Ci sono due ipotesi che sono del tutto indipendenti e che sembrano innocue. La prima è che esistano lingue migliori di altre: lingue più o meno musicali, lingue più o meno adatte a esprimere concetti astratti, lingue più o meno sensibili a cogliere le differenze di genere, ecc. La seconda è che la lingua che si parla determina il modo nel quale percepiamo la realtà e ragioniamo. Ciascuna delle due ipotesi, che – ripeto – sono totalmente indipendenti, non sembra avere un impatto particolarmente forte o destare preoccupazione, anzi si tratta di due idee che circolano liberamente tanto nei salotti privati che ai microfoni delle trasmissioni televisive e radiofoniche.
Non esistono lingue migliori di altre
Il problema sta nel fatto che se queste due ipotesi si combinano producono una miscela deflagrante: diventa infatti possibile mettere gruppi di individui in una graduatoria di merito rispetto alla capacità di percepire la realtà e di pensare, in base alla lingua che parlano. Se questo fosse vero, si potrebbero immaginare dei piani di correzione: per esempio, si può fare in modo che chi parla una certa lingua inferiore ne impari un’altra superiore ma il progetto è poco pratico: se la lingua nuova non viene appresa nell’infanzia, non ci si riesce a liberare della prima lingua e la padronanza rimane sempre sotto il livello di quella di un parlante nativo; in alternativa, si potrebbe immaginare di far sparire le lingue meno evolute e allora le prossime generazioni non correrebbero rischi di incontrare individui inferiori. Anzi, forse si potrebbe addirittura parlare tutti la stessa lingua.
La combinazione di queste due ipotesi diventerebbe il fondamento di un “razzismo cognitivo” su base linguistica a dir poco devastante. E non si pensi che questo delirio sia solo il frutto di ansie apocalittiche di un linguista. Ci fu un periodo della storia contemporanea, circa la metà dell’Ottocento, nel quale questo pericolo divenne realtà. Soprattutto a partire dai lavori di un linguista bavarese, Max Müller, attivo in Inghilterra, si pensò che una certa popolazione nobile del passato, dotata di strutture sociali nobili e caratterizzata dalla possibilità di formulare concetti nobili, fosse tale perché parlava una lingua nobile. L’aggettivo utilizzato da questa popolazione per esprimere il concetto di nobiltà, ma anche per riferirsi a se stessi, era: ariano. Il delirio della purezza della razza ariana, basato sul legame tra lingua e razza, fu in effetti oggetto di abiura da parte di Müller a fine carriera ma la propaganda politica occidentale, certamente quella nazionalsocialista ma certamente non solo quella, mi riferisco agli Stati Uniti e al Regno Unito, e parte di quella orientale, in particolare quella Giapponese, fece di quell’ipotesi la base propulsiva dell’eugenetica, soprattutto in chiave antisemitica, e divenne il suo vessillo.
La lingua e la realtà, la lingua nella realtà
Questo avveniva un secolo fa: oggi si è creduto di eliminare il problema del razzismo eliminando la parola razza e sostituendola con altri termini, come ad esempio, spesso, in italiano, etnia. Ma con questo non solo non si è eliminata la giustificazione del razzismo ma si è di fatto lasciato incustodito il punto più delicato dove si può infilare (di nuovo) nella sua forma più subdola e pericolosa: quello che non si basa su differenze fisiche tra le persone, ma su differenze cognitive. Intendiamoci: non si sta parlando della coerenza del termine razza sul piano della genomica: di questo stanno dibattendo i biologi, per altro in modo discorde. Parlo del fatto che non possiamo negare che esistano caratteri somatici differenti e comuni: neri, bianchi, gialli, se vogliamo usare questi termini cromatici per il colore della pelle, e che tipicamente questi tratti comuni possano riferirsi implicitamente anche altri, tratti come la forma degli occhi e del naso, ad esempio. Gli esseri umani sono portati naturalmente a chiamare con nomi collettivi individui o oggetti che hanno caratteristiche comuni: se non si vuole usare razza perché il ricordo di come questo termine fu impiegato nel passato o il fatto che si applichi anche agli animali può essere visto come negativo, siamo liberissimi di farlo. Ma non di pensare che abolendo la parola razza aboliamo anche la percezione dei tratti fisici comuni tra le popolazioni. Che queste esistano è innegabile come dato descrittivo. Che queste contino, è invece discutibile, a meno di non selezionare una funzione per la quale una certa costituzione fisica media sia un vantaggio. La realtà delle differenze non si può annullare con operazioni di ingegneria linguistica.
