dello scritto e che non permette di tornare indietro in caso di errore o di incomprensione. Chiaro che, per rendercene conto, dovremmo essere disposti e capaci di portare certe proposte al livello del parlato (al di là di esperimenti modesti che vanno poco oltre l’esemplificazione episodica) e di non farci distrarre dalla pervasività dello scritto negli usi “social” e più volatili della lingua, né dall’effetto di verità illusorio creato dagli algoritmi.
Una falla nella lingua
A scuola si può e si deve riflettere su questi punti, distinguendo tra la sostenibilità e l’efficacia di interventi isolati, che agiscono su singole parole, e la proposta poco sostenibile di segni che creano una falla nella lingua: perché inseriscono un elemento estraneo al sistema che finisce per essere usato in modo incoerente (come mostra l’analisi del verbale ministeriale fatta da Marazzini 2022) e, anche quando venga usato in modo più coerente (come nei testi comparsi su alcuni giornali e libri a stampa), obbedisce a regole arbitrarie, decise a tavolino (come se si trattasse di mere norme tipografiche) e non coerenti con le regole della nostra lingua. (Su questi e altri limiti linguistici intrinseci alle proposte del sito italianoinclusivo.it rimando allo studio di Giuliana Giusti, 2022).
Vale la pena ribadire che si tratta di operazioni molto diverse da altre iniziative legate alle politiche “di genere”, come la promozione dei femminili dei nomi di professione e carica come sindaca, ministra, architetta, ingegnera, formati secondo le regole della nostra lingua e perfettamente grammaticali. Se questi potevano suonare “nuovi” e suscitare come tali una reazione di rifiuto legata al “sentimento linguistico” di questo o quella parlante (che li giudicava “brutti”), l’occultamento delle desinenze non può non suscitare una reazione più profonda: legata non solo alle abitudini di ascolto, ma alla percezione della violazione di un sistema comune di regole, acquisite in modo libero e spontaneo, sulla cui stabilità contiamo come su quella del terreno su cui camminiamo e il cui rispetto ci garantisce di esprimerci in modo non solo corretto, ma comprensibile e socialmente accettabile.
Diverso è anche l’effetto rispetto alle soluzioni suggerite nelle linee guida sul genere adottate da molte istituzioni del nostro Paese (si veda MIUR 2018), come il raddoppiamento di forme (maschile e femminile, non necessariamente in quest’ordine: la lettrice o il lettore) e le strategie di “oscuramento" del genere come i nomi generici o collettivi (la persona, il personale) o le strutture sintattiche che consentono di mettere in secondo piano l’agente, come le forme impersonali e passive (per approfondire il tema della diatesi si può leggere De Santis 2021).
Il ricorso a queste strutture, che richiede impegno in chi produce il testo e può creare un effetto di appesantimento in chi lo legge, va valutato in relazione alla tipologia testuale, tenuto conto della cautela che alcuni usi della lingua (come quello istituzionale) impongono, se vogliamo salvaguardare la leggibilità dei testi. Il possibile svantaggio legato alla scelta di queste soluzioni è comunque controbilanciato da due caratteristiche: possono essere praticate nello scritto come nel parlato e non precludono la possibilità di trattare automaticamente i testi con programmi (di sintesi e riconoscimento vocale, traduzione immediata, interrogazione rapida ecc.) che ne consentono la fruizione anche a chi non abbia accesso al codice comune (o alla sua forma orale/scritta).
Tra grammatica e lessico: nominare il nuovo
A scuola si potrà riflettere anche sulla differenza di impatto e di accettabilità di proposte che puntino all’arricchimento del nostro vocabolario, anziché alla forzatura delle regole grammaticali. Il vocabolario, infatti, a differenza della grammatica di una lingua, non è un insieme chiuso ma un insieme aperto, continuamente ampliabile, e come tale più adatto a piegarsi al nostro bisogno di nominare il nuovo, di rinominare il noto, di estendere il significato di parole esistenti perché abbraccino nuove realtà; diversamente dalla grammatica, del resto, che non deve rendere conto di nessuna realtà (Wittgenstein 1990), il vocabolario può essere considerato un indice molto sensibile della cultura di un popolo (Sapir 1972).
L’insegnante sensibile potrà far notare come la coniazione di alcuni neologismi abbia contribuito a rendere “visibili” fatti che prima rimanevano isolati e senza nome. Femminicidio, per esempio, è una parola che ha permesso di prendere coscienza di un fenomeno drammatico e di adottare provvedimenti per contrastarlo. Paraolimpiadi (con il derivato paraolimpico/a) ha dato riconoscimento e sicurezza alle persone con disabilità che praticano sport a livello agonistico. Sono solo due esempi di creatività lessicale che sfruttano i procedimenti tipici di formazione delle parole in italiano, ma potremmo aggiungere anche sigle lessicalizzate, come LGBTQIA+ (dove però l’inserimento del segno matematico, nell’alludere a una pluralità di identità, ha bloccato la possibilità di formare derivati), o i tanti prestiti dall’inglese come stalking, a indicare un tipo di molestie ora perseguibili per legge.
Sempre in ambito lessicale, è possibile oscurare e sostituire parole che risultino offensive o discriminanti alla luce di una mutata sensibilità, che punta a riconoscere e valorizzare anziché stigmatizzare le differenze. Vanno in questa direzione le iniziative volte a contrastare le “parole ostili” (hate speech): iniziative che in ambito scolastico andrebbero inserite in un contesto più ampio di sensibilizzazione a un uso responsabile della lingua. Con l’avvertenza che anche simboli e parole “identitarie”, usate per escludere o stigmatizzare ciò che è diverso da sé o non rafforza le proprie convinzioni (si veda il termine terf, usato in modo spregiativo da alcune femministe per escluderne altre dal dibattito), possono diventare strumento di offesa e aprire la strada a un “linguaggio autoritario” non meno sprezzante e intollerante di quello che si vorrebbe contrastare, capace di imporsi con la forza del conformismo culturale. Di fronte a questo tipo di linguaggio possiamo difenderci esercitando «una cautela nell’ascolto e nella lettura, una consapevolezza che c’è una predisposizione alla suggestione in noi, che deve essere messa a freno, che deve essere sorvegliata» (Pontiggia 2004).
La libertà linguistica tra norma e uso
Ultimo punto, non meno importante, sul quale riflettere in classe: di un uso responsabile della lingua dovrebbe far parte anche il rispetto della dimensione ‘altra’ della lingua, che non è un corpo individuale sul quale possiamo agire in base al nostro desiderio, ma un dispositivo simbolico che ci impone di passare le nostre scelte al vaglio della norma condivisa dall’intera comunità di parlanti. Non perché la norma linguistica non sia storicizzabile e quindi modificabile (come vedremo più avanti) ma «perché la norma ha un valore sociale e, inoltre, il suo rispetto aiuta la mutua comprensione» (Albano Leoni 2020: 40).
Nella lingua, come in altri ambiti sociali, il diritto del singolo individuo all’autodeterminazione e alla libera espressione deve trovare un terreno di mediazione con le esigenze della collettività: l’uso linguistico individuale deve scendere a patti con l’uso sociale, eludendo le tentazioni dell’indifferenza e dell’anarchia, per non diventare abuso. Di questa dialettica tra creatività e sottomissione vive l’autentica libertà linguistica, come ci ha insegnato Benvenuto Terracini (1963), nostro precursore degli studi sociolinguistici.
Del resto, come parlanti e scriventi, da un lato chiediamo alla lingua di piegarsi alle nostre esigenze espressive (è il caso degli usi letterari, la cui analisi impegna molte energie a scuola) o al nostro bisogno di riconoscibilità (è il caso di usi identitari e mobilitanti, tipici delle comunità che lottano per i diritti civili), dall’altro abbiamo bisogno di un sistema stabile di regole condivise e ne reclamiamo continuamente il rispetto in nome anche di quel senso di appartenenza a una certa comunità linguistica che tanta parte ha nella costruzione della nostra identità. Si spiega così, del resto, il successo di tante rubriche di consulenza linguistica e pubblicazioni “salvalingua”.
Dove, se non a scuola, possiamo diventare sensibili a questo valore immateriale della lingua, intesa come “bene comune”, il cui rispetto è garanzia di democrazia? Riconoscere autorità alla lingua che spontaneamente parliamo, e che ci permette di comunicare, è infatti il primo passo per poter entrare in relazione attraverso le nostre differenze e disparità (Muraro 2013).
Pertiene poi alla scuola, anche in ottica di educazione alla cittadinanza, il compito di abituare alla flessibilità degli usi, alla capacità cioè di muoversi agilmente all’interno della lingua, adattandola alle diverse situazioni comunicative: dall’informalità della comunicazione personale alla formalità di quella istituzionale, dalla “elasticità” dei testi più aperti all’interpretazione (quale può essere un brano letterario) alla “rigidità” del testo di legge (sulla distinzione si veda Sabatini 2016).
La lingua cambia, sì, ma come?
La nostra lingua è viva e in movimento, è vero, e come tale non è immutabile; è anzi aperta a innovazioni che, con un ritmo accelerato nell’ultimo mezzo secolo di storia linguistica, hanno determinato cambiamenti non sconvolgenti, ma significativi. Si tratta di “innovazioni” che vengono più spesso dal parlato spontaneo che dallo scritto, e che tendono a risalire “dal basso” (cioè da varietà di lingua informali, portate alla semplificazione) più che a calare “dall’alto” (come accade per quegli anglismi «che sembrano rispondere più alla moda della lingua feticcio che a un vero bisogno linguistico», Albano Leoni 2020: 44). In ogni caso, a prescindere dalla loro provenienza, i fenomeni innovativi vanno valutati sulla lunga durata e in relazione al “volume linguistico” effettivo acquistato nel tempo e nello spazio sociale, al di là degli effetti di distorsione legati alla pervasività del mezzo (lo scritto dell’uso colto ieri, lo scritto trasmesso attraverso i social media oggi).
Prendiamo per esempio l’ortografia, che appare il settore più stabile della nostra lingua (Serianni 2006): quello in cui per ogni insegnante è più facile distinguere tra giusto e sbagliato. Certo, la conoscenza dei testi dei secoli scorsi ci mette a contatto con grafie oggi mutate, come lagrima, giovine, quistione. Nella nostra storia linguistica personale possiamo inoltre essere testimoni di cambiamenti: per esempio la normalizzazione della grafia analogica famigliare in luogo di familiare, o la promozione della grafia sé stesso. Certo è che in Italia non abbiamo avuto interventi di riforma dell’ortografia, come è avvenuto di recente in altri Paesi, quali Francia o Germania. Né si sono diffuse proposte occasionali legate all’uso militante della lingua, come il simbolo k (al posto della c “dura” o palatale) usato dai movimenti studenteschi del secolo scorso in scritte murali, volantini e tazebao. Ci sono stati nell’ultimo secolo alcuni interventi di regolarizzazione grafica dovuti all’azione della scuola, che ha promosso per esempio le grafie ha e ho (in luogo di à e ò) e ha stabilito una volta per tutte quando inserire la i (muta) nella grafia dei plurali in -cia e -gia.
In generale, tuttavia, prevale in questo ambito un “istinto linguistico conservatore” (Renzi 2012) che giustifica le resistenze verso le nuove proposte: come scriventi abbiamo bisogno di decidere con sicurezza e rapidità la forma corretta, sapendo di poter contare su un sistema di regole stabili e condivise. E ciò vale a maggior ragione quando ci spostiamo dal territorio dell’ortografia, che riguarda le convenzioni grafiche di rappresentazione della lingua, a quello della grammatica, che concerne le strutture portanti della lingua.
Sarà utile riflettere come in questo settore i cambiamenti, per riprendere una metafora di lunga durata nel pensiero linguistico, siano paragonabili ai movimenti geologici di “deriva” più che a quelli tettonici («la deriva di una lingua è costituita dalla selezione inconscia, compiuta dai suoi parlanti, di quelle variazioni individuali che si concentrano in una certa direzione», Sapir 1969: 155). In generale, approfondendo la dimensione storica di una lingua di tradizione come l’italiano, si potrà prendere coscienza della tendenza ad accogliere il nuovo senza rinunciare al vecchio, come accade nelle strade di tante nostre città, nel mobilio delle nostre case, nei nostri guardaroba.
La lezione dei pronomi personali
Un esempio evidente di questa stratificazione storica è dato dal nostro paradigma dei pronomi personali che, oltre alle distinzioni di genere e numero, mantiene l’opposizione esistente in latino tra pronomi riferibili ad animati (come lui/lei) e inanimati (esso/essa), nonché quella tra forme aventi funzioni sintattiche diverse (lei soggetto, la oggetto diretto, le oggetto indiretto): di fatto, l’italiano conserva residui del sistema dei casi latino (nominativo, accusativo, dativo). A ciò va aggiunto che il sistema pronominale ha subìto profonde ristrutturazioni, che hanno limitato o ampliato gli ambiti d’uso di alcune forme: egli è un pronome soggetto che ha un impiego ristretto sia dal punto di vista della distribuzione (si usa come anaforico e solo in posizione non marcata) sia delle situazioni comunicative (nell’italiano contemporaneo è relegato allo scritto formale); gli è un pronome dativo maschile singolare che tende a imporsi nel parlato (senza forzature patriarcali) a spese del femminile le e del plurale comune loro, generalizzando un uso autorizzato nei pronomi atoni combinati ( Gli elo dico può riferirsi a lei, lui, loro). Che la deriva della lingua vada spontaneamente verso una forma non marcata rispetto al genere è mostrato anche dall’evoluzione di loro soggetto, che si impone a scapito di essi/esse. E forse proprio su questa forma (come suggerisce Giusti 2022) potrebbero convergere le scelte delle persone non binarie: non come mero calco dell’inglese they, ma alla luce di un’attenta considerazione delle possibilità di evoluzione suggerite dal nostro sistema.
Sicuramente, comunque, l’uso dei pronomi è uno dei punti sui quali ha senso discutere in classe, a maggior ragione se ci si confronta con una generazione che ritiene opportuno chiedere e specificare quale sia il pronome voluto in relazione all’identità di genere, e lo fa riferendosi alle forme inglesi he/she. In effetti, a differenza dei nomi, che si limitano a classificare referenti, i pronomi identificano direttamente referenti, attribuendo subito un genere grammaticale. Non a caso anche l’inglese, che di regola non marca il genere nei nomi (né negli articoli e aggettivi riferiti al nome), distingue forme maschili e femminili quando si parla di una terza persona, e non solo nei pronomi personali ma nei possessivi (his/her, ‘di lui/di lei’).
Se alla prima persona l’identificazione avviene in modo immediato con chi parla (io), alla terza persona bisogna fare una scelta tra pronome M e F; già alla seconda persona, del resto, il tu deve essere negoziato con chi ascolta (anche in relazione all’esistenza del pronome allocutivo di rispetto lei). Questa scelta può avvenire sul piano discorsivo nel rispetto delle preferenze individuali quando queste siano manifestate all’interno di ecosistemi linguistici (come la classe) che ci consentano di conoscere le persone e di nominarle nel rispetto delle loro esplicite volontà.
Quanto alle proposte di pronomi nuovi per nominare nuove realtà, queste dovrebbero essere attentamente valutate alla luce della complessità del sistema linguistico, che per la funzione di soggetto necessita di forme adatte a comparire in posizione tonica (sede normalmente preclusa alla vocale indistinta) e richiederebbe comunque altre forme del pronome oltre a quella del soggetto (si tratterebbe di sostituire non solo lui/lei, ma gli/le e la/lo). Prima di valutare le nuove proposte, del resto, sarebbe necessario emanciparsi da forme che la scuola si sforza invano di tenere in vita (come egli ed ella, che resistono tenaci nei paradigmi dei verbi), come pure dalla convinzione che si debbano bandire forme legittime di intensificazione pronominale al servizio della messa a fuoco della persona (l’aborrito a me mi, a torto considerato un errore), normalmente diffuse in altre lingue quali lo spagnolo e il francese. Sarà utile anche riflettere sul fatto che l’italiano, a differenza di lingue come francese e inglese, ci solleva dall’obbligo di esplicitare sempre il pronome soggetto davanti alle forme verbali: i paradigmi ricchi e differenziati dei verbi consentono infatti di risalire agevolmente alla persona (con l’eccezione di alcune forme del congiuntivo).
Questi elementi di complessità ci fanno subito rendere conto di come ogni soluzione che pretenda di agire sul genere delle parole in modo semplicistico, con espedienti grafici o sostituzioni occasionali di forme pronominali, sia destinata a incontrare legittime resistenze, e non solo da parte delle autorità in fatto di lingua (tale è considerata in Italia l’Accademia della Crusca), ma da parte di ogni parlante che abbia una conoscenza approfondita e ragionata della grammatica italiana, non ferma al dogma scolastico.
Dalla grammatica alla matematica: i quantificatori
Gli interventi per una lingua inclusiva toccano anche un’altra categoria importante di parole, tradizionalmente rubricate sotto la categoria degli aggettivi determinativi, sottocategoria degli aggettivi (o pronomi) indefiniti: si tratta dei quantificatori, parole come tutto e tutti, poco e tanto, che ci danno informazioni sulla quantità di referenti numerabili o sulla quantità approssimata di una sostanza. Non si tratta di parole come le altre: sono operatori logici, che possono acquistare valori di volta in volta diversi. Tutto e ogni, per esempio, non sono sinonimi: entrambi si riferiscono alla totalità di un insieme, ma tutto/tutti lo precisa in senso sommativo, ogni lo precisa invece in senso distributivo o moltiplicativo a seconda dei contesti.
Magari non ci pensiamo quando scriviamo Car* tutt* nell’intestazione di una mail, ma non possiamo non pensarci quando risolviamo un problema matematico. La verità è che, quando si fa grammatica a scuola, ci si dimentica del valore di queste parole: si etichettano frettolosamente, assicurandosi al più di aver distinto il pronome dall’aggettivo; per l’aggettivo si specificano magari le marche di genere e numero, senza preoccuparsi di cosa conti davvero per la comprensione del testo.
Anche quando si parla di lingua inclusiva ci si concentra sul genere trascurando la complessità del numero e il funzionamento delle parole che, nella lingua, servono per quantificare la realtà. Davvero Car* tutt* è più universale di Cari tutti? Il logico Andrea Iacona (2022) ci invita riflettere su questo punto in un articolo apparso di recente sul Portale dell’Accademia della Crusca che vale la pena di leggere.
Tornando dai numeri alle lettere: ho già avuto modo di accennare a come l’inserimento di simboli non alfabetici possa compromettere la fluidità di lettura, a maggior ragione in una lingua come l’italiano, caratterizzata da una forte coerenza tra grafia e fonetica (si legge come si parla). La salvaguardia della consistenza grafica delle parole diventa allora una condizione necessaria per garantire una lettura agevole, e non solo nel primo apprendimento.
Un insegnante responsabile – di fronte a questi argomenti – trarrà le conclusioni opportune.
Per finir(la)
Chiudo tornando all’inizio: occorre una conoscenza più approfondita e meditata dei fatti linguistici, aperta al dubbio dove questo abbia ragione di essere nutrito, che ci metta in grado di riconoscere l’arbitrarietà costituiva della lingua (cioè il carattere astratto e non motivato delle unità linguistiche e l’indipendenza della grammatica dalla realtà), che è cosa diversa dall’arbitrio individuale, cioè dalla volontà del singolo di imporsi senza riferimento a (o a scapito di) norme esteriori. Per citare ancora un linguista più evocato che letto, Edward Sapir, «nuove esperienze culturali rendono spesso necessario ampliare le risorse di una lingua, ma tale ampliamento non è mai un’aggiunta arbitraria ai materiali e alle forme già esistenti; non è che un’ulteriore applicazione dei principii già in uso e, in molti casi, non è quasi altro che un’estensione metaforica di vecchi termini e significati» (1972: 7). Del resto, «un’organizzazione linguistica, a meno che non ceda a un’altra lingua che ne prenda il posto, tende, in gran parte perché è inconscia, a conservarsi per un tempo indefinito e non ammette che le sue fondamentali categorie formali siano seriamente influenzate dal cambiamento dei bisogni culturali» (ivi: 28).
Se le ragioni linguistiche non seducono e non persuadono il nostro giovane pubblico, possiamo sempre tornare ai testi poetici della tradizione: lì, meglio che altrove, apprezzeremo la capacità delle parole di creare mondi possibili. A patto di mantenerne salda l’identità fino all’ultima vocale, disposta a cadere solo per ragioni di metrica.
Volgiamoci anche alla poesia contemporanea. Per ascoltare il grido gentile di chi, nel «mondo invaso da ultracorpi», vede lacerarsi quanto abbiamo di più caro: «il sogno di una lingua condivisa» (Valerio Magrelli 2006: 74 s.).
Più grammatica e più poesia, dunque. Per continuare a comunicare con la lingua comune. Per rimanere umani nel mondo post-umano.
Testi citati
F. Albano Leoni, Lingua e dialetti, in Enciclopedia italiana, Appendice X, vol. II (M-Z), Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2020, pp. 39-46.
V. Coletti, Nuova grammatica dell’italiano adulto, Bologna, il Mulino, 2015 e 2021.
C. De Santis, Quantificatori, in Enciclopedia dell’Italiano, diretta da R. Simone, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, vol. II, M-Z, 2011.
C. De Santis, La sintassi della frase semplice, “Le strutture dell’italiano contemporaneo”, Bologna, il Mulino, 2021.
C. De Santis e M. Prandi, Grammatica italiana essenziale e ragionata, Torino, UTET, 2020.
G. Giusti, Inclusività della lingua italiana, nella lingua italiana: come e perché. Fondamenti teorici e proposte operative, “DEP. Rivista telematica di studi della memoria femminile”, n. 48, 1/2022, pp. 1-19.
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A. Iacona, Cari tutti, Accademia della Crusca, 8 gennaio 2022.
V. Magrelli, Post scriptum. Addio alla lingua, in Disturbi del sistema binario, Einaudi, 2006.
C. Marazzini, L’italiano sotto assedio tra asterischi e chiocciole, “Il Mattino”, 7 febbraio 2022.
R. Martinelli, Un dialogo tra grammatici. Panzini e Gramsci, “Belfagor”, n. 6, 30 novembre 1989, pp. 681-688.
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Immagine: Memory birth, digital drawing 2010, by Tammy Mike Laufer
Crediti immagine: Tammy Mike Laufer, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, attraverso Wikimedia Commons