Al variare della lingua non percepiamo in modo diverso la realtà
Quello che invece deve importare è che le due tesi cui facevo riferimento all’inizio sono completamente false: non esistono lingue migliori di altre né al variare della lingua percepiamo la realtà e ragioniamo in modo diverso. Dunque non esistono graduatorie di merito in base alla capacità di percepire la realtà o di ragionare, in breve di intelligenza, valide collettivamente e basate sulla lingua che si parla. Qui il punto si fa delicatissimo soprattutto per via di un’interferenza emotiva della quale, inaspettatamente forse, si accorse Dante, come ci racconta nel VI libro del De Vulgari eloquentia.
Andiamo però con ordine, lasciando Dante alla fine del discorso. In primo luogo, per dire che una lingua è migliore di un’altra occorre un sistema di riferimento e a tutt’oggi nessun lavoro scientifico è riuscito a dire che ciò che si può esprimere in una lingua non sia esprimibile in un’altra (Newmeyer – Preston 2014). Ovviamente, in una certa lingua, può essere che il riferimento linguistico avvenga con una sola parola mentre in un’altra ce ne vogliano di più. Ma questo non fa dei cuochi francesi dei professionisti meno abili solo per il fatto che per indicare ciò che noi italiani chiamiamo patata debbano ricorrere a un’espressione più complessa come pomme de terre. E lo stesso vale per tutti i termini, anche i più sublimi, come quelli che si riferiscono all’“essere” (Moro 2016). In generale, chi, per motivi nostalgici, pensa che una parola in una lingua non abbia corrispettivi in un’altra dovrebbe appunto ricordarsi che dove una parola sola non basta, vengono in soccorso le perifrasi. Le impressioni soggettive sono certamente reali ma non sono misurabili e come tali non entrano come fattori nelle valutazioni scientifiche. Invece, dove invece si possono misurare le differenze linguistiche, in dominî circoscritti, ad esempio, come nel repertorio dei nomi dei colori, si sa per certo che non ci sono differenze percettive al variare delle lingue. Infine, anche in ambiti astratti come la logica, che non sono quantificabili ma sono rigorosamente controllabili, si è scoperto che tutte le lingue del mondo contengono istruzioni per pensare sostanzialmente in modi simili tra loro, come per il caso dei quantificatori generalizzati (per questi argomenti, rimando al Moro 2019 ed ai riferimenti citati).
Nella Pietramala di Dante
Rimane tuttavia la questione dell’interferenza emotiva nel giudicare una lingua nel suo complesso. È a questo proposito che Dante comprende un fatto sul quale purtroppo né la sua cultura contemporanea né quella dei secoli successivi avrebbe dato importanza sufficiente. Dante dice che pensa in modo osceno (obscenus) chi, come gli abitanti della grandissima città di Pietramala, per il fatto di sentire il luogo dove sono nati come il più bello al mondo, ritengono che anche la loro lingua sia di conseguenza la migliore del mondo. Dante tiene così tanto a questo pensiero che, abbandonando il tono razionale proprio del trattato scientifico, si concede lo scatenamento di un effetto comico: cita come esempio di città grandissima il borgo di Pietramala, un luogo dimenticato da tutti. Ma l’innamoramento – si sa - è una forza troppo forte contro il quale non ha senso opporre ragionamenti né vale l’ironia.
Oggi sta a noi capire se abitiamo a Pietramala, consapevolmente o meno, o se davvero è abbandonata e ridotta a un rudere. E la cosa è ancor più importante nel momento in cui si affacciano sulla scena teorie secondo le quali si possono inventare lingue artificiali migliori di quelle naturali. Per fortuna l’ancoraggio della grammatica al cervello umano è così robusto che di tali lingue impossibili non se ne sente parlare se non in qualche romanzo (come ad esempio in Moro 2018).
Chi crede che quello che ho cercato di argomentare non sia vero e sostiene che le lingue invece condizionino il modo di vedere la realtà e che ci siano lingue migliori di altre è ovviamente liberissimo di continuare a crederlo e di battersi per provarlo ma deve rendersi conto che con questa posizione si assume la responsabilità di aprire uno spazio fertile a chi intende discriminare le persone secondo ciò che è più prezioso: la nostra capacità di percepire la realtà e di ragionare. Possiamo essere di razze diverse ma parliamo tutti la stessa lingua.
Testi citati
Chomsky, N. – Moro, A. (in stampa) The secrets of words, MIT Press, Cambridge, Massachusetts; trad. it. I segreti delle parole, La Nave di Teseo, Milano.
Moro, A. (2010) Breve storia del verbo “essere”, Adelphi, Milano.
Moro, A. (2019) La razza e la lingua. Sei lezioni sul razzismo, La Nave di Teseo, Milano.
Moro, A. (2018) Il segreto di Pietramala, La Nave di Teseo, Milano.
Newmeyer, F. – Preston, L. (a cura di) (2014), Measuring Grammatical Complexity, Oxford University Press, Oxford.
Immagine: The Hendrick van Cleve III Group - The construction of the Tower of Babel
